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Giambattista Vico: Opere
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IV-1: La Scienza Nuova (I) (giusta l'edizione del 1744)
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Principj di Scienza Nuova

Principj di Scienza Nuova

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PRINCÍPI DI SCIENZA NUOVA
di
Giambattista Vico
d’intorno alla comune natura delle nazioni
in questa terza impressione
dal medesimo autore
in un gran numero di luoghi
corretta, schiarita e notabilmente accresciuta

3 ―

IDEA DELL’OPERA

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Spiegazione
della dipintura proposta al frontispizio
che serve per l’introduzione dell’opera

[1] Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla, e per ridurla piú facilmente a memoria, con tal aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta.

[2] La donna con le tempie alate che sovrasta al globo mondano, o sia al mondo della natura, è la metafisica, ché tanto suona il suo nome. Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose naturali, per lo quale finora l’hanno contemplato i filosofi; perch’ella, in quest’opera, piú in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è ’l mondo metafisico, per dimostrarne la provvedenza nel mondo degli animi umani, ch’è ’l mondo civile, o sia il mondo delle nazioni; il quale, come da suoi elementi, è formato da tutte quelle cose le quali la dipintura qui rappresenta co’ geroglifici che spone in mostra al di sotto. Perciò il globo, o sia il mondo fisico ovvero naturale, in una sola parte egli dall’altare vien sostenuto; perché i filosofi, infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale

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a Dio, come a Mente signora libera ed assoluta della natura (perocché, col suo eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l’essere, e naturalmente lo ci conserva), si dánno dagli uomini l’adorazioni co’ sacrifíci ed altri divini onori; ma nol contemplarono giá per la parte ch’era piú propia degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietá: d’essere socievoli. Alla qual Iddio provvedendo, ha cosí ordinate e disposte le cose umane, che gli uomini, caduti dall’intiera giustizia per lo peccato originale, intendendo di fare quasi sempre tutto il diverso e, sovente ancora, tutto il contrario — onde, per servir all’utilitá, vivessero in solitudine da fiere bestie, — per quelle stesse loro diverse e contrarie vie, essi dall’utilitá medesima sien tratti da uomini a vivere con giustizia e conservarsi in societá, e sí a celebrare la loro natura socievole; la quale, nell’opera, si dimostrerá essere la vera civil natura dell’uomo, e sí esservi diritto in natura. La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella, per tal aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina.

[3] Nella fascia del zodiaco che cinge il globo mondano, piú che gli altri, compariscono in maestá o, come dicono, in prospettiva i soli due segni di Lione e di Vergine, per significare che questa Scienza ne’ suoi princípi contempla primieramente Ercole (poiché si truova ogni nazione gentile antica narrarne uno, che la fondò); e ’l contempla dalla maggior sua fatiga, che fu quella con la qual uccise il lione, il quale, vomitando fiamme, incendiò la selva nemea, della cui spoglia adorno, Ercole fu innalzato alle stelle (il qual lione qui si truova essere stata la gran selva antica della terra, a cui Ercole, il quale si truova essere stato il carattere degli eroi politici, i quali dovettero venire innanzi agli eroi delle guerre, diede il fuoco e la ridusse a coltura); — e per dar altresí il principio de’ tempi, il quale, appo i greci (da’ quali abbiamo tutto ciò ch’abbiamo dell’antichitá gentilesche), incominciarono dalle olimpiadi co’ giuochi olimpici, de’ quali pur ci si narra essere stato Ercole il fondatore (i quali giuochi dovettero incominciar da’ nemei,

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introdutti per festeggiare la vittoria d’Ercole riportata dell’ucciso lione); e sí i tempi de’ greci cominciarono da che tra loro incominciò la coltivazione de’ campi. E la Vergine, che da’ poeti venne descritta agli astronomi andar coronata di spighe, vuol dire che la storia greca cominciò dall’etá dell’oro, ch’i poeti apertamente narrano essere stata la prima etá del lor mondo, nella quale, per lunga scorsa di secoli, gli anni si noverarono con le messi del grano, il quale si truova essere stato il primo oro del mondo; alla qual etá dell’oro de’ greci risponde a livello l’etá di Saturno per li latini, detto a «satis», da’ seminati. Nella qual etá dell’oro pur ci dissero fedelmente i poeti che gli dèi in terra praticavano con gli eroi; perché dentro si mostrerá ch’i primi uomini del gentilesimo, semplici e rozzi, per forte inganno di robustissime fantasie, tutte ingombre da spaventose superstizioni, credettero veramente veder in terra gli dèi; e poscia si truoverá ch’egualmente, per uniformitá d’idee, senza saper nulla gli uni degli altri, appo gli orientali, egizi, greci e latini, furono da terra innalzati gli dèi all’erranti e gli eroi alle stelle fisse. E cosí, da Saturno, ch’è Χρόνος a’ greci (e χρόνος è il tempo ai medesimi), si dánno altri princípi alla cronologia o sia alla dottrina de’ tempi.

[4] Né dee sembrarti sconcezza che l’altare sta sotto e sostiene il globo. Perché truoverassi che i primi altari del mondo s’alzarono da’ gentili nel primo ciel de’ poeti; i quali, nelle loro favole, fedelmente ci trammandarono il Cielo avere in terra regnato sopra degli uomini ed aver lasciato de’ grandi benefíci al gener umano, nel tempo ch’i primi uomini, come fanciulli del nascente gener umano, credettero che ’l cielo non fusse piú in suso dell’alture de’ monti (come tuttavia or i fanciulli il credono di poco piú alto de’ tetti delle lor case); — che poi, vieppiú spiegandosi le menti greche, fu innalzato sulle cime degli altissimi monti, come d’Olimpo, dove Omero narra a’ suoi tempi starsi gli dèi; — e finalmente alzossi sopra le sfere, come or ci dimostra l’astronomia, e l’Olimpo si alzò sopra il cielo stellato. Ove, insiememente, l’altare, portato in cielo, vi forma un segno celeste; e ’l fuoco, che vi è sopra, passò nella

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casa vicina, come tu vedi qui, del Lione (il quale, come testé si è avvisato, fu la selva nemea, a cui Ercole diede il fuoco per ridurla a coltura); e ne fu alzata, in trofeo d’Ercole, la spoglia del lione alle stelle.

[5] Il raggio della divina provvedenza, ch’alluma un gioiello convesso di che adorna il petto la metafisica, dinota il cuor terso e puro che qui la metafisica dev’avere, non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltá di corporali piaceri; col primo de’ quali Zenone diede il fato, col secondo Epicuro diede il caso, ed entrambi perciò niegarono la provvedenza divina. Oltracciò, dinota che la cognizione di Dio non termini in essolei, perch’ella privatamente s’illumini dell’intellettuali, e quindi regoli le sue sole morali cose, siccome finor han fatto i filosofi; lo che si sarebbe significato con un gioiello piano. Ma convesso, ove il raggio si rifrange e risparge al di fuori, perché la metafisica conosca Dio provvedente nelle cose morali pubbliche, o sia ne’ costumi civili, co’ quali sono provenute al mondo e si conservan le nazioni.

[6] Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisica nella statua d’Omero, primo autore della gentilitá che ci sia pervenuto, perché, in forza della metafisica (la quale si è fatta da capo sopra una storia dell’idee umane, da che cominciaron tal’uomini a umanamente pensare), si è da noi, finalmente, disceso nelle menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie; e — per questo istesso che non avevan altro che la sola facultá, e pur tutta stordita e stupida, di poter usare l’umana mente e ragione — da quelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i princípi della poesia dentro i finora, per quest’istesse cagioni, nascosti princípi della sapienza poetica, o sia la scienza de’ poeti teologi, la quale senza contrasto fu la prima sapienza del mondo per gli gentili. E la statua d’Omero sopra una rovinosa base vuol dire la discoverta del vero Omero (che nella Scienza nuova la prima volta stampata si era da noi sentita ma non intesa, e in questi libri, riflettuta, pienamente si è dimostrata); il quale, non saputosi finora, ci ha tenuto

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nascoste le cose vere del tempo favoloso delle nazioni, e molto piú le giá da tutti disperate a sapersi del tempo oscuro, e ’n conseguenza le prime vere origini delle cose del tempo storico: che sono gli tre tempi del mondo, che Marco Terenzio Varrone ci lasciò scritto (lo piú dotto scrittore delle romane antichitá) nella sua grand’opera intitolata Rerum divinarum et humanarum, che si è perduta.

[7] Oltracciò, qui si accenna che ’n quest’opera, con una nuova arte critica, che finor ha mancato, entrando nella ricerca del vero sopra gli autori delle nazioni medesime (nelle quali deono correre assai piú di mille anni per potervi provvenir gli scrittori d’intorno ai quali la critica si è finor occupata), qui la filosofia si pone ad esaminare la filologia (o sia la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de’ costumi e de’ fatti cosí della pace come della guerra de’ popoli), la quale, per la di lei deplorata oscurezza delle cagioni e quasi infinita varietá degli effetti, ha ella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce in forma di scienza, col discovrirvi il disegno di una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni: talché, per quest’altro principale suo aspetto, viene questa Scienza ad esser una filosofia dell’autoritá. Imperciocché, in forza d’altri princípi qui scoverti di mitologia, che vanno di séguito agli altri princípi qui ritruovati della poesia, si dimostra le favole essere state vere e severe istorie de’ costumi delle antichissime genti di Grecia, e, primieramente, che quelle degli dèi furon istorie de’ tempi che gli uomini della piú rozza umanitá gentilesca credettero tutte le cose necessarie o utili al gener umano essere deitadi; della qual poesia furon autori i primi popoli, che si truovano essere stati tutti di poeti teologi, i quali, senza dubbio, ci si narrano aver fondato le nazioni gentili con le favole degli dèi. E quivi, co’ princípi di questa nuov’arte critica, si va meditando a quali determinati tempi e particolari occasioni di umane necessitá o utilitá, avvertite da’ primi uomini del gentilesimo, eglino, con ispaventose religioni, le quali essi stessi si finsero e si credettero,

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fantasticarono prima tali e poi tali dèi; la qual teogonia naturale, o sia generazione degli dèi, fatta naturalmente nelle menti di tai primi uomini, ne dia una cronologia ragionata della storia poetica degli dèi. Le favole eroiche furono storie vere degli eroi e de’ lor eroici costumi, i quali si ritruovano aver fiorito in tutte le nazioni nel tempo della loro barbarie; sicché i due poemi d’Omero si truovano essere due grandi tesori di discoverte del diritto naturale delle genti greche ancor barbare. Il qual tempo si determina nell’opera aver durato tra’ greci infino a quello d’Erodoto, detto padre della greca storia, i cui libri sono ripieni la piú parte di favole e lo stile ritiene moltissimo dell’omerico; nella qual possessione si sono mantenuti tutti gli storici che sono venuti appresso, i quali usano una frase mezza tra la poetica e la volgare. Ma Tucidide, primo severo e grave storico della Grecia, sul principio de’ suoi racconti professa che, fin al tempo di suo padre (ch’era quello di Erodoto, il qual era vecchio quando esso era fanciullo), i greci, nonché delle straniere (le quali, a riserba delle romane, noi abbiamo tutte da’ greci), eglino non seppero nulla affatto dell’antichitá loro propie. Che sono le dense tenebre, le quali la dipintura spiega nel fondo, dalle quali, al lume del raggio della provvedenza divina dalla metafisica risparso in Omero, escono alla luce tutti i geroglifici, che significano i princípi conosciuti solamente finor per gli effetti di questo mondo di nazioni.

[8] Tra questi la maggior comparsa vi fa un altare, perché ’l mondo civile cominciò appo tutti i popoli con le religioni, come poco dianzi si è divisato alquanto, e piú se ne diviserá quindi a poco.

[9] Sull’altare, a man destra, il primo a comparire è un lituo, o sia verga, con la quale gli áuguri prendevan gli augúri ed osservavan gli auspíci; il quale vuol dar ad intendere la divinazione, dalla qual appo i gentili tutti incominciarono le prime divine cose. Perché, per l’attributo della di lui provvedenza, cosí vera appo gli ebrei — i quali credevano Dio esser una Mente infinita e, ’n conseguenza, che vede tutti i tempi in un punto d’eternitá; onde Iddio (o esso, o per gli angioli che

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sono menti, o per gli profeti de’ quali parlava Iddio alle menti) egli avvisava le cose avvenire al suo popolo — come immaginata appresso i gentili — i quali fantasticarono i corpi esser dèi, che perciò con segni sensibili avvisassero le cose avvenire alle genti, — fu universalmente da tutto il gener umano dato alla natura di Dio il nome di «divinitá» da un’idea medesima, la quale i latini dissero «divinari», «avvisar l’avvenire»; ma con questa fondamentale diversitá che si è detta, dalla quale dipendono tutte l’altre (che da questa Scienza si dimostrano) essenziali differenze tra ’l diritto natural degli ebrei e ’l diritto natural delle genti, che i romani giureconsulti diffinirono essere stato con essi umani costumi dalla divina provvedenza ordinato. Laonde ad un colpo, con sí fatto lituo, si accenna il principio della storia universal gentilesca, la quale, con pruove fisiche e filologiche, si dimostra aver avuto il suo cominciamento dal diluvio universale; dopo il quale, a capo di due secoli, il Cielo (come pure la storia favolosa il racconta) regnò in terra e fece de’ molti e grandi benefíci al gener umano, e, per uniformitá d’idee tra gli orientali, egizi, greci, latini ed altre nazioni gentili, sursero egualmente le religioni di tanti Giovi. Perché, a capo di tanto tempo dopo il diluvio, si pruova che dovette fulminare, tuonare il cielo, e da’ fulmini e tuoni, ciascuna del suo Giove, incominciarono a prendere tai nazioni gli auspíci (la qual moltiplicitá di Giovi, onde gli egizi dicevano il loro Giove Ammone essere lo piú antico di tutti, ha fatto finora maraviglia a’ filologi); e con le medesime pruove se ne dimostra l’antichitá della religion degli ebrei sopra quelle con le quali si fondaron le genti, e quindi la veritá della cristiana.

[10] Sullo stesso altare, appresso il lituo, si vede l’acqua e ’l fuoco, e l’acqua contenuta dentro un urciuolo; perché, per cagione della divinazione, appresso i gentili provennero i sacrifizi da quel comune loro costume ch’i latini dicevano «procurare auspicia», o sia sagrificare per ben intendere gli augúri a fin di ben eseguire i divini avvisi, ovvero comandi di Giove. E queste sono le divine cose appresso i gentili, dalle quali provvennero poscia loro tutte le cose umane.

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[11] La prima delle quali furon i matrimoni, significati dalla fiaccola accesa al fuoco sopra esso altare ed appoggiata all’urciuolo; i quali, come tutt’i politici vi convengono, sono il seminario delle famiglie, come le famiglie lo sono delle repubbliche. E, per ciò dinotare, la fiaccola, quantunque sia geroglifico di cosa umana, è allogata sull’altare tra l’acqua e ’l fuoco, che sono geroglifici di cerimonie divine; appunto come i romani antichi celebrarono «aqua et igni» le nozze, perché queste due cose comuni (e, prima del fuoco, l’acqua perenne, come cosa piú necessaria alla vita) dappoi s’intese che, per divino consiglio, avevano menato gli uomini a viver in societá.

[12] La seconda delle cose umane, per la quale a’ latini, da «humando», «seppellire», prima e propiamente vien detta «humanitas», sono le seppolture. Le quali sono rappresentate da un’urna ceneraria, riposta in disparte dentro le selve, la qual addita le seppolture essersi ritruovate fin dal tempo che l’umana generazione mangiava poma l’estate, ghiande l’inverno. Ed è nell’urna iscritto «D. M.», che vuol dire: «All’anime buone de’ seppelliti»; il qual motto divisa il comun consentimento di tutto il gener umano in quel placito, dimostrato vero poi da Platone, che le anime umane non muoiano co’ loro corpi, ma che sieno immortali.

[13] Tal urna accenna altresí l’origine tra’ gentili medesimi della divisione de’ campi, nella quale si deon andar a truovare l’origini della distinzione delle cittá e de’ popoli e alfin delle nazioni. Perché truoverassi che le razze, prima di Cam, poi di Giafet e finalmente di Sem, elleno, senza la religione del loro padre Noè, ch’avevano rinniegata (la qual sola, nello stato ch’era allor di natura, poteva, co’ matrimoni, tenergli in societá di famiglie) — essendosi sperdute con un errore, o sia divagamento ferino, dentro la gran selva di questa terra, per inseguire le schive e ritrose donne, per campar dalle fiere (delle quali doveva la grande antica selva abbondare), e sí sbandati per truovare pascolo ed acqua, e per tutto ciò, a capo di lunga etá, essendo andate in uno stato di bestie, — quivi, a certe occasioni dalla divina provvedenza ordinate (che da questa Scienza si meditano

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e si ritruovano), scosse e destate da un terribile spavento d’una da essi stessi finta e creduta divinitá del Cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove, fermi con certe donne, per lo timore dell’appresa divinitá, al coverto, coi congiugnimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figliuoli, e cosí fondarono le famiglie. E, con lo star quivi fermi lunga stagione e con le seppolture degli antenati, si ritruovarono aver ivi fondati e divisi i primi domíni della terra, i cui signori ne furon detti «giganti» (ché tanto suona tal voce in greco quanto «figliuoli della terra», cioè discendenti da’ seppelliti), e quindi se ne riputarono nobili, estimando, in quel primo stato di cose umane, con giuste idee, la nobiltá dall’essere stati umanamente eglino generati col timore della divinitá; dalla qual maniera di umanamente generare e non altronde, come provvenne, cosí fu detta l’«umana generazione», dalla quale le case diramate in piú cosí fatte famiglie, per cotal generazione, se ne dissero le prime «genti». Dal qual punto di tempo antichissimo, siccome ne incomincia la materia, cosí s’incomincia qui la dottrina del diritto natural delle genti, ch’è altro principal aspetto con cui si dee guardar questa Scienza. Or tai giganti, con ragioni come fisiche cosí morali, oltre l’autoritá dell’istorie, si truovano essere stati di sformate forze e stature; le quali cagioni non essendo cadute ne’ credenti del vero Dio, criatore del mondo e del principe di tutto l’uman genere Adamo, gli ebrei, fin dal principio del mondo, furono di giusta corporatura. Cosí — dopo il primo d’intorno alla provvedenza divina, e ’l secondo il qual è de’ matrimoni solenni — l’universal credenza dell’immortalitá dell’anima, che cominciò con le seppolture, egli è il terzo degli tre princípi, sopra i quali questa Scienza ragiona d’intorno all’origini di tutte l’innumerabili varie diverse cose che tratta.

[14] Dalle selve ov’è riposta l’urna s’avvanza in fuori un aratro, il qual divisa che i padri delle prime genti furono i primi forti della storia; onde si truovano gli Ercoli fondatori delle prime nazioni gentili che si sono mentovati di sopra (de’ quali

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Varrone noverò ben quaranta, e gli egizi dicevano che il loro era lo piú antico di tutti), perché tali Ercoli domarono le prime terre del mondo e le ridussero alla coltura. Onde i primi padri delle nazioni gentili — ch’erano giusti per la creduta pietá di osservare gli auspíci, che credevano divini comandi di Giove (dal quale, appo i latini chiamato Ious, ne fu anticamente detto «ious» il gius, che poi, contratto, si disse «ius»; onde la giustizia appo tutte le nazioni s’insegna naturalmente con la pietá); erano prudenti co’ sacrifizi fatti per proccurare o sia ben intender gli auspíci, e sí ben consigliarsi di ciò che per comandi di Giove dovevan operar nella vita; erano temperati co’ matrimoni — furono, come qui s’accenna, anco forti. Quinci si dánno altri princípi alla moral filosofia, onde la sapienza riposta de’ filosofi debba cospirare con la sapienza volgare de’ legislatori; per gli quali princípi tutte le virtú mettano le loro radici nella pietá e nella religione, per le quali sole son efficaci ad operar le virtú, e ’n conseguenza de’ quali gli uomini si debbano proporre per bene tutto ciò che Dio vuole. Si dánno altri princípi alla dottrina iconomica, onde i figliuoli, mentre sono in potestá de’ lor padri, si deono stimare essere nello stato delle famiglie, e, ’n conseguenza, non sono in altro da formarsi e fermarsi, in tutti i loro studi, che nella pietá e nella religione; e, quando non son ancor capaci d’intender repubblica e leggi, vi riveriscano e temano i padri come vivi simolacri di Dio; onde si truovino poi naturalmente disposti a seguire la religione de’ loro padri ed a difender la patria, che conserva lor le famiglie, e, cosí, ad ubbidir alle leggi, ordinate alla conservazione della religione e della patria (siccome la provvedenza divina ordinò le cose umane con tal eterno consiglio: che prima si fondassero le famiglie con le religioni, sopra le quali poi avevan da surgere le repubbliche con le leggi).

[15] L’aratro appoggia con certa maestá il manico in faccia all’altare, per darci ad intendere che le terre arate furono i primi altari della gentilitá, e per dinotar altresí la superioritá di natura la quale credevano avere gli eroi sopra i loro soci

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(i quali, quindi a poco, vedremo significarsici dal timone, che si vede in atto d’inchinarsi presso al zoccolo dell’altare); nella qual superioritá di natura si mostrerá ch’essi eroi riponevano la ragione, la scienza e quindi l’amministrazione ch’essi avevano delle cose divine, o sia de’ divini auspíci.

[16] L’aratro scuopre la sola punta del dente e ne nasconde la curvatura (che, prima d’intendersi l’uso del ferro, dovett’esser un legno curvo ben duro, che potesse fender le terre ed ararle) — la qual curvatura da’ latini fu detta «urbs», ond’è l’antico «urbum», «curvo» — per significare che le prime cittá, le quali tutte si fondarono in campi colti, sursero con lo stare le famiglie lunga etá ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, con l’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine «luci», ch’erano «terre bruciate dentro il chiuso de’ boschi», i quali sono condennati da Mosè a doversi bruciar anch’essi ovunque il popolo di Dio stendesse le sue conquiste. E ciò per consiglio della provvedenza divina, acciocché gli giá venuti all’umanitá non si confondessero di nuovo co’ vagabondi, rimasti nella nefaria comunione sí delle cose sí delle donne.

[17] Si vede al lato destro del medesimo altare un timone, il qual significa l’origine della trasmigrazione de’ popoli fatta per mezzo della navigazione. E, per ciò che sembra inchinarsi a piè dell’altare, significa gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime. I quali furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinitá; — nefari, ché, per non esser tra loro distinti i parentadi co’ matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; — e finalmente, perché, come fiere bestie, non intendevano societá in mezzo ad essa infame comunion delle cose, tutti soli e quindi deboli e finalmente miseri ed infelici, perché bisognosi di tutti i beni che fan d’uopo per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de’ propi mali, sperimentati nelle risse ch’essa ferina comunitá produceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero alle terre colte da’ pii, casti, forti ed anco potenti, siccome coloro ch’erano giá uniti in

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societá di famiglie. Dalle quali terre si truoveranno le cittá essere state dette «are» dappertutto il mondo antico della gentilitá: che dovetter essere i primi altari delle nazioni gentili, sopra i quali il primo fuoco il qual vi si accese fu quello che fu dato alle selve per isboscarle e ridurle a coltura, e la prima acqua fu quella delle fontane perenni, ch’abbisognarono acciocché coloro ch’avevano da fondare l’umanitá non piú, per truovar acqua, divagassero in uno ferino errore, anzi dentro circoscritte terre stassero fermi ben lunga etá, onde si disavvezzassero dallo andar vagabondi. E, perché questi altari si truovan essere stati i primi asili del mondo (i quali Livio generalmente diffinisce «vetus urbes condentium consilium», come dentro l’asilo aperto nel Luco ci è narrato aver Romolo fondato Roma), quindi le prime cittá quasi tutte si disser «are». Tal minor discoverta, con quest’altra maggiore: che appo i greci (da’ quali, come si è sopra detto, abbiamo tutto ciò ch’abbiamo dell’antichitá gentilesche) la prima Tracia o Scizia (o sia il primo Settentrione), la prima Asia e la prima India (o sia il primo Oriente), la prima Mauritania o Libia (o sia il primo Mezzodí) e la prima Europa o prima Esperia (o sia il primo Occidente) e, con queste, il primo oceano, nacquero tutte dentro essa Grecia; e che poi i greci, ch’uscirono per lo mondo, dalla somiglianza de’ siti diedero sí fatti nomi alle di lui quattro parti ed all’oceano che ’l cinge; — tali discoverte diciamo dar altri princípi alla geografia, i quali, come gli altri princípi accennati darsi alla cronologia (che son i due occhi della storia), bisognavano per leggere la storia ideal eterna che sopra si è mentovata.

[18] A questi altari, adunque, gli empi‐vagabondi‐deboli, inseguiti alla vita da’ piú robusti, essendo ricorsi, i pii‐forti v’uccisero i violenti e vi riceverono in protezione i deboli, i quali, perché altro non vi avevano portato che la sola vita, ricevettero in qualitá di famoli, con somministrar loro i mezzi di sostentare la vita; da’ quali famoli principalmente si dissero le famiglie, i quali furono gli abbozzi degli schiavi, che poi vennero appresso con le cattivitá nelle guerre. Quinci, come da

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un tronco piú rami, escono l’origini degli asili, come si è veduto; — l’origine delle famiglie, sulle quali poi sursero le cittá, come spiegherassi piú sotto; — l’origine di celebrarsi le cittá, che fu per viver sicuri gli uomini dagl’ingiusti violenti; — l’origine delle giurisdizioni da esercitarsi dentro i propi territori; — l’origine di stender gl’imperi, che si fa con usar giustizia, fortezza e magnanimitá, che sono le virtú piú luminose de’ principi e degli Stati; — l’origine dell’armi gentilizie, delle quali i primi campi d’armi si truovano questi primi campi da semina; — l’origine della fama, dalla quale tai famoli furon detti, e della gloria, che eternalmente è riposta in giovar il gener umano; — l’origini della nobiltá vera, che naturalmente nasce dall’esercizio delle morali virtú; — l’origine del vero eroismo, ch’è di domar superbi e soccorrere a’ pericolanti (nel qual eroismo il romano avvanzò tutti i popoli della terra, e ne divenne signor del mondo); — le origini, finalmente, della guerra e della pace, e che la guerra cominciò al mondo per la propia difesa, nella quale consiste la virtú vera della fortezza. Ed in tutte queste origini si scuopre disegnata la pianta eterna delle repubbliche, sulla quale gli Stati, quantunque acquistati con violenza e con froda, per durare, debbon fermarsi; come, allo ’ncontro, gli acquistati con queste origini virtuose, poscia, con la froda e con la forza rovinano. E cotal pianta di repubbliche è fondata sopra i due princípi eterni di questo mondo di nazioni, che sono la mente e ’l corpo degli uomini che le compongono. Imperciocché, costando gli uomini di queste due parti, delle quali una è nobile, che, come tale, dovrebbe comandare, e l’altra vile, la qual dovrebbe servire; e, per la corrotta natura umana, senza l’aiuto della filosofia (la quale non può soccorrere ch’a pochissimi), non potendo l’universale degli uomini far sí che privatamente la mente di ciascheduno comandasse, e non servisse, al suo corpo; — la divina provvedenza ordinò talmente le cose umane con quest’ordine eterno: che, nelle repubbliche, quelli che usano la mente vi comandino e quelli che usano il corpo v’ubbidiscano.
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[19] Il timone s’inchina a piè dell’altare, perché tali famoli, siccome uomini senza dèi, non avevano la comunione delle cose divine e, ’n conseguenza delle quali, nemmeno la comunitá delle cose umane insieme co’ nobili, e principalmente la ragione di celebrare nozze solenni, ch’i latini dissero «connubium», delle quali la maggior solennitá era riposta negli auspíci, per gli qual i nobili si riputavano esser d’origine divina e tenevano quelli essere d’origine bestiale, siccome generati da’ nefari concubiti. Nella qual differenza di natura piú nobile si truova, egualmente tra gli egizi, greci e latini, che consisteva un creduto natural eroismo, il quale troppo spiegatamente ci vien narrato dalla storia romana antica.

[20] Finalmente il timone è in lontananza dall’aratro, ch’in faccia dell’altare gli si mostra infesto e minaccevole con la punta, perché i famoli, non avendo parte, come si è divisato, nel dominio de’ terreni, che tutti eran in signoria de’ nobili, ristucchi di dover servire sempre a’ signori, dopo lunga etá finalmente, faccendone la pretensione e perciò ammutinati, si rivoltarono contro gli eroi in sí fatte contese agrarie, che si truoveranno assai piú antiche e di gran lunga diverse da quelle che si leggono sopra la storia romana ultima. E quivi molti capi d’esse caterve di famoli, sollevate e vinte da’ lor eroi (come spesso i villani d’Egitto lo furono da’ sacerdoti, all’osservare di Pier Cuneo, De republica hebraeorum), per non esser oppressi e truovare scampo e salvezza, con quelli delle loro fazioni, si commisero alla fortuna del mare ed andarono a truovar terre vacue per gli lidi del Mediterraneo, verso occidente, ch’a que’ tempi non era abitato nelle marine. Ch’è l’origine della trasmigrazione de’ popoli giá dalla religione umanati, fatta da Oriente, da Egitto, e dall’Oriente sopra tutti dalla Fenicia, come, per le stesse cagioni, avvenne de’ greci appresso. In cotal guisa, non le innondazioni de’ popoli, che per mare non posson farsi; — non la gelosia di conservare gli acquisti lontani con le colonie conosciute, perché dall’Oriente, da Egitto, da Grecia non si legge essersi nell’Occidente alcun imperio disteso; — non la cagione de’ traffichi, perché l’Occidente

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in tali tempi si truova non essere stato ancora sulle marine abitato; — ma il diritto eroico fece la necessitá a sí fatte brigate d’uomini di tali nazioni d’abbandonare le propie terre, le quali, naturalmente, senonsé per qualche estrema necessitá s’abbandonano. E con sí fatte colonie, le quali perciò saranno appellate «eroiche oltramarine», propagossi il gener umano, anco per mare, nel resto del nostro mondo; siccome con l’error ferino, lunga etá innanzi, vi si era propagato per terra.

[21] Esce piú in fuori, innanzi l’aratro, una tavola con iscrittovi un alfabeto latino antico (che, come narra Tacito, fu somigliante all’antico greco) e, piú sotto, l’alfabeto ultimo che ci restò. Egli dinota l’origine delle lingue e delle lettere che sono dette volgari, che si truovano essere venute lunga stagione dopo fondate le nazioni, ed assai piú tardi quella delle lettere che delle lingue; e, per ciò significare, la tavola giace sopra un rottame di colonna d’ordine corintiaco, assai moderno tra gli ordini dell’architettura.

[22] Giace la tavola molto dapresso all’aratro e lontana assai dal timone, per significare l’origine delle lingue natie, le quali si formarono prima ciascuna nelle propie lor terre, ove finalmente si ritruovarono a sorte, fermati dal loro divagamento ferino, gli autori delle nazioni, che si erano, come sopra si è detto, sparsi e dispersi per la gran selva della terra; con le quali lingue natie, lunga etá dopo, si mescolarono le lingue orientali o egiziache o greche, con la trasmigrazione de’ popoli fatta nelle marine del Mediterraneo e dell’Oceano che si è sopra accennata. E qui si dánno altri princípi d’etimologia (e se ne fanno spessissimi saggi per tutta l’opera), per gli quali si distinguono l’origini delle voci natie da quelle che sono d’origini indubitate straniere, con tal importante diversitá: che l’etimologie delle lingue natie sieno istorie di cose significate da esse voci su quest’ordine naturale d’idee, che prima furono le selve, poi i campi colti e i tuguri, appresso le picciole case e le ville, quindi le cittá, finalmente l’accademie e i filosofi (sopra il qual ordine ne devono dalle prime lor origini

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camminar i progressi); e l’etimologie delle lingue straniere sieno mere storie di voci le quali una lingua abbia ricevute da un’altra.

[23] La tavola mostra i soli princípi degli alfabeti e giace rimpetto alla statua d’Omero, perché le lettere, come delle greche si ha dalle greche tradizioni, non si ritruovarono tutte a un tempo; ed è necessario ch’almeno tutte non si fussero ritruovate nel tempo d’Omero, che si dimostra non aver lasciato scritto niuno de’ suoi poemi. Ma dell’origine delle lingue natie si dará un avviso piú distinto qui appresso.

[24] Finalmente, nel piano piú illuminato di tutti, perché vi si espongono i geroglifici, significanti le cose umane piú conosciute, in capricciosa acconcezza l’ingegnoso pittore fa comparire un fascio romano, una spada ed una borsa appoggiate al fascio, una bilancia e ’l caduceo di Mercurio.

[25] De’ quali geroglifici il primo è ’l fascio, perché i primi imperi civili sursero sull’unione delle paterne potestadi de’ padri, i quali, tra’ gentili, erano sappienti in divinitá d’auspíci, sacerdoti per proccurargli (o sia ben intendergli) co’ sacrifizi, re, e certamente monarchi, i quali comandavano ciò che credevano volesser gli dèi con gli auspíci, e ’n conseguenza non ad altri soggetti ch’a Dio. Cosí egli è un fascio di litui, che si truovano i primi scettri del mondo. Tai padri, nelle turbolenze agrarie di sopra dette, per resistere alle caterve de’ famoli sollevati contro essoloro, furono naturalmente menati ad unirsi e chiudersi ne’ primi ordini di senati regnanti (o senati di tanti re famigliari) sotto certi loro capi‐ordini, che si truovano essere stati i primi re delle cittá eroiche, i quali pur ci narra, quantunque troppo oscuramente, la storia antica che, nel primo mondo de’ popoli, si criavano gli re per natura, de’ quali qui si medita e se ne truova la guisa. Or tai senati regnanti, per contentare le sollevate caterve de’ famoli e ridurle all’ubbidienza, accordarono loro una legge agraria, che si truova essere stata la prima di tutte le leggi civili che nacque al mondo; e, naturalmente, de’ famoli, con tal legge ridutti, si composero le prime plebi delle cittá. L’accordato

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da’ nobili a tai plebei fu il dominio naturale de’ campi, restando il civile appo essi nobili, i quali soli furono i cittadini delle cittá eroiche, e ne surse il dominio eminente appo essi ordini, che furono le prime civili potestá, o sieno potestá sovrane de’ popoli; le quali tutte e tre queste spezie di domíni si formarono e si distinsero col nascere di esse repubbliche, le quali, da per tutte le nazioni, con un’idea spiegata in favellari diversi, si truovano essere state dette «repubbliche erculee», ovvero di cureti, ossia di armati in pubblica ragunanza. E quindi si schiariscono i princípi del famoso «ius quiritium», che gl’interpetri della romana ragione han creduto esser propio de’ cittadini romani, perché negli ultimi tempi tale lo era; ma ne’ tempi antichi romani si truova essere stato diritto naturale di tutte le genti eroiche. E quindi sgorgano, come da un gran fonte piú fiumi, l’origine delle cittá, che sursero sopra le famiglie non solo de’ figliuoli ma anco de’ famoli (onde si truovarono naturalmente fondate sopra due comuni: uno di nobili che vi comandassero, altro di plebei ch’ubbidissero; delle quali due parti si compone tutta la polizia, o sia la ragione de’ civili governi); le quali prime cittá, sopra le famiglie sol di figliuoli, si dimostra che non potevano, né tali né di niuna sorta, affatto nascer nel mondo; — l’origini degl’imperi pubblici, che nacquero dall’unione degl’imperi privati paterni‐sovrani nello stato delle famiglie; — l’origini della guerra e della pace, onde tutte le repubbliche nacquero con la mossa dell’armi, e poi si composero con le leggi; della qual natura di cose umane restò questa eterna propietá: che le guerre si fanno perché i popoli vivano sicuri in pace; — l’origini de’ feudi, perché con una spezie di feudi rustici i plebei s’assoggettirono a’ nobili, e con un’altra di feudi nobili, ovvero armati, i nobili, ch’eran sovrani nelle loro famiglie, s’assoggettirono alla maggiore sovranitá de’ lor ordini eroici; e si ritruova che sopra i feudi sono sempre surti al mondo i reami de’ tempi barbari, e se ne schiarisce la storia de’ nuovi reami d’Europa, surti ne’ tempi barbari ultimi, i quali ci sono riusciti piú oscuri de’ tempi barbari primi che
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Varrone diceva. Perché tai primi campi da’ nobili furon dati a’ plebei col peso di pagarne loro la «decima» che fu detta «d’Ercole» appresso i greci, ovvero «censo» (che si truova quello da Servio Tullio ordinato a’ romani), ovvero «tributo», il quale portava anco l’obbligazione di servir a propie spese i plebei a’ nobili nelle guerre, come pur ben si legge apertamente nella storia romana antica. E quivi si scuopre l’origine del censo, che poi restò pianta delle repubbliche popolari; la qual ricerca ci ha costo la maggior fatiga di tutte sulle cose romane, in ritruovare la guisa come in questo si cangiò il censo di Servio Tullio, che si truoverá essere stato la pianta delle antiche repubbliche aristocratiche; lo che ha fatto cadere tutti in errore di credere Servio Tullio aver ordinato il censo [pianta] della libertá popolare.

[26] Dallo stesso principio esce l’origine de’ commerzi, che, ’n cotal guisa qual abbiam detto, cominciarono di beni stabili col cominciare d’esse cittá; che si dissero «commerzi» da questa prima mercede che nacque al mondo, la quale gli eroi, con tali campi, diedero a’ famoli sotto la legge ch’abbiam detto di dover questi ad essoloro servire; — l’origine degli erari, che si abbozzarono col nascere delle repubbliche, e poi i propiamente detti da «aes aeris», in senso di «danaio», s’intesero con la necessitá di somministrare dal pubblico il danaio a’ plebei nelle guerre; — l’origine delle colonie, che si truovano caterve, prima di contadini che servivano agli eroi per lo sostentamento della lor vita, poi di vassalli che ne coltivavano per sé i campi sotto i reali e personali pesi giá divisati; le quali si appelleranno «colonie eroiche mediterranee», a differenza delle oltramarine giá sopra dette; — e, finalmente, l’origini delle repubbliche, le quali nacquero al mondo di forma severissima aristocratica, nelle quali i plebei non avevano niuna parte di diritto civile. E quindi si ritruova il romano essere stato regno aristocratico, il quale cadde sotto la tirannia di Tarquinio Superbo, il quale aveva fatto pessimo governo de’ nobili e spento quasi tutto il senato; ché Giunio Bruto, il quale nel fatto di Lugrezia afferrò l’occasione di commuovere

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la plebe contro i Tarquini e, avendo liberato Roma dalla tirannide, ristabilí il senato e riordinò la repubblica sopra i suoi princípi e, per un re a vita, con due consoli annali, non introdusse la popolare, ma vi raffermò la libertá signorile. La qual si truova che visse fin alla legge publilia, con la quale Publilio Filone dittatore, detto perciò «popolare», dichiarò la repubblica romana esser divenuta popolare di stato, e spirò finalmente con la legge petelia, la quale liberò affatto la plebe dal diritto feudale rustico del carcere privato, ch’avevano i nobili sopra i plebei debitori. Sulle quali due leggi, che contengono i due maggiori punti della storia romana, non si è punto riflettuto né da’ politici né da’ giureconsulti né dagl’interpetri eruditi della romana ragione, per la favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene libera per ordinar in Roma la libertá popolare, la quale queste due leggi dichiarano essersi ordinata in casa co’ suoi naturali costumi (la qual favola si è scoverta ne’ Princípi del Diritto universale, usciti molti anni fa dalle stampe). Laonde, perché le leggi si deono interpetrare acconciamente agli stati delle repubbliche, da sí fatti princípi di governo romano si dánno altri princípi alla romana giurisprudenza.

[27] La spada che s’appoggia al fascio dinota che ’l diritto eroico fu diritto della forza, ma prevenuta dalla religione, la qual sola può tener in ufizio la forza e l’armi ove non ancora si sono ritruovate (o, ritruovate, non hanno piú luogo) le leggi giudiziarie; il qual diritto è quell’appunto d’Achille, ch’è l’eroe cantato da Omero a’ popoli della Grecia in esemplo dell’eroica virtú, il qual riponeva tutta la ragione nell’armi. E qui si scuopre l’origine dei duelli; i quali, come certamente si celebrarono ne’ tempi barbari ultimi, cosí egli si truova essersi praticati ne’ tempi barbari primi, ne’ quali non erano ancor i potenti addimesticati di vendicare tra loro le offese e i torti con le leggi giudiziarie, e si esercitavano con certi giudizi divini, ne’ quali protestavano Dio testimone e si richiamavano a Dio giudice dell’offesa, e dalla fortuna, qual fusse mai, dell’abbattimento, ne ossequiavano con tanta riverenza la

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decisione che, se essa parte oltraggiata vi cadesse mai vinta, riputavasi rea. Alto consiglio della provvedenza divina, acciocché, in tempi barbari e fieri ne’ quali non s’intendeva ragione, la stimassero dall’avere propizio o contrario Dio, onde da tali guerre private non si seminassero guerre ch’andassero a spegnere finalmente il gener umano; il quale natural senso barbaro non può in altro rifondersi che nel concetto innato c’hanno gli uomini di essa provvedenza divina, con la quale si devono conformare, ove vedano opprimersi i buoni e prosperarsi gli scellerati. Per le quali cagioni tutte funne il duello creduto una spezie di purgazione divina; onde, quanto oggi, in questa umanitá la quale con le leggi ha ordinato i giudizi criminali e civili, sono vietati, tanto ne’ tempi barbari furono creduti necessari i duelli. In tal guisa ne’ duelli, o sieno guerre private, si truova l’origine delle guerre pubbliche, che le faccino le civili potestá, non ad altri soggette ch’a Dio, perché Iddio le diffinisca con la fortuna delle vittorie, perché ’l gener umano riposasse sulla certezza degli Stati civili: ch’è ’l principio della «giustizia esterna», che dicesi, delle guerre.

[28] La borsa pur sopra il fascio dimostra ch’i commerzi i quali si celebrano con danaio non cominciarono che tardi — dopo fondati giá gl’imperi civili; — talché la moneta coniata non si legge in niuno de’ due poemi d’Omero. Lo stesso geroglifico accenna l’origine di esse monete coniate, la qual si truova provvenire da quelle dell’armi gentilizie, le quali si scuoprono (come sopra se n’è alquanto accennato de’ primieri campi d’armi) aver significato diritti e ragioni di nobiltá appartenenti piú ad una famiglia che ad altra; onde poi nacque l’origine dell’imprese pubbliche, o sien insegne de’ popoli, le quali poi s’innalberarono nell’insegne militari (e se ne serve, come di parole mute, la militar disciplina), e finalmente diedero l’impronto per tutti i popoli alle monete. E qui si dánno altri princípi alla scienza delle medaglie, e quindi altri alla scienza, che dicono, del blasone; ch’è uno degli tre luoghi de’ quali ci truoviamo soddisfatti della Scienza nuova la prima volta stampata.

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[29] La bilancia dopo la borsa dá a divedere che, dopo i governi aristocratici, che furono governi eroici, vennero i governi umani, di spezie prima popolari; ne’ qual’i popoli, perché avevano giá finalmente inteso la natura ragionevole (ch’è la vera natura umana) esser uguale in tutti, da sí fatta ugualitá naturale (per le cagioni che si meditano nella storia ideal eterna e si rincontrano appuntino nella romana) trassero gli eroi, tratto tratto, all’egualitá civile nelle repubbliche popolari; la quale ci è significata dalla bilancia, perché, come dicevano i greci, nelle repubbliche popolari tutto corre a sorte o bilancia. Ma finalmente, non potendo i popoli liberi mantenersi in civile egualitá con le leggi per le fazioni de’ potenti, e andando a perdersi con le guerre civili, avvenne naturalmente che, per esser salvi, con una legge regia naturale la qual si truova comune a tutt’i popoli di tutti i tempi in tali Stati popolari corrotti (perché la legge regia civile, che dicesi comandata dal popolo romano per legittimare la romana monarchia nella persona d’Augusto, ella ne’ Princípi del Diritto universale si dimostra esser una favola; la quale, con la favola ivi dimostrata della legge delle XII Tavole venuta da Atene, sono due luoghi per li quali stimiamo non avere scritto inutilmente quell’opera), con tal legge o piú tosto costume naturale delle genti umane, vanno a ripararsi sotto le monarchie, ch’è l’altra spezie degli umani governi. Talché queste due forme ultime de’ governi, che sono umani, nella presente umanitá si scambiano vicendevolmente tra loro; ma niuna delle due passano per natura in istati aristocratici, ch’i soli nobili vi comandino e tutti gli altri vi ubbidiscano; onde son oggi rimaste al mondo tanto rade le repubbliche de’ nobili: in Germania, Norimberga; in Dalmazia, Ragugia; in Italia, Vinezia, Genova e Lucca. Perché queste sono le tre spezie degli Stati che la divina provvedenza, con essi naturali costumi delle nazioni, ha fatto nascere al mondo, e con quest’ordine naturale succedono l’una all’altra; perché altre per provvedenza umana di queste tre mescolate, perché essa natura delle nazioni non le sopporta, da Tacito (che vidde gli effetti soli delle cagioni che qui si

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accennano e dentro ampiamente si ragionano) son diffinite che «sono piú da lodarsi che da potersi mai conseguire, e, se per sorta ve n’hanno, non sono punto durevoli». Per la qual discoverta si dánno altri princípi alla dottrina politica, non sol diversi ma affatto contrari a quelli che se ne sono immaginati finora.

[30] Il caduceo è l’ultimo de’ geroglifici, per farci avvertiti ch’i primi popoli, ne’ tempi lor eroici ne’ quali regnava il diritto natural della forza, si guardavano tra loro da perpetui nimici, con continove rube e corseggi (e come, ne’ tempi barbari primi, gli eroi si recavano a titolo d’onore d’esser chiamati ladroni, cosí, a’ tempi barbari ritornati, d’esser i potenti detti corsali), perché, essendo le guerre eterne tra loro, non bisognava intimarle; ma, venuti poi i governi umani, o popolari o monarchici, dal diritto delle genti umane furon introdutti gli araldi ch’intimasser le guerre, e s’incominciarono a finire l’ostilitá con le paci. E ciò per alto consiglio della provvedenza divina, perché, ne’ tempi della loro barbarie, le nazioni che novelle al mondo dovevano germogliare si stassero circoscritte dentro i loro confini, né, essendo feroci e indomite, uscissero quindi a sterminarsi tra essolor con le guerre; ma poi che, con lo stesso tempo, fussero cresciute e si truovassero insiememente addimesticate, e perciò fatte comportevoli de’ costumi l’une dell’altre, indi fusse facile a’ popoli vincitori di risparmiare la vita a’ vinti con le giuste leggi delle vittorie.

[31] Cosí questa Nuova Scienza, o sia la metafisica, al lume della provvedenza divina meditando la comune natura delle nazioni, avendo scoverte tali origini delle divine ed umane cose tralle nazioni gentili, ne stabilisce un sistema del diritto natural delle genti, che procede con somma egualitá e costanza per le tre etá che gli egizi ci lasciaron detto aver camminato per tutto il tempo del mondo corso loro dinanzi, cioè: l’etá degli dèi, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa essere lor comandata con gli auspíci e con gli oracoli, che sono le piú vecchie cose della storia profana; — l’etá degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono

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in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi riputata differenza di superior natura a quella de’ lor plebei; — e finalmente l’etá degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi si celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forme di governi umani, come poco sopra si è detto.

[32] Convenevolmente a tali tre sorte di natura e governi, si parlarono tre spezie di lingue, che compongono il vocabolario di questa Scienza: la prima, nel tempo delle famiglie, che gli uomini gentili si erano di fresco ricevuti all’umanitá; la qual si truova essere stata una lingua muta per cenni o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee ch’essi volevano significare; — la seconda si parlò per imprese eroiche, o sia per somiglianze, comparazioni, immagini, metafore e naturali descrizioni, che fanno il maggior corpo della lingua eroica, che si truova essersi parlata nel tempo che regnaron gli eroi; — la terza fu la lingua umana per voci convenute da’ popoli, della quale sono assoluti signori i popoli, propia delle repubbliche popolari e degli Stati monarchici, perché i popoli dieno i sensi alle leggi, a’ quali debbano stare con la plebe anco i nobili; onde, appo tutte le nazioni, portate le leggi in lingue volgari, la scienza delle leggi esce di mano a’ nobili, delle quali, innanzi, come di cosa sagra, appo tutte si truova che ne conservavano una lingua segreta i nobili, i quali, pur da per tutte, si truova che furono sacerdoti: ch’è la ragion naturale dell’arcano delle leggi appo i patrizi romani, finché vi surse la libertá popolare. Queste sono appunto le tre lingue che pur gli egizi dissero essersi parlate innanzi nel loro mondo, corrispondenti a livello, cosí nel numero come nell’ordine, alle tre etá che nel loro mondo erano corse loro dinanzi: la geroglifica, ovvero sagra o segreta, per atti muti, convenevole alle religioni, alle quali piú importa osservarle che favellarne; — la simbolica, o per somiglianze, qual testé abbiam veduto essere stata l’eroica; — e finalmente la pistolare, o sia volgare, che serviva loro per gli usi volgari della lor vita. Le quali tre lingue si truovano

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tra’ caldei, sciti, egizi, germani e tutte le altre nazioni gentili antiche; quantunque la scrittura geroglifica piú si conservò tra gli egizi, perché piú lungo tempo che le altre furono chiusi a tutte le nazioni straniere (per la stessa cagione onde si è truovata durare tuttavia tra’ chinesi), e quindi si forma una dimostrazione d’esser vana la lor immaginata lontanissima antichitá.

[33] Però qui si dánno gli schiariti princípi come delle lingue cosí delle lettere, d’intorno alle quali ha finora la filologia disperato, e se ne dará un saggio delle stravaganti e mostruose oppenioni che se ne sono finor avute. L’infelice cagione di tal effetto si osserverá ch’i filologi han creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere; quando (com’abbiamo qui leggiermente accennato e pienamente si pruoverá in questi libri) nacquero esse gemelle e caminarono del pari, in tutte e tre le loro spezie, le lettere con le lingue. E tai princípi si rincontrano appuntino nelle cagioni della lingua latina, ritruovate nella Scienza nuova stampata la prima volta — ch’è l’altro luogo degli tre onde di quel libro non ci pentiamo; — per le quali ragionate cagioni si sono fatte tante discoverte dell’istoria, governo e diritto romano antico, come in questi libri potrai, o leggitore, a mille pruove osservare. Al qual esemplo, gli eruditi delle lingue orientali, greca e, tralle presenti, particolarmente della tedesca, ch’è lingua madre, potranno fare discoverte d’antichitá fuori d’ogni loro e nostra aspettazione.

[34] Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch’i primi popoli della gentilitá, per una dimostrata necessitá di natura, furon poeti, i quali parlarono per caratteri poetici; la qual discoverta, ch’è la chiave maestra di questa Scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di quasi tutta la nostra vita letteraria, perocché tal natura poetica di tai primi uomini, in queste nostre ingentilite nature, egli è affatto impossibile immaginare e a gran pena ci è permesso d’intendere. Tali caratteri si truovano essere stati certi generi fantastici (ovvero immagini, per lo piú di sostanze animate, o di dèi o d’eroi, formate dalla lor fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tutti i particolari a ciascun genere appartenenti; appunto

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come le favole de’ tempi umani, quali sono quelle della commedia ultima, sono i generi intelligibili, ovvero ragionati dalla moral filosofia, de’ quali i poeti comici formano generi fantastici (ch’altro non sono l’idee ottime degli uomini in ciascun suo genere), che sono i personaggi delle commedie. Quindi sí fatti caratteri divini o eroici si truovano essere state favole, ovvero favelle vere; e se ne scuoprono l’allegorie, contenenti sensi non giá analoghi ma univoci, non filosofici ma istorici di tali tempi de’ popoli della Grecia. Di piú, perché tali generi (che sono, nella lor essenza, le favole) erano formati da fantasie robustissime, come d’uomini di debolissimo raziocinio, se ne scuoprono le vere sentenze poetiche, che debbon essere sentimenti vestiti di grandissime passioni, e perciò piene di sublimitá e risveglianti la maraviglia. Inoltre, i fonti di tutta la locuzion poetica si truovano questi due, cioè povertá di parlari e necessitá di spiegarsi e di farsi intendere; da’ quali proviene l’evidenza della favella eroica, che immediatamente succedette alla favella mutola per atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee che si volevan significare, la quale ne’ tempi divini si era parlata. E finalmente, per tal necessario natural corso di cose umane, le lingue, appo gli assiri, siri, fenici, egizi, greci e latini, si truovano aver cominciato da versi eroici, indi passati in giambici, che finalmente si fermarono nella prosa; e se ne dá la certezza alla storia degli antichi poeti, e si rende la ragione perché nella lingua tedesca, particolarmente nella Slesia, provincia tutta di contadini, nascono naturalmente verseggiatori, e nella lingua spagnuola, francese ed italiana i primi autori scrissero in versi.

[35] Da sí fatte tre lingue si compone il vocabolario mentale, da dar le propie significazioni a tutte le lingue articolate diverse, e se ne fa uso qui sempre, ove bisogna. E nella Scienza nuova la prima volta stampata se ne fa un pieno saggio particolare, ove se ne dá essa idea: che dall’eterne propietá de’ padri, che noi, in forza di questa Scienza, meditammo aver quelli avuto nello stato delle famiglie e delle prime eroiche cittá nel tempo che si formaron le lingue, se ne truovano le significazioni propie

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in quindeci lingue diverse, cosí morte come viventi, nelle quali furono, ove da una ove da un’altra propietá, diversamente appellati (ch’è ’l terzo luogo nel quale ci compiacciamo di quel libro di giá stampato). Un tal lessico si truova esser necessario per sapere la lingua con cui parla la storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni, e per potere con iscienza arrecare l’autoritá da confermare ciò che si ragiona in diritto natural delle genti, e quindi in ogni giurisprudenza particolare.

[36] Con tali tre lingue — propie di tali tre etá, nelle quali si celebrarono tre spezie di governi, conformi a tre spezie di nature civili, che cangiano nel corso che fanno le nazioni — si truova aver camminato con lo stess’ordine, in ciascun suo tempo, un’acconcia giurisprudenza.

[37] Delle quali si truova la prima essere stata una teologia mistica, che si celebrò nel tempo ch’a’ gentili comandavano i dèi; della quale furono sappienti i poeti teologi (che si dicono aver fondato l’umanitá gentilesca), ch’interpetravano i misteri degli oracoli, i quali da per tutte le nazioni risposero in versi. Quindi si truova nelle favole essere stati nascosti i misteri di sí fatta sapienza volgare; e si medita cosí nelle cagioni onde poi i filosofi ebbero tanto disiderio di conseguire la sapienza degli antichi, come nelle occasioni ch’essi filosofi n’ebbero di destarsi a meditare altissime cose in filosofia e nelle comoditá d’intrudere nelle favole la loro sapienza riposta.

[38] La seconda si truova essere stata la giurisprudenza eroica, tutta scrupolositá di parole (della quale si truova essere stato prudente Ulisse), la quale guardava quella che da’ giureconsulti romani fu detta «aequitas civilis» e noi diciamo «ragion di Stato», per la quale, con le loro corte idee, estimarono appartenersi loro naturalmente quello diritto, ch’era ciò, quanto e quale si fusse con le parole spiegato; come pur tuttavia si può osservare ne’ contadini ed altri uomini rozzi, i quali, in contese di parole e di sentimenti, ostinatamente dicono la lor ragione star per essi nelle parole. E ciò, per consiglio della provvedenza divina, acciocché gli uomini gentili,

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non essendo ancor capaci d’universali, quali debbon esser le buone leggi, da essa particolaritá delle loro parole fussero tratti ad osservare le leggi universalmente; e se, per cotal equitá in alcun caso riuscivan le leggi non solo dure ma anco crudeli, naturalmente il sopportavano, perché naturalmente tale stimavano essere il loro diritto. Oltreché, gli vi attirava ad osservarle un sommo privato interesse, che si truova aver avuto gli eroi medesimamente con quello delle loro patrie, delle quali essi soli erano cittadini; onde non dubitavano, per la salvezza delle loro patrie, consagrare sé e le loro famiglie alla volontá delle leggi, le quali, con la salvezza comune delle loro patrie, mantenevano loro salvi certi privati regni monarchici sopra le loro famiglie. Altronde, tal privato grande interesse, congionto col sommo orgoglio propio de’ tempi barbari, formava loro la natura eroica, dalla quale uscirono tante eroiche azioni per la salvezza delle loro patrie. Con le quali eroiche azioni si componghino l’insopportabil superbia, la profonda avarizia e la spietata crudeltá con la quale i patrizi romani antichi trattavano gl’infelici plebei, come apertamente si leggono sulla storia romana nel tempo che lo stesso Livio dice essere stata l’etá della romana virtú e della piú fiorente finor sognata romana libertá popolare; e truoverassi che tal pubblica virtú non fu altro che un buon uso che la provvedenza faceva di sí gravi, laidi e fieri vizi privati, perché si conservassero le cittá ne’ tempi che le menti degli uomini, essendo particolarissime, non potevano naturalmente intendere ben comune. Per lo che si dánno altri princípi per dimostrare l’argomento che tratta sant’Agostino, De virtute romanorum, e si dilegua l’oppinione che da’ dotti finor si è avuta dell’eroismo de’ primi popoli. Sí fatta civil equitá si truova naturalmente celebrata dalle nazioni eroiche cosí in pace come in guerra (e se n’arrecano luminosissimi esempli cosí della storia barbara prima come dell’ultima); e da’ romani essersi praticata privatamente finché fu quella repubblica aristocratica, che si truova esserlo stata fin a’ tempi delle leggi publilia e petelia, ne’ quali si celebrò tutta sulla legge delle XII Tavole.
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[39] L’ultima giurisprudenza fu dell’equitá naturale, che regna naturalmente nelle repubbliche libere, ove i popoli, per un bene particolare di ciascheduno, ch’è eguale in tutti, senza intenderlo, sono portati a comandar leggi universali, e perciò naturalmente le disiderano benignamente pieghevoli inverso l’ultime circostanze de’ fatti che dimandano l’ugual utilitá; ch’è l’«aequum bonum», subbietto della giurisprudenza romana ultima, la quale da’ tempi di Cicerone si era incominciata a rivoltare all’editto del pretore romano. È ella ancora, e forse anco piú, connaturale alle monarchie, nelle qual’i monarchi hanno avvezzati i sudditi ad attendere alle loro private utilitá, avendosi essi preso la cura di tutte le cose pubbliche, e vogliono tutte le nazioni soggette uguagliate tra lor con le leggi, perché tutte sieno egualmente interessate allo Stato. Onde Adriano imperadore riformò tutto il diritto naturale eroico romano col diritto naturale umano delle provincie, e comandò che la giurisprudenza si celebrasse sull’Editto perpetuo, che da Salvio Giuliano fu composto quasi tutto d’editti provinciali.

[40] Ora — per raccogliere tutti i primi elementi di questo mondo di nazioni da’ geroglifici che gli significano — il lituo, l’acqua e ’l fuoco sopra l’altare, l’urna ceneraria dentro le selve, l’aratro che s’appoggia all’altare e ’l timone prostrato a pie’ dell’altare, significano la divinazione, i sagrifizi, le famiglie prima de’ figliuoli, le seppolture, la coltivazione de’ campi e la division de’ medesimi, gli asili, le famiglie appresso de’ famoli, le prime contese agrarie, e quindi le prime colonie eroiche mediterranee e, ’n difetto di queste, l’oltramarine e, con queste, le prime trasmigrazioni de’ popoli, esser avvenute tutte nell’etá degli dèi degli egizi, che, non sappiendo o traccurando, «tempo oscuro» chiamò Varrone, come si è sopra avvisato; — il fascio significa le prime repubbliche eroiche, la distinzione degli tre domíni (cioè naturale, civile e sovrano), i primi imperi civili, le prime alleanze ineguali accordate con la prima legge agraria, per la quale si composero esse prime cittá sopra feudi rustici de’ plebei, che furono suffeudi di feudi nobili degli eroi, ch’essendo sovrani, divennero soggetti a

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maggior sovranitá di essi ordini eroici regnanti; — la spada che s’appoggia al fascio significa le guerre pubbliche che si fanno da esse cittá, incominciate da rube innanzi e corseggi (perché i duelli, ovvero guerre private, dovettero nascere molto prima, come qui sará dimostrato, dentro lo stato d’esse famiglie); — la borsa significa divise di nobiltá o insegne gentilizie passate in medaglie, che furono le prime insegne de’ popoli, che quindi passarono in insegne militari e finalmente in monete, ch’accennano i commerzi di cose anco mobili con danaio (perché i commerzi di robe stabili, con prezzi naturali di frutti e fatighe, avevan innanzi cominciato fin da’ tempi divini con la prima legge agraria, sulla quale nacquero le repubbliche); — la bilancia significa le leggi d’ugualitá, che sono propiamente le leggi; — e finalmente il caduceo significa le guerre pubbliche intimate, che si terminano con le paci. Tutti i quali geroglifici sono lontani dall’altare, perché sono tutte cose civili de’ tempi ne’ quali andarono tratto tratto a svanire le false religioni, incominciando dalle contese eroiche agrarie, le quali diedero il nome all’etá degli eroi degli egizi, che «tempo favoloso» chiamò Varrone. La tavola degli alfabeti è posta in mezzo a’ geroglifici divini ed umani, perché le false religioni incominciaron a svanir con le lettere, dalle quali ebbero il principio le filosofie; a differenza della vera, ch’è la nostra cristiana, la quale dalle piú sublimi filosofie, cioè dalla platonica e dalla peripatetica (in quanto con la platonica si conforma), anco umanamente ci è confermata.

[41] Laonde tutta l’idea di quest’opera si può chiudere in questa somma. Le tenebre nel fondo della dipintura sono la materia di questa Scienza, incerta, informe, oscura, che si propone nella Tavola cronologica e nelle a lei scritte Annotazioni. Il raggio del quale la divina provvedenza alluma il petto alla metafisica sono le Degnitá, le Diffinizioni e i Postulati, che questa Scienza si prende per Elementi di ragionare i Princípi co’ quali si stabilisce e ’l Metodo con cui si conduce: le quali cose tutte son contenute nel libro primo. Il raggio che da petto alla metafisica si risparge nella statua d’Omero è la luce propia

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che si dá alla Sapienza poetica nel libro secondo, dond’è il vero Omero schiarito nel libro terzo. Dalla Discoverta del vero Omero vengono poste in chiaro tutte le cose che compongono questo mondo di nazioni, dalle lor origini progredendo secondo l’ordine col quale al lume del vero Omero n’escono i geroglifici: ch’è il Corso delle nazioni che si ragiona nel libro quarto; — e pervenute finalmente a’ piedi della statua d’Omero, con lo stess’ordine ricominciando, ricorrono: lo che si ragiona nel quinto ed ultimo libro.

[42] E alla fin fine, per restrignere l’idea dell’opera in una somma brievissima, tutta la figura rappresenta gli tre mondi secondo l’ordine col quale le menti umane della gentilitá da terra si sono al cielo levate. Tutti i geroglifici che si vedono in terra dinotano il mondo delle nazioni, al quale prima di tutt’altra cosa applicarono gli uomini. Il globo ch’è in mezzo rappresenta il mondo della natura, il quale poi osservarono i fisici. I geroglifici che vi sono al di sopra significano il mondo delle menti e di Dio, il quale finalmente contemplarono i metafisici.

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LIBRO PRIMO dello stabilimento de’ princípi

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[SEZIONE PRIMA] Annotazioni alla tavola cronologica nelle quali si fa l’apparecchio delle materie


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[Tavola cronologica, descritta sopra le tre epoche de’ tempi degli egizi, che dicevano tutto il mondo innanzi essere scorso per tre etá: degli dèi, degli eroi e degli uomini].

[43] Questa Tavola cronologica spone in comparsa il mondo delle nazioni antiche, il quale dal diluvio universale girasi dagli ebrei per gli caldei, sciti, fenici, egizi, greci e romani fin alla loro guerra seconda cartaginese. E vi compariscono uomini o fatti romorosissimi, determinati in certi tempi o in certi luoghi dalla comune de’ dotti, i quali uomini o fatti o non furono ne’ tempi o ne’ luoghi ne’ quali sono stati comunemente determinati, o non furon affatto nel mondo; e da lunghe densissime tenebre, ove giaciuti erano seppelliti, v’escon uomini insigni e fatti rilevantissimi, da’ quali e co’ quali son avvenuti grandissimi momenti di cose umane. Lo che tutto si dimostra in queste Annotazioni, per dar ad intendere quanto l’umanitá delle nazioni abbia incerti o sconci o difettuosi o vani i princípi.

[44] Di piú, ella si propone tutta contraria al Canone cronico egiziaco, ebraico e greco di Giovanni Marshamo, ove vuol provare che gli egizi nella polizia e nella religione precedettero a tutte le nazioni del mondo, e che i di loro riti sagri ed ordinamenti civili, trasportati ad altri popoli, con qualche emendazione si ricevettero dagli ebrei. Nella qual oppenione il seguitò lo Spencero nella dissertazione De Urim et Thummim, ove oppina

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che gl’israeliti avesser apparato dagli egizi tutta la scienza delle divine cose per mezzo della sagra Cabbala. Finalmente al Marshamo acclamò l’Ornio nell’Antichitá della barbaresca filosofia, ove, nel libro intitolato Chaldaicus, scrive che Mosè, addottrinato nella scienza delle divine cose dagli egizi, l’avesse portate nelle sue leggi agli ebrei. Surse allo ’ncontro Ermanno Witzio, nell’opera intitolata Aegyptiaca sive de aegyptiacorum sacrorum cum hebraicis collatione, e stima che ’l primo autor gentile, che n’abbia dato le prime certe notizie degli egizi, egli sia stato Dion Cassio, il quale fiorí sotto Marco Antonino filosofo. Di che può essere confutato con gli Annali di Tacito, ove narra che Germanico, passato nell’Oriente, quindi portossi in Egitto per vedere l’antichitá famose di Tebe, e quivi da un di quei sacerdoti si fece spiegare i geroglifici iscritti in alcune moli, il quale, vaneggiando, gli riferí che que’ caratteri conservavano le memorie della sterminata potenza ch’ebbe il loro re Ramse nell’Affrica, nell’Oriente e fino nell’Asia Minore, eguale alla potenza romana di quelli tempi, che fu grandissima: il qual luogo, perché gli era contrario, forse il Witzio si tacque.

[45] Ma, certamente, cotanto sterminata antichitá non fruttò molto di sapienza riposta agli egizi mediterranei. Imperciocché ne’ tempi di Clemente l’alessandrino, com’esso narra negli Stromati, andavano attorno i loro libri detti «sacerdotali» al numero di quarantadue, i quali in filosofia ed astronomia contenevano de’ grandissimi errori, de’ quali Cheremone, maestro di san Dionigi areopagita, sovente è messo in favola da Strabone; — le cose della medicina si truovano da Galeno, ne’ libri De medicina mercuriali, essere manifeste ciance e mere imposture; — la morale era dissoluta, la quale, nonché tollerate o lecite, faceva oneste le meretrici; — la teologia era piena di superstizioni, prestigi e stregonerie. E la magnificenza delle loro moli e piramidi poté ben esser parto della barbarie, la quale si comporta col grande; però la scoltura e la fonderia egiziaca s’accusano ancor oggi essere state rozzissime. Perché la dilicatezza è frutto delle filosofie; onde la Grecia, che fu la nazion de’ filosofi, sola sfolgorò di tutte le belle arti ch’abbia giammai truovato l’ingegno

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umano: pittura, scoltura, fonderia, arte d’intagliare, le quali sono dilicatissime, perché debbon astrarre le superficie da’ corpi ch’imitano.

[46] Innalzò alle stelle cotal antica sapienza degli egizi la fondatavi sul mare da Alessandro magno Alessandria, la qual, unendo l’acutezza affricana con la dilicatezza greca, vi produsse chiarissimi filosofi in divinitá, per gli quali ella pervenne in tanto splendore d’alto divin sapere che ’l Museo alessandrino funne poi celebrato quanto unitamente erano stat’innanzi l’Accademia, il Liceo, la Stoa e ’l Cinosargi in Atene; e funne detta «la madre delle scienze» Alessandria e, per cotanta eccellenza, fu appellata da’ greci Πόλις, come Ἄστυ Atene e «Urbs» Roma. Quindi provenne Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, il quale trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, appunto come i greci filosofi avevano fatto innanzi delle lor favole, le quali qui truoverassi essere state le lor antichissime storie; onde s’intenda lo stesso esser avvenuto delle favole greche che de’ geroglifici egizi.

[47] Con tanto fasto d’alto sapere, la nazione, di sua natura boriosa (che ne furono motteggiati «gloriae animalia»), in una cittá ch’era un grand’emporio del Mediterraneo e, per lo Mar Rosso, dell’Oceano e dell’Indie (tra gli cui costumi vituperevoli, da Tacito, in un luogo d’oro, si narra questo: «novarum religionum avida»), tra per la pregiudicata oppenione della loro sformata antichitá, la quale vanamente vantavano sopra tutte l’altre nazioni del mondo, e quindi d’aver signoreggiato anticamente ad una gran parte del mondo; e perché non sapevano la guisa come tra’ gentili, senza ch’i popoli sapessero nulla gli uni degli altri, divisamente nacquero idee uniformi degli dèi e degli eroi (lo che dentro appieno sará dimostro), tutte le false divinitadi, ch’essi, dalle nazioni che vi concorrevano per gli marittimi traffichi, udivano essere sparse per lo resto del mondo, credettero esser uscite dal lor Egitto, e che ’l loro Giove Ammone fusse lo piú antico di tutti (de’ quali ogni nazione gentile n’ebbe uno), e che gli Ercoli di tutte l’altre nazioni (de’ quali Varrone giunse a noverare quaranta) avessero preso il

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nome dal lor Ercole egizio, come l’uno e l’altro ci vien narrato da Tacito. E, con tutto ciò che Diodoro sicolo, il quale visse a’ tempi d’Augusto, gli adorni di troppo vantaggiosi giudizi, non dá agli egizi maggior antichitá che di duemila anni; e i di lui giudizi sono rovesciati da Giacomo Cappello nella sua Storia sagra ed egiziaca, che gli stima tali quali Senofonte aveva innanzi attaccati a Ciro e (noi aggiugniamo) Platone sovente finge de’ persiani. Tutto ciò, finalmente, d’intorno alla vanitá dell’altissima antica sapienza egiziaca si conferma con l’impostura del Pimandro smaltito per dottrina ermetica, il quale si scuopre dal Casaubuono non contenere dottrina piú antica di quella de’ platonici spiegata con la medesima frase, nel rimanente giudicata dal Salmasio per una disordinata e mal composta raccolta di cose.

[48] Fece agli egizi la falsa oppenione di cotanta lor antichitá questa propietá della mente umana — d’esser indiffinita, — per la quale, delle cose che non sa, ella sovente crede sformatamente piú di quello che son in fatti esse cose. Perciò gli egizi furon in ciò somiglianti a’ chinesi, i quali crebbero in tanto gran nazione chiusi a tutte le nazioni straniere, come gli egizi lo erano stati fin a Psammetico e gli sciti fin ad Idantura, da’ quali è volgar tradizione che furono vinti gli egizi in pregio d’antichitá. La qual volgar tradizione è necessario ch’avesse avuto indi motivo onde incomincia la storia universale profana, la qual, appresso Giustino, come antiprincípi propone innanzi alla monarchia degli assiri due potentissimi re, Tanai scita e Sesostride egizio, i quali finor han fatto comparire il mondo molto piú antico di quel ch’è in fatti; e che per l’Oriente prima Tanai fusse ito con un grandissimo esercito a soggiogare l’Egitto, il qual è per natura difficilissimo a penetrarsi con l’armi, e che poi Sesostride con altrettante forze si fusse portato a soggiogare la Scizia, la qual visse sconosciuta ad essi persiani (ch’avevano stesa la loro monarchia sopra quella de’ medi, suoi confinanti) fin a’ tempi di Dario detto «maggiore», il qual intimò al di lei re Idantura la guerra; il qual si truova cotanto barbaro a’ tempi dell’umanissima Persia, che gli risponde con cinque parole

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reali di cinque corpi, che non seppe nemmeno scrivere per geroglifici. E questi due potentissimi re attraversano con due grandissimi eserciti l’Asia, e non la fanno provincia o di Scizia o d’Egitto, e la lasciano in tanta libertá ch’ivi poi surse la prima monarchia delle quattro piú famose del mondo, che fu quella d’Assiria!

[49] Perciò, forse, in cotal contesa d’antichitá non mancarono d’entrar in mezzo i caldei, pur nazione mediterranea e, come dimostreremo, piú antica dell’altre due, i quali vanamente vantavano di conservare le osservazioni astronomiche di ben ventiottomila anni: che forse diede il motivo a Flavio Giuseppe ebreo di credere con errore l’osservazioni avantidiluviane descritte nelle due colonne, una di marmo ed un’altra di mattoni, innalzate incontro a’ due diluvi, e d’aver esso veduta nella Siria quella di marmo. Tanto importava alle nazioni antiche di conservare le memorie astronomiche, il qual senso fu morto affatto tralle nazioni che loro vennero appresso! Onde tal colonna è da riporsi nel museo della credulitá.

[50] Ma cosí i chinesi si sono truovati scriver per geroglifici, come anticamente gli egizi e, piú degli egizi, gli sciti, i quali nemmeno gli sapevano scrivere. E, non avendo per molte migliaia d’anni avuto commerzio con altre nazioni dalle quali potesser esser informati della vera antichitá del mondo, com’uomo che dormendo sia chiuso in un’oscura picciolissima stanza, nell’orror delle tenebre la crede certamente molto maggiore di quello che con mani la toccherá; cosí, nel buio della loro cronologia, han fatto i chinesi e gli egizi e, con entrambi, i caldei. Pure, benché il padre Michel di Ruggiero, gesuita, affermi d’aver esso letti libri stampati innanzi la venuta di Gesú Cristo; e benché il padre Martini, pur gesuita, nella sua Storia chinese narri una grandissima antichitá di Confucio, la qual ha indotti molti nell’ateismo, al riferire di Martino Scookio in Demonstratione Diluvii universalis, onde Isacco Pereyro, autore della Storia preadamitica, forse perciò abbandonò la fede catolica, e quindi scrisse che ’l Diluvio si sparse sopra la terra de’ soli ebrei: — però Niccolò Trigaulzio, meglio del Ruggieri e del

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Martini informato, nella sua Christiana expeditione apud Sinas scrive la stampa appo i chinesi essersi truovata non piú che da due secoli innanzi degli europei, e Confucio aver fiorito non piú che cinquecento anni innanzi di Gesú Cristo. E la filosofia confuciana, conforme a’ libri sacerdotali egiziaci, nelle poche cose naturali ella è rozza e goffa, e quasi tutta si rivolge ad una volgar morale, o sia moral comandata a que’ popoli con le leggi.

[51] Da sí fatto ragionamento d’intorno alla vana oppenione ch’avevano della lor antichitá queste gentili nazioni, e sopra tutte gli egizi, doveva cominciare tutto lo scibile gentilesco, tra per sapere con iscienza quest’importante principio: — dove e quando egli ebbe i suoi primi incominciamenti nel mondo, — e per assistere con ragioni anco umane a tutto il credibile cristiano, il quale tutto incomincia da ciò: che ’l primo popolo del mondo fu egli l’ebreo, di cui fu principe Adamo, il quale fu criato dal vero Dio con la criazione del mondo. E [da ciò deriva] che la prima scienza da doversi apparare sia la mitologia, ovvero l’interpetrazion delle favole (perché, come si vedrá, tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princípi), e che le favole furono le prime storie delle nazioni gentili. E con sí fatto metodo [son da] rinvenire i princípi come delle nazioni cosí delle scienze, le quali da esse nazioni son uscite e non altrimente: come per tutta quest’opera sará dimostro ch’alle pubbliche necessitá o utilitá de’ popoli elleno hanno avuto i lor incominciamenti, e poi, con applicarvi la riflessione acuti particolari uomini, si sono perfezionate. E quindi cominciar debbe la storia universale, che tutti i dotti dicono mancare ne’ suoi princípi.

[52] E, per ciò fare, l’antichitá degli egizi in ciò grandemente ci gioverá, che ne serbarono due grandi rottami non meno maravigliosi delle loro piramidi, che sono queste due grandi veritá filologiche. Delle quali una è narrata da Erodoto: ch’essi tutto il tempo del mondo ch’era corso loro dinanzi riducevano a tre etá: la prima degli dèi, la seconda degli eroi e la terza degli uomini. L’altra è che, con corrispondente numero ed

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ordine, per tutto tal tempo si erano parlate tre lingue: la prima geroglifica ovvero per caratteri sagri, la seconda simbolica o per caratteri eroici, la terza pistolare o per caratteri convenuti da’ popoli, al riferire dello Scheffero, De philosophia italica. La qual divisione de’ tempi egli è necessario che Marco Terenzio Varrone — perch’egli, per la sua sterminata erudizione, meritò l’elogio con cui fu detto il «dottissimo de’ romani» ne’ tempi loro piú illuminati, che furon quelli di Cicerone — dobbiam dire, non giá ch’egli non seppe seguire, ma che non volle; perché, forse, intese della romana ciò che, per questi princípi, si truoverá vero di tutte le nazioni antiche, cioè che tutte le divine ed umane cose romane erano native del Lazio: onde si studiò dar loro tutte latine origini nella sua gran opera Rerum divinarum et humanarum, della quale l’ingiuria del tempo ci ha privi (tanto Varrone credette alla favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene in Roma!), e divise tutti i tempi del mondo in tre, cioè: tempo oscuro, ch’è l’etá degli dèi; quindi tempo favoloso, ch’è l’etá degli eroi; e finalmente tempo istorico, ch’è l’etá degli uomini che dicevan gli egizi.

[53] Oltracciò, l’antichitá degli egizi gioveracci con due boriose memorie, di quella boria delle nazioni, le quali osserva Diodoro sicolo che, o barbare o umane si fussero, ciascheduna si è tenuta la piú antica di tutte e serbare le sue memorie fin dal principio del mondo; lo che vedremo essere stato privilegio de’ soli ebrei. Delle quali due boriose memorie una osservammo esser quella che ’l loro Giove Ammone era il piú vecchio di tutti gli altri del mondo, l’altra che tutti gli altri Ercoli dell’altre nazioni avevano preso il nome dal lor Ercole egizio: cioè ch’appo tutte prima corse l’etá degli dèi, re de’ quali appo tutte fu creduto esser Giove; e poscia l’etá degli eroi, che si tenevano esser figlioli degli dèi, il massimo de’ quali fu creduto esser Ercole.

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ii
[Ebrei]

[54] S’innalza la prima colonna agli ebrei, i quali, per gravissime autoritá di Flavio Giuseppe ebreo e di Lattanzio Firmiano ch’appresso s’arrecheranno, vissero sconosciuti a tutte le nazioni gentili. E pur essi contavano giusta la ragione de’ tempi corsi del mondo, oggi dagli piú severi critici ricevuta per vera, secondo il calcolo di Filone giudeo; la qual se varia da quel d’Eusebio, il divario non è che di mille e cinquecento anni, ch’è brevissimo spazio di tempo a petto di quanto l’alterarono i caldei, gli sciti, gli egizi e, fin al dí d’oggi, i chinesi. Che dev’esser un invitto argomento che gli ebrei furono il primo popolo del nostro mondo ed hanno serbato con veritá le loro memorie nella storia sagra fin dal principio del mondo.

iii
[Caldei]

[55] Si pianta la seconda colonna a’ caldei, tra perché in geografia si mostra in Assiria essere stata la monarchia piú mediterranea di tutto il mondo abitabile, e perché in quest’opera si dimostra che si popolarono prima le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E certamente i caldei furono i primi sappienti della gentilitá, il principe de’ quali dalla comune de’ filologi è ricevuto Zoroaste caldeo. E senza veruno scrupolo la storia universale prende principio dalla monarchia degli assiri, la quale aveva dovuto incominciar a formarsi dalla gente caldea; dalla quale, cresciuta in un grandissimo corpo, dovette passare nella nazion degli assiri sotto di Nino, il quale vi dovette fondare tal monarchia, non giá con gente menata colá da fuori, ma nata dentro essa Caldea medesima, con la qual egli spense il nome caldeo e vi produsse l’assirio: che dovetter esser i plebei di quella nazione, con le forze de’ quali Nino vi surse monarca, come in quest’opera tal civile costume di quasi tutte,

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come si ha certamente della romana, vien dimostrato. Ed essa storia pur ci racconta che fu Zoroaste ucciso da Nino; lo che truoveremo esser stato detto, con lingua eroica, in senso che ’l regno, il qual era stato aristocratico, de’ caldei (de’ quali era stato carattere eroico Zoroaste) fu rovesciato per mezzo della libertá popolare da’ plebei di tal gente, i quali ne’ tempi eroici si vedranno essere stati altra nazione da’ nobili, e che col favore di tal nazione Nino vi si fusse stabilito monarca. Altrimente, se non istanno cosí queste cose, n’uscirebbe questo mostro di cronologia nella storia assiriaca; che nella vita d’un sol uomo, di Zoroaste, da vagabondi eslegi si fusse la Caldea portata a tanta grandezza d’imperio che Nino vi fondò una grandissima monarchia. Senza i quali princípi, avendoci Nino dato il primo incominciamento della storia universale, ci ha fatto finor sembrare la monarchia dell’Assiria, come una ranocchia in una pioggia d’está, esser nata tutta ad un tratto.

iv
[Sciti]

[56] Si fonda la terza colonna agli sciti, i quali vinsero gli egizi in contesa d’antichitá, come testè l’hacci narrato una tradizione volgare.

v
[Fenici]

[57] La quarta colonna si stabilisce a’ fenici innanzi degli egizi, ai quali i fenici, da’ caldei, portarono la pratica del quadrante e la scienza dell’elevazione del polo, di che è volgare tradizione; e appresso dimostreremo che portarono anco i volgari caratteri.

vi
[Egizi]

[58] Per tutte le cose sopra qui ragionate, quelli egizi che nel suo Canone vuol il Marshamo essere stati gli piú antichi di tutte le nazioni, meritano il quinto luogo su questa Tavola cronologica.

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vii
[Zoroaste o regno de’ caldei. — Anni del mondo 1756]

[59] Zoroaste si truova in quest’opera essere stato un carattere poetico di fondatori di popoli in Oriente, onde se ne truovano tanti sparsi per quella gran parte del mondo quanti sono gli Ercoli per l’altra opposta dell’Occidente; e forse gli Ercoli, i quali con l’aspetto degli occidentali osservò Varrone anco in Asia (come il tirio, il fenicio), dovettero agli orientali essere Zoroasti. Ma la boria de’ dotti, i quali ciò ch’essi sanno vogliono che sia antico quanto ch’è il mondo, ne ha fatto un uomo particolare ricolmo d’altissima sapienza riposta e gli ha attaccato gli oracoli della filosofia, i quali non ismaltiscono altro che per vecchia una troppo nuova dottrina, ch’è quella de’ pittagorici e de’ platonici. Ma tal boria de’ dotti non si fermò qui, ché gonfiò piú col fingerne anco la succession delle scuole per le nazioni: che Zoroaste addottrinò Beroso, per la Caldea; Beroso, Mercurio Trimegisto, per l’Egitto; Mercurio Trimegisto, Atlante, per l’Etiopia; Atlante, Orfeo, per la Tracia; e che, finalmente, Orfeo fermò la sua scuola in Grecia. Ma quindi a poco si vedrá quanto furono facili questi lunghi viaggi per le prime nazioni, le quali, per la loro fresca selvaggia origine, dappertutto vivevano sconosciute alle loro medesime confinanti, e non si conobbero tra loro che con l’occasion delle guerre o per cagione de’ traffichi.

[60] Ma de’ caldei gli stessi filologi, sbalorditi dalle varie volgari tradizioni che ne hanno essi raccolte, non sanno s’eglino fussero stati particolari uomini o intiere famiglie o tutto un popolo o nazione. Le quali dubbiezze tutte si solveranno con questi princípi: che prima furono particolari uomini, dipoi intiere famiglie, appresso tutto un popolo e finalmente una gran nazione, sulla quale si fondò la monarchia dell’Assiria; e ’l loro sapere fu prima in volgare divinitá (con la qual indovinavano l’avvenire dal tragitto delle stelle cadenti la notte) e poi in astrologia giudiziaria, com’a’ latini l’astrologo giudiziario restò detto «chaldaeus».

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viii
[Giapeto, dal quale provvengon i giganti. — Anni del mondo 1856]

[61] I quali, con istorie fisiche truovate dentro le greche favole, e pruove come fisiche cosí morali tratte da dentro l’istorie civili, si dimostreranno essere stati in natura appo tutte le prime nazioni gentili.

ix
[Nebrod o confusione delle lingue. — Anni del mondo 1856]

[62] La quale avvenne in una maniera miracolosa, onde allo istante si formarono tante favelle diverse. Per la qual confusione di lingue vogliono i Padri che si venne tratto tratto a perdere la puritá della lingua santa avantidiluviana. Lo che si deve intendere delle lingue de’ popoli d’Oriente, tra’ quali Sem propagò il gener umano. Ma delle nazioni di tutto il restante mondo altrimente dovette andar la bisogna. Perocché le razze di Cam e Giafet dovettero disperdersi per la gran selva di questa terra con un error ferino di dugento anni; e cosí, raminghi e soli, dovettero produrre i figliuoli, con una ferina educazione, nudi d’ogni umano costume e privi d’ogni umana favella, e sí in uno stato di bruti animali. E tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la terra, disseccata dall’umidore dell’universale diluvio, potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli uomini storditi e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta e gli egizi dicevano il loro Giove Ammone essere lo piú antico di tutti. E si diedero ad una spezie di divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni e da’ fulmini e da’ voli dell’aquile, che credevano essere uccelli di Giove. Ma appo gli orientali nacque una spezie di divinazione piú dilicata dall’osservare i moti de’ pianeti e gli aspetti degli astri: onde il primo sapiente della gentilitá si celebra Zoroaste, che ’l Bocharto vuol detto

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«contemplatore degli astri». E, siccome tra gli orientali nacque la prima volgar sapienza, cosí tra essi surse la prima monarchia, che fu quella d’Assiria.

[63] Per sí fatto ragionamento vengono a rovinare tutti gli etimologi ultimi, che vogliono rapportare tutte le lingue del mondo all’origini dell’orientali; quando tutte le nazioni provenute da Cam e Giafet si fondarono prima le lingue natie dentro terra, e poi, calate al mare, cominciarono a praticar co’ fenici, che furono celebri ne’ lidi del Mediterraneo e dell’Oceano per la navigazione e per le colonie. Come nella Scienza nuova la prima volta stampata l’abbiam dimostro nelle origini della lingua latina, e, ad esemplo della latina, doversi lo stesso intendere dell’altre tutte.

x
[Un de’ quali [giganti], Prometeo, ruba il fuoco dal sole. — Anni del mondo 1856]

[64] Da questa favola si scorge il Cielo avere regnato in terra, quando fu creduto tant’alto quanto le cime de’ monti, come ve n’ha la volgare tradizione, che narra anco aver lasciato de’ molti e grandi benefizi al gener umano.

xi
[Deucalione]

[65] Al cui tempo Temi, o sia la giustizia divina, aveva un templo sopra il monte Parnaso, ed ella giudicava in terra le cose degli uomini.

xii
[Mercurio Trimegisto il vecchio ovvero etá degli dèi d’Egitto]

[66] Questo è ’l Mercurio, ch’al riferire di Cicerone, De natura deorum, fu dagli egizi detto «Theut» (dal quale a’ greci fusse provenuto θεός), il quale truovò le lettere e le leggi agli egizi, e questi (per lo Marshamo) l’avesser insegnate all’altre nazioni

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del mondo. Però i greci non iscrissero le loro leggi co’ geroglifici, ma con le lettere volgari, che finora si è oppinato aver loro portato Cadmo dalla Fenicia, delle quali, come vedrassi, non si servirono per settecento anni e piú appresso. Dentro il qual tempo venne Omero, che in niuno de’ suoi poemi nomina νόμος (ch’osservò il Feizio nell’Omeriche antichitá), e lasciò i suoi poemi alla memoria de’ suoi rapsodi, perché al di lui tempo le lettere volgari non si erano ancor truovate, come risolutamente Flavio Giuseffo ebreo il sostiene contro Appione, greco grammatico. E pure, dopo Omero, le lettere greche uscirono tanto diverse dalle fenicie!

[67] Ma queste sono minori difficultá a petto di quelle: come le nazioni, senza le leggi, possano truovarsi diggiá fondate? e come dentro esso Egitto, innanzi di tal Mercurio, si erano giá fondate le dinastie? Quasi fussero d’essenza delle leggi le lettere, e sí non fussero leggi quelle di Sparta, ove per legge d’esso Ligurgo erano proibiti saper di lettera! Quasi non vi avesse potuto essere quest’ordine in natura civile: — di concepire a voce le leggi e pur a voce di pubblicarle, — e non si truovassero di fatto appo Omero due sorte d’adunanze: una detta βουλή, segreta, dove si adunavano gli eroi per consultar a voce le leggi; ed un’altra detta ἀγορά, pubblica, nella quale pur a voce le pubblicavano! Quasi, finalmente, la provvedenza non avesse provveduto a questa umana necessitá: che, per la mancanza delle lettere, tutte le nazioni nella loro barbarie si fondassero prima con le consuetudini e, ingentilite, poi si governassero con le leggi! Siccome nella barbarie ricorsa i primi diritti delle nazioni novelle d’Europa sono nati con le consuetudini, delle quali le piú antiche son le feudali. Lo che si dee ricordare per ciò ch’appresso diremo: ch’i feudi sono state le prime sorgive di tutti i diritti che vennero appresso appo tutte le nazioni cosí antiche come moderne, e quindi il diritto natural delle genti, non giá con leggi, ma con essi costumi umani essersi stabilito.

[68] Ora, per ciò ch’attiensi a questo gran momento della cristiana religione: — che Mosè non abbia apparato dagli egizi

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la sublime teologia degli ebrei, — sembra fortemente ostare la cronologia, la qual alloga Mosè dopo di questo Mercurio Trimegisto. Ma tal difficultá, oltre alle ragioni con le quali sopra si è combattuta, ella si vince affatto per questi princípi, fermati in un luogo veramente d’oro di Giamblico, De mysteriis aegyptiorum, dove dice che gli egizi tutti i loro ritruovati necessari o utili alla vita umana civile riferivano a questo loro Mercurio; talché egli dee essere stato, non un particolare uomo ricco di sapienza riposta che fu poi consagrato dio, ma un carattere poetico de’ primi uomini dell’Egitto sappienti di sapienza volgare, che vi fondarono prima le famiglie e poi i popoli che finalmente composero quella gran nazione. E per questo stesso luogo arrecato testé di Giamblico, perché gli egizi costino con la loro divisione delle tre etá degli dèi, degli eroi e degli uomini, e questo Trimegisto fu loro dio; perciò nella vita di tal Mercurio dee correre tutta l’etá degli dèi degli egizi.

xiii
[Etá dell’oro ovvero etá degli dèi di Grecia]

[69] Una delle cui particolaritá la storia favolosa ci narra: che gli dèi praticavano in terra con gli uomini. E, per dar certezza a’ princípi della cronologia, meditiamo in quest’opera una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi, fatta naturalmente nelle fantasie de’ greci a certe occasioni di umane necessitá o utilitá, ch’avvertirono essere state loro soccorse o somministrate ne’ tempi del primo mondo fanciullo, sorpreso da spaventosissime religioni: che tutto ciò che gli uomini o vedevano o immaginavano o anco essi stessi facevano, apprendevano essere divinitá. E, de’ famosi dodici dèi delle genti che furon dette «maggiori», o sieno dèi consagrati dagli uomini nel tempo delle famiglie, faccendo dodici minute epoche, con una cronologia ragionata della storia poetica si determina all’etá degli dèi la durata di novecento anni; onde si dánno i princípi alla storia universale profana.

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xiv

[Elleno, figliuolo di Deucalione, nipote di Prometeo, pronipote di Giapeto, per tre suoi figliuoli sparge nella Grecia tre dialetti. — Anni del mondo 2082]

[70] Da quest’Elleno i greci natii si disser «elleni»; ma i greci d’Italia si dissero «graii», e la loro terra Γραικία, onde «graeci» vennero detti a’ latini. Tanto i greci d’Italia seppero il nome della nazion greca principe, che fu quella oltramare, ond’essi erano venuti colonie in Italia! Perché tal voce Γραίκια non si truova appresso greco scrittore, come osserva Giovanni Palmerio nella Descrizion della Grecia.

xv

[Cecrope egizio mena dodici colonie nell’Attica, delle quali poi Teseo compose Atene]

[71] Ma Strabone stima che l’Attica, per l’asprezza delle sue terre, non poteva invitare stranieri che vi venissero ad abitare, per pruovare che ’l dialetto attico è de’ primi tra gli altri natii di Grecia.

xvi

[Cadmo fenice fonda Tebe in Beozia ed introduce in Grecia le lettere volgari. — Anni del mondo 2491]

[72] E vi portò le lettere fenicie: onde Beozia, fin dalla sua fondazione letterata, doveva essere la piú ingegnosa di tutte l’altre nazioni di Grecia; ma produsse uomini di menti tanto balorde che passò in proverbio «beoto» per uomo d’ottuso ingegno.

xvii
[Saturno ovvero l’etá degli dèi del Lazio. — Anni del mondo 2491]

[73] Questa è l’etá degli dèi che comincia alle nazioni del Lazio, corrispondente nelle propietá all’etá dell’oro de’ greci, a’ quali il primo oro si ritruoverá per la nostra mitologia essere stato

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il frumento, con le cui raccolte per lunghi secoli le prime nazioni numerarono gli anni. E Saturno da’ latini fu detto a «satis», da’ seminati, e si dice Χρόνος da’ greci, appo i quali χρόνος è il tempo, da cui vien detta essa «cronologia».

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[Mercurio Trimegisto il giovine o etá degli eroi d’Egitto. — Anni del mondo 2553]

[74] Questo Mercurio il giovine dev’essere carattere poetico dell’etá degli eroi degli egizi. La qual a’ greci non succedé che dopo novecento anni, per gli quali va a finire l’etá degli dèi di Grecia; ma agli egizi corre per un padre, figlio e nipote. A tal anacronismo nella storia egiziaca osservammo uno somigliante nella storia assiriaca nella persona di Zoroaste.

xix
[Danao egizio caccia gl’Inachidi dal regno d’Argo. — Anni del mondo 2553]

[75] Queste successioni reali sono gran canoni di cronologia: come Danao occupa il regno d’Argo, signoreggiato innanzi da nove re della casa d’Inaco, per gli quali dovevano correre trecento anni (per la regola de’ cronologi), come presso a cinquecento per gli quattordici re latini che regnarono in Alba.

[76] Ma Tucidide dice che ne’ tempi eroici gli re si cacciavano tutto giorno di sedia l’un l’altro; come Amulio caccia Numitore dal regno d’Alba, e Romolo ne caccia Amulio e rimettevi Numitore. Lo che avveniva tra per la ferocia de’ tempi, e perch’erano smurate l’eroiche cittá, né eran in uso ancor le fortezze, come dentro si rincontra de’ tempi barbari ritornati.

xx

[Eraclidi sparsi per tutta Grecia, che vi fanno l’etá degli eroi. — Cureti in Creta, Saturnia, ovvero Italia, ed in Asia, che vi fanno regni di sacerdoti. — Anni del mondo 2682]

[77] Questi due grandi rottami d’antichitá si osservano da Dionigi Petavio gittati dentro la greca storia avanti il tempo eroico

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de’ greci. E sono sparsi per tutta Grecia gli Eraclidi, o sieno i figliuoli d’Ercole, piú di cento anni innanzi di provenirvi Ercole loro padre, il quale, per propagarli in tanta generazione, doveva esser nato molti secoli prima.

xxi
[Didone, da Tiro, va a fondar Cartagine]

[78] La quale noi poniamo nel fine del tempo eroico de’ fenici, e sí, cacciata da Tiro perché vinta in contesa eroica, com’ella il professa d’esserne uscita per l’odio del suo cognato. Tal moltitudine d’uomini tirii con frase eroica fu detta «femmina», perché di deboli e vinti.

xxii
[Orfeo e, con essolui, l’etá dei poeti teologi]

[79] Quest’Orfeo, che riduce le fiere di Grecia all’umanitá, si truova esser un vasto covile di mille mostri. Viene da Tracia, patria di fieri Marti, non d’umani filosofi, perché furono, per tutto il tempo appresso, cotanto barbari ch’Androzione filosofo tolse Orfeo dal numero de’ sappienti solamente per ciò che fusse nato egli in Tracia. E, ne’ di lei princípi, ne uscí tanto dotto di greca lingua che vi compose in versi di maravigliosissima poesia, con la quale addimestica i barbari per gli orecchi; i quali, composti giá in nazioni, non furono ritenuti dagli occhi di non dar fuoco alle cittá piene di maraviglie. E truova i greci ancor fiere bestie; a’ quali Deucalione, da un mille anni innanzi, aveva insegnato la pietá col riverire e temere la giustizia divina, col cui timore, innanzi al di lei templo posto sopra il monte Parnaso (che fu poi la stanza delle muse e d’Apollo, che sono lo dio e l’arti dell’umanitá), insieme con Pirra sua moglie, entrambi co’ capi velati (cioè col pudore del concubito umano, volendo significare col matrimonio), le pietre ch’erano loro dinanzi i piedi (cioè gli stupidi della vita innanzi ferina), gittandole dietro le spalle, fanno divenir

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uomini (cioè con l’ordine della disciplina iconomica, nello stato delle famiglie); — Elleno, da settecento anni innanzi, aveva associati con la lingua e v’aveva sparso per tre suoi figliuoli tre dialetti; — la casa d’Inaco dimostrava esservi da trecento anni innanzi fondati i regni e scorrervi le successioni reali. Viene finalmente Orfeo ad insegnarvi l’umanitá; e, da un tempo che la truova tanto selvaggia, porta la Grecia a tanto lustro di nazione ch’esso è compagno di Giasone nell’impresa navale del vello d’oro (quando la navale e la nautica sono gli ultimi ritruovati de’ popoli), e vi s’accompagna con Castore e Polluce, fratelli d’Elena, per cui fu fatta la tanto romorosa guerra di Troia. E, nella vita d’un sol uomo, tante civili cose fatte, alle quali appena basta la scorsa di ben mill’anni! Tal mostro di cronologia sulla storia greca nella persona d’Orfeo è somigliante agli altri due osservati sopra: uno sulla storia assiriaca nella persona di Zoroaste, ed un altro sull’egiziaca in quelle de’ due Mercuri. Per tutto ciò, forse, Cicerone, De natura deorum, sospettò ch’un tal Orfeo non fusse giammai stato nel mondo.

[80] A queste grandissime difficultá cronologiche s’aggiungono non minori altre morali e politiche: che Orfeo fonda l’umanitá della Grecia sopra esempli d’un Giove adultero, d’una Giunone nimica a morte della virtú degli Ercoli, d’una casta Diana che solecita gli addormentati Endimioni di notte, d’un Apollo che risponde oracoli ed infesta fin alla morte le pudiche donzelle Dafni, d’un Marte che, come non bastasse agli dèi di commetter adultèri in terra, gli trasporta fin dentro il mare con Venere. Né tale sfrenata libidine degli dèi si contenta de’ vietati concubiti con le donne: arde Giove di nefandi amori per Ganimede; né pur qui si ferma: eccede finalmente alla bestiale, e Giove, trasformato in cigno, giace con Leda: la qual libidine, esercitata negli uomini e nelle bestie, fece assolutamente l’infame nefas del mondo eslege. Tanti dèi e dèe nel cielo non contraggono matrimoni; ed uno ve n’ha, di Giove con Giunone, ed è sterile; né solamente sterile, ma anco pieno d’atroci risse; talché Giove appicca in aria la pudica gelosa moglie,

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ed esso partorisce Minerva dal capo. Ed infine, se Saturno fa figliuoli, gli si divora. I quali esempli, e potenti esempli divini (contengansi pure cotali favole tutta la sapienza riposta, disiderata da Platone infino a’ nostri tempi da Bacone di Verulamio, De sapientia veterum), come suonano, dissolverebbero i popoli piú costumati e gl’istigherebbero ad imbrutirsi in esse fiere d’Orfeo; tanto sono acconci e valevoli a ridurre gli uomini da bestie fiere all’umanitá! Della qual riprensione è una particella quella che degli dèi della gentilitá fa sant’Agostino nella Cittá di Dio, per questo motivo dell’Eunuco di Terenzio: che ’l Cherea, scandalezzato da una dipintura di Giove ch’in pioggia d’oro si giace con Danae, prende quell’ardire, che non aveva avuto, di violare la schiava, della quale pur era impazzato d’un violentissimo amore.

[81] Ma questi duri scogli di mitologia si schiveranno co’ princípi di questa Scienza, la quale dimostrerá che tali favole, ne’ loro princípi, furono tutte vere e severe e degne di fondatori di nazioni, e che poi, con lungo volger degli anni, da una parte oscurandosene i significati, e dall’altra col cangiar de’ costumi che da severi divennero dissoluti, perché gli uomini per consolarne le lor coscienze volevano peccare con l’autoritá degli dèi, passarono ne’ laidi significati co’ quali sonoci pervenute. L’aspre tempeste cronologiche ci saranno rasserenate dalla discoverta de’ caratteri poetici, uno de’ quali fu Orfeo, guardato per l’aspetto di poeta teologo, il quale con le favole, nel primo loro significato, fondò prima e poi raffermò l’umanitá della Grecia. Il qual carattere spiccò piú che mai nell’eroiche contese co’ plebei delle greche cittá; ond’in tal etá si distinsero i poeti teologi, com’esso Orfeo, Lino, Museo, Anfione, il quale de’ sassi semoventi (de’ balordi plebei) innalzò le mura di Tebe, che Cadmo aveva da trecento anni innanzi fondata; appunto come Appio, nipote del decemviro, circa altrettanto tempo dalla fondazione di Roma, col cantar alla plebe la forza degli dèi negli auspíci, della quale avevano la scienza i patrizi, ferma lo stato eroico a’ romani. Dalle quali eroiche contese ebbe nome il secolo eroico.

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xxiii
[Ercole, con cui è al colmo il tempo eroico di Grecia]

[82] Le stesse difficultá ricorrono in Ercole, preso per un uomo vero, compagno di Giasone nella spedizione di Colco; quando egli non sia, come si truoverá, carattere eroico di fondatore di popoli per l’aspetto delle fatighe.

xxiv
[Sancuniate scrive storie in lettere volgari. — Anni del mondo 2800]

[83] Detto anco Sancunazione, chiamato «lo storico della veritá» (al riferire di Clemente alessandrino negli Stromati), il quale scrisse in caratteri volgari la storia fenicia, mentre gli egizi e gli sciti, come abbiam veduto, scrivevano per geroglifici, come si sono truovati scrivere fin al dí d’oggi i chinesi, i quali non meno degli sciti ed egizi vantano una mostruosa antichitá, perché al buio del loro chiuso, non praticando con altre nazioni, non videro la vera luce de’ tempi. E Sancuniate scrisse in caratteri fenici volgari, mentre le lettere volgari non si erano ancor truovate tra’ greci, come sopra si è detto.

xxv
[Guerra troiana. — Anni del mondo 2820]

[84] La quale, com’è narrata da Omero, avveduti critici giudicano non essersi fatta nel mondo; e i Ditti cretesi e i Dareti frigi, che la scrissero in prosa come storici del lor tempo, da’ medesimi critici sono mandati a conservarsi nella libraria dell’impostura.

xxvi
[Sesostride regna in Tebe. — Anni del mondo 2949]

[85] Il quale ridusse sotto il suo imperio le tre altre dinastie dell’Egitto; che si truova esser il re Ramse che ’l sacerdote egizio narra a Germanico appresso Tacito.

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xxvii
[Colonie greche in Asia, in Sicilia, in Italia. — Anni del mondo 2949]

[86] Questa è una delle pochissime cose nelle quali non seguiamo l’autoritá d’essa cronologia, forzati da una prepotente cagione. Onde poniamo le colonie de’ greci menate in Italia ed in Sicilia da cento anni dopo la guerra troiana, e sí da un trecento anni innanzi al tempo ove l’han poste i cronologi, cioè vicino a’ tempi ne’ quali i cronologi pongono gli errori degli eroi, come di Menelao, di Enea, d’Antenore, di Diomede e d’Ulisse. Né dee recare ciò maraviglia, quando essi variano di quattrocensessant’anni d’intorno al tempo d’Omero, ch’è ’l piú vicino autore a sí fatte cose de’ greci. Perché la magnificenza e dilicatezza di Siragosa a’ tempi delle guerre cartaginesi non avevano che invidiare a quelle d’Atene medesima; quando nell’isole piú tardi che ne’ continenti s’introducono la morbidezza e lo splendor de’ costumi, e, ne’ di lui tempi, Cotrone fa compassione a Livio del suo poco numero d’abitatori, la quale aveva abitato innanzi piú millioni.

xxviii

[Giuochi olimpici, prima ordinati da Ercole, poi intermessi, e restituiti da Isifilo. — Anni del mondo 3223]

[87] Perché si truova che da Ercole si noveravano gli anni con le raccolte; da Isifilo in poi, col corso del sole, per gli segni del zodiaco: onde da questi incomincia il tempo certo de’ greci.

xxix
[Fondazione di Roma. — Anni di Roma 1]

[88] Ma, qual sole le nebbie, cosí sgombra tutte le magnifiche oppenioni che finora si sono avute de’ princípi di Roma, e di tutte l’altre cittá che sono state capitali di famosissime nazioni, un luogo d’oro di Varrone (appo sant’Agostino nella

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Cittá di Dio): ch’ella sotto gli re, che vi regnarono da dugencinquant’anni, manomise da piú di venti popoli, e non distese piú di venti miglia l’imperio.

xxx

[Omero, il quale venne in tempo che non si eran ancora truovate le lettere volgari e ’l quale non vidde l’Egitto. — Anni del mondo 3290, di Roma 35]

[89] Del qual primo lume di Grecia ci ha lasciato al buio la greca storia d’intorno alle principali sue parti, cioè geografia e cronologia, poiché non ci è giunto nulla di certo né della di lui patria né dell’etá. Il quale nel terzo di questi libri si truoverá tutt’altro da quello ch’è stato finor creduto. Ma, qualunque egli sia stato, non vide certamente l’Egitto; il quale nell’Odissea narra che l’isola ov’è il faro or d’Alessandria fosse lontana da terraferma quanto una nave scarica, con rovaio in poppa, potesse veleggiar un intiero giorno. Né vide la Fenicia; ove narra l’isola di Calipso, detta Ogigia, esser tanto lontana che Mercurio dio, e dio alato, difficilissimamente vi giunse, come se da Grecia, dove sul monte Olimpo egli nell’Iliade canta starsi gli dèi, fusse la distanza che vi è dal nostro mondo in America. Talché, se i greci a’ tempi d’Omero avessero trafficato in Fenicia ed Egitto, egli n’arebbe perduto il credito a tutti e due i suoi poemi.

xxxi
[Psammetico apre l’Egitto a’ soli greci di Ionia e di Creta. — Anni del mondo 3334]

[90] Onde da Psammetico comincia Erodoto a raccontar cose piú accertate degli egizi. E ciò conferma che Omero non vide l’Egitto; e le tante notizie, ch’egli narra e di Egitto e d’altri paesi del mondo, o sono cose e fatti dentro essa Grecia, come si dimostrerá nella Geografia poetica; o sono tradizioni, alterate con lungo tempo, de’ fenici, egizi, frigi, ch’avevano menate le loro colonie tra’ greci; o sono novelle de’ viaggiatori fenici, che da molto innanzi a’ tempi d’Omero mercantavano nelle marine di Grecia.

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xxxii
[Esopo, moral filosofo volgare. — Anni del mondo 3334]

[91] Nella Logica poetica si truoverá Esopo non essere stato un particolar uomo in natura, ma un genere fantastico, ovvero un carattere poetico de’ soci ovvero famoli degli eroi, i quali certamente furon innanzi a’ sette saggi di Grecia.

xxxiii

[Sette savi di Grecia: de’ quali uno, Solone, ordina la libertá popolare d’Atene; l’altro, Talete milesio, dá incominciamento alla filosofia con la fisica. — Anni del mondo 3406]

[92] E cominciò da un principio troppo sciapito: dall’acqua; forse perché aveva osservato con l’acqua crescer le zucche.

xxxiv

[Pittagora, di cui, vivo, dice Livio che nemmeno il nome poté sapersi in Roma. — Anni del mondo 3468, di Roma 225]

[93] Ch’esso Livio pone a’ tempi di Servio Tullio (tanto ebbe per vero che Pittagora fosse stato maestro di Numa in divinitá!); e ne’ medesimi tempi di Servio Tullio, che sono presso a dugento anni dopo di Numa, dice che ’n quelli tempi barbari dell’Italia mediterranea fosse stato impossibile, nonché esso Pittagora, il di lui nome, per tanti popoli di lingue e costumi diversi, avesse potuto da Cotrone giugnere a Roma. Onde s’intenda quanto furono spediti e facili tanti lunghi viaggi d’esso Pittagora in Tracia dagli scolari d’Orfeo, da’ maghi nella Persia, da’ caldei in Babillonia, da’ ginnosofisti nell’India; quindi, nel ritorno, da’ sacerdoti in Egitto e, quanto è larga, l’Affrica attraversando, dagli scolari d’Atlante nella Mauritania; e di lá, rivalicando il mare, da’ druidi nella Gallia; ed indi fusse ritornato, ricco della sapienza barbaresca che dice l’Ornio, nella sua patria: da quelle barbare nazioni, alle quali, lunga etá

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innanzi, Ercole tebano con uccider mostri e tiranni era andato per lo mondo disseminando l’umanitá; ed alle quali medesime, lunga etá dopo, essi greci vantavano d’averla insegnata, ma non con tanto profitto che pure non restassero barbare. Tanto ha di serioso e grave la succession delle scuole della filosofia barbaresca che dice l’Ornio, alquanto piú sopra accennata, alla quale la boria de’ dotti ha cotanto applaudito!

[94] Che hassi a dire se fa necessitá qui l’autoritá di Lattanzio, che risolutamente niega Pittagora essere stato discepolo d’Isaia? La qual autoritá si rende gravissima per un luogo di Giuseffo ebreo nell’Antichitá giudaiche, che pruova gli ebrei, a’ tempi di Omero e di Pittagora, aver vivuto sconosciuti ad esse vicine loro mediterranee, nonché all’oltramarine lontanissime nazioni. Perché a Tolomeo Filadelfo, che si maravigliava perché delle leggi mosaiche né poeta né storico alcuno avesse fatto veruna menzione giammai, Demetrio ebreo rispose essere stati puniti miracolosamente da Dio alcuni che attentato avevano di narrarle a’ gentili, come Teopompo che ne fu privato del senno, e Teodette che lo fu della vista. Quindi esso Giuseffo confessa generosamente questa lor oscurezza, e ne rende queste cagioni: «Noi — dic’egli — non abitiamo sulle marine, né ci dilettiamo di mercantare e per cagione di traffichi praticare con gli stranieri». Sul quale costume Lattanzio riflette essere stato ciò consiglio della provvedenza divina, acciocché coi commerzi gentileschi non si profanasse la religione del vero Dio; nel qual detto egli è Lattanzio seguíto da Pier Cuneo, De republica hebraeorum. Tutto ciò si ferma con una confession pubblica d’essi ebrei, i quali per la versione de’ Settanta facevan ogni anno un solenne digiuno nel dí otto di tebet, ovvero dicembre; perocché, quando ella uscí, tre giorni di tenebre furon per tutto il mondo, come sui libri rabbinici l’osservarono il Casaubuono nell’Esercitazioni sopra gli Annali del Baronio, il Buxtorfio nella Sinagoga giudaica e l’Ottingero nel Tesoro filologico. E perché i giudei grecanti, dett’«ellenisti», tra’ quali fu Aristea, detto capo di essa versione, le attribuivano una divina autoritá, i giudei gerosolimitani gli odiavano mortalmente.

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[95] Ma per la natura di queste cose civili [è da reputare impossibile] che, per confini vietati anco dagli umanissimi egizi (i quali furono cosí inospitali a’ greci lunga etá dopo ch’avevano aperto loro l’Egitto, ch’erano vietati d’usar pentola, schidone, coltello ed anco carne tagliata col coltello che fusse greco), per cammini aspri ed infesti, senza alcuna comunanza di lingue, tra gli ebrei, che solevano motteggiarsi da’ gentili ch’allo straniero assetato non additassero il fonte, i profeti avessero profanato la loro sagra dottrina a’ stranieri, uomini nuovi e ad essolor sconosciuti, la quale in tutte le nazioni del mondo i sacerdoti custodivano arcana al volgo delle loro medesime plebi, ond’ella ha avuto appo tutte il nome di «sagra», ch’è tanto dire quanto «segreta». E ne risulta una pruova piú luminosa per la veritá della cristiana religione, che Pittagora, che Platone, in forza di umana sublimissima scienza, si fussero alquanto alzati alla cognizione delle divine veritá, delle quali gli ebrei erano stati addottrinati dal vero Dio; e, al contrario, ne nasce una grave confutazione dell’errore de’ mitologi ultimi, i quali credono che le favole sieno storie sagre, corrotte dalle nazioni gentili e sopra tutti da’ greci. E, benché gli egizi praticarono con gli ebrei nella loro cattivitá, però, per un costume comune de’ primi popoli, che qui dentro sará dimostro, di tener i vinti per uomini senza dèi, eglino della religione e storia ebraica fecero anzi beffe che conto; i quali, come narra il sacro Genesi, sovente per ischerno domandavano agli ebrei perché lo Dio ch’essi adoravano non veniva a liberargli dalle lor mani.

xxxv
[Servio Tullio re. — Anni del mondo 3468, di Roma 225]

[96] Il quale, con comun errore, è stato finor creduto d’aver ordinato in Roma il censo pianta della libertá popolare, il quale dentro si truoverá essere stato censo pianta di libertá signorile. Il qual errore va di concerto con quell’altro onde si è pur creduto finora che, ne’ tempi ne’ quali il debitor

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ammalato doveva comparire sull’asinello o dentro la carriuola innanzi al pretore, Tarquinio Prisco avesse ordinato l’insegne, le toghe, le divise e le sedie d’avolio (de’ denti di quelli elefanti che, perché i romani avevano veduto la prima volta in Lucania nella guerra con Pirro, dissero «boves lucas») e finalmente i cocchi d’oro da trionfare; nella quale splendida comparsa rifulse la romana maestá ne’ tempi della repubblica popolare piú luminosa.

xxxvi
[Esiodo. — Anni del mondo 3500]

[97] Per le pruove che si faranno d’intorno al tempo che fra i greci si truovò la scrittura volgare, poniamo Esiodo circa i tempi d’Erodoto e alquanto innanzi; il quale da’ cronologi con troppo risoluta franchezza si pone trent’anni innanzi d’Omero, della cui etá variano quattrocensessant’anni gli autori. Oltrechè, Porfirio (appresso Suida) e Velleo Patercolo voglion ch’Omero avesse di gran tempo preceduto ad Esiodo. E ’l treppiedi ch’Esiodo consacrò in Elicona ad Apollo, con iscrittovi ch’esso aveva vinto Omero nel canto, quantunque il riconosca Varrone (appresso Aulo Gellio), egli è da conservarsi nel museo dell’impostura, perché fu una di quelle che fanno tuttavia a’ nostri tempi i falsatori delle medaglie per ritrarne con tal frode molto guadagno.

xxxvii
[Erodoto, Ippocrate. — Anni del mondo 3500]

[98] Egli è Ippocrate posto da’ cronologi nel tempo de’ sette savi della Grecia. Ma, tra perché la di lui vita è troppo tinta di favole (ch’è raccontato figliuolo d’Eusculapio e nipote d’Apollo), e perch’è certo autore d’opere scritte in prosa con volgari caratteri, perciò egli è qui posto circa i tempi d’Erodoto, il qual egualmente e scrisse in prosa con volgari caratteri e tessé la sua storia quasi tutta di favole.

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xxxviii
[Idantura, re di Scizia. — Anni del mondo 3530]

[99] Il quale a Dario il maggiore, che gli aveva intimato la guerra, risponde con cinque parole reali (le quali, come dentro si mostrerá, i primi popoli dovettero usare prima che le vocali e, finalmente, le scritte); le quali parole reali furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d’aratro ed un arco da saettare. Dentro, con tutta naturalezza e propietá se ne spiegheranno i significati; e c’incresce rapportare ciò che san Cirillo alessandrino riferisce del consiglio che Dario tenne su tal risposta, che da se stesso accusa le ridevoli interpetrazioni che le diedero i consiglieri. E questo è re di quelli sciti i quali vinsero gli egizi in contesa d’antichitá, ch’a tali tempi sí bassi non sapevano nemmeno scrivere per geroglifici! Talché Idantura dovett’esser un degli re chinesi, che, fin a pochi secoli fa chiusi a tutto il rimanente del mondo, vantano vanamente un’antichitá maggiore di quella del mondo e, ’n tanta lunghezza di tempi, si sono truovati scrivere ancora per geroglifici, e, quantunque per la gran mollezza del cielo abbiano dilicatissimi ingegni, co’ quali fanno tanti a maraviglia dilicati lavori, però non sanno ancora dar l’ombre nella pittura, sopra le quali risaltar possano i lumi; onde, non avendo sporti né addentrati, la loro pittura è goffissima. E le statuette, ch’indi ci vengon di porcellana, gli ci accusano egualmente rozzi quanto lo furono gli egizi nella fonderia; ond’è da stimarsi che, come ora i chinesi, cosí furono rozzi gli egizi nella pittura.

[100] Di questi sciti è quell’Anacarsi, autore degli oracoli scitici, come Zoroaste lo fu de’ caldaici; che dovettero dapprima esser oracoli d’indovini, che poi per la boria de’ dotti passarono in oracoli di filosofi. Se dagli iperborei della Scizia presente, o da altra nata anticamente dentro essa Grecia, sieno venuti a’ greci i due piú famosi oracoli del gentilesimo, il delfico e ’l dodoneo, come il credette Erodoto e, dopo lui, Pindaro e Ferenico, seguíti da Cicerone, De natura deorum, onde forse Anacarsi

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fu gridato famoso autore d’oracoli e fu noverato tra gli antichissimi dèi fatidici; si vedrá nella Geografia poetica. Vaglia, per ora intendere quanto la Scizia fusse stata dotta in sapienza riposta, che gli sciti ficcavano un coltello per terra e l’adoravan per dio, perché con quello giustificassero l’uccisioni ch’avevan essi da fare; dalla qual fiera religione uscirono le tante virtú morali e civili narrate da Diodoro sicolo, Giustino, Plinio, e innalzate con le lodi al cielo da Orazio. Laonde Abari, volendo ordinare la Scizia con le leggi di Grecia, funne ucciso da Caduvido, suo fratello. Tanto egli profittò nella filosofia barbaresca dell’Ornio, che non intese da sé le leggi valevoli di addimesticare una gente barbara ad un’umana civiltá, e dovette appararle da’ greci! Ch’è lo stesso, appunto, de’ greci in rapporto degli sciti, che poco fa abbiam detto de’ medesimi a riguardo degli egizi: che, per la vanitá di dar al lor sapere romorose origini d’antichitá forestiera, meritarono con veritá la riprensione ch’essi stessi sognarono d’aver fatta il sacerdote egizio a Solone (riferita da Crizia, appresso Platone in uno degli Alcibiadi): ch’i greci fussero sempre fanciulli. Laonde hassi a dire che per cotal boria i greci, a riguardo degli sciti e degli egizi, quanto essi guadagnarono di vanagloria, tanto perderono di vero merito.

xxxix

[Guerra peloponnesiaca. Tucidide, il qual scrive che fin a suo padre i greci non seppero nulla delle antichitá loro propie, onde si diede a scrivere di cotal guerra. — Anni del mondo 3530]

[101] Il qual era giovinetto nel tempo ch’era Erodoto vecchio, che gli poteva esser padre, e visse nel tempo piú luminoso di Grecia, che fu quello della guerra peloponnesiaca, di cui fu contemporaneo, e perciò, per iscrivere cose vere, ne scrisse la storia; da cui fu detto ch’i greci fin al tempo di suo padre, ch’era quello d’Erodoto, non seppero nulla dell’antichitá loro propie. Che hassi a stimare delle cose straniere che essi narrano, e quanto essi ne narrano tanto noi sappiamo dell’antichitá gentilesche barbare? Che hassi a stimare, fin alle guerre cartaginesi,

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delle cose antiche di que’ romani che fin a que’ tempi non avevan ad altro atteso ch’all’agricoltura ed al mestiero dell’armi, quando Tucidide stabilisce questa veritá de’ suoi greci, che provennero tanto prestamente filosofi? Se non, forse, vogliam dire ch’essi romani n’avesser avuto un particolar privilegio da Dio.

xl

[Socrate dá principio alla filosofia morale ragionata. Platone fiorisce nella metafisica. Atene sfolgora di tutte l’arti della piú colta umanitá. Legge delle XII Tavole. — Anni del mondo 3553, di Roma 303]

[102] Nel qual tempo da Atene si porta in Roma la legge delle XII Tavole, tanto incivile, rozza, inumana, crudele e fiera quanto ne’ Princípi del Diritto universale sta dimostrata.

xli

[Senofonte, con portar l’armi greche nelle viscere della Persia, è ’l primo a sapere con qualche certezza le cose persiane. — Anni del mondo 3583, di Roma 333]

[103] Come osserva san Girolamo, Sopra Daniello. E dopo che, per l’utilitá de’ commerzi, avevano cominciato i greci sotto Psammetico a sapere le cose di Egitto (onde da quel tempo Erodoto incomincia a scrivere cose piú accertate degli egizi), da Senofonte la prima volta, per la necessitá delle guerre, cominciaron a saper i greci cose piú accertate de’ persiani; de’ quali pure Aristotile, portatovisi con Alessandro magno, scrive che, innanzi, da’ greci se n’erano dette favole, come si accenna in questa Tavola cronologica. In cotal guisa cominciaron i greci ad avere certa contezza delle cose straniere.

xlii
[Legge publilia. — Anni del mondo 3658, di Roma 416]

[104] Questa legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXVI, e contiene un punto massimo d’istoria romana, ché con questa legge si dichiarò la romana repubblica mutata di stato da

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aristocratica in popolare; onde Publilio Filone, che ne fu autore, ne fu detto «dittator popolare». E non si è avvertita, perché non si è saputo intendere il di lei linguaggio. Lo che appresso sará da noi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che ne diamo un’idea per ipotesi.

[105] Giacque sconosciuta questa e la seguente legge petelia, ch’è d’ugual importanza che la publilia, per queste tre parole non diffinite: «popolo», «regno» e «libertá», per le quali si è con comun errore creduto che ’l popolo romano fin da’ tempi di Romolo fusse stato di cittadini come nobili cosí plebei, che ’l romano fusse stato regno monarchico, e che la ordinatavi da Bruto fusse stata libertá popolare. E queste tre voci non diffinite han fatto cader in errore tutti i critici, storici, politici e giureconsulti, perché da niuna delle presenti poterono far idea delle repubbliche eroiche, le quali furono d’una forma aristocratica severissima e quindi a tutto cielo diverse da queste de’ nostri tempi.

[106] Romolo dentro l’asilo aperto nel luco egli fondò Roma sopra le clientele, le quali furono protezioni nelle quali i padri di famiglia tenevano i rifuggiti all’asilo in qualitá di contadini giornalieri, che non avevano niun privilegio di cittadino, e sí niuna parte di civil libertá; e, perché v’erano rifuggiti per aver salva la vita, i padri proteggevano loro la libertá naturale col tenergli partitamente divisi in coltivar i di loro campi, de’ quali cosí dovette comporsi il fondo pubblico del territorio romano, come di essi padri Romolo compose il senato.

[107] Appresso, Servio Tullio vi ordinò il censo, con permettere a’ giornalieri il dominio bonitario de’ campi ch’erano propi de’ padri, i quali essi coltivassero per sé, sotto il peso del censo e con l’obbligo di servir loro a propie spese nelle guerre; conforme, di fatto, i plebei ad essi patrizi servirono dentro cotesta finor sognata libertá popolare. La qual legge di Servio Tullio fu la prima legge agraria del mondo, ordinatrice del censo pianta delle repubbliche eroiche, ovvero antichissime aristocrazie di tutte le nazioni.

[108] Dappoi, Giunio Bruto, con la discacciata de’ tiranni Tarquini,

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restituí la romana repubblica a’ suoi princípi, e, con ordinarvi i consoli, quasi due re aristocratici annali (come Cicerone gli appella nelle sue Leggi), invece di uno re a vita, vi riordinò la libertá de’ signori da’ lor tiranni, non giá la libertá del popolo da’ signori. Ma, i nobili mal serbando l’agraria di Servio a’ plebei, questi si criarono i tribuni della plebe, e gli si fecero giurare dalla nobiltá, i quali difendessero alla plebe tal parte di natural libertá del dominio bonitario de’ campi: siccome perciò, disiderando i plebei riportarne da’ nobili il dominio civile, i tribuni della plebe cacciarono da Roma Marcio Coriolano, per aver detto ch’i plebei andassero a zappare, cioè che, poiché non eran contenti dell’agraria di Servio Tullio e volevano un’agraria piú piena e piú ferma, si riducessero a’ giornalieri di Romolo. Altrimente, che stolto fasto de’ plebei sdegnare l’agricoltura, la quale certamente sappiamo che si recavano ad onore esercitar essi nobili? e per sí lieve cagione accendere sí crudel guerra, che Marcio, per vendicarsi dell’esiglio, era venuto a rovinar Roma, senonsé le pietose lagrime della madre e della moglie l’avessero distolto dall’empia impresa?

[109] Per tutto ciò, pur seguitando i nobili a ritogliere i campi a’ plebei poi che quelli gli avevano coltivati, né avendo questi azion civile da vendicargli, quivi i tribuni della plebe fecero la pretensione della legge delle XII Tavole (dalla quale, come ne’ Princípi del Diritto universale si è dimostrato, non si dispose altro affare che questo), con la qual legge i nobili permisero il dominio quiritario de’ campi a’ plebei; il qual dominio civile, per diritto natural delle genti, permettesi agli stranieri. E questa fu la seconda legge agraria dell’antiche nazioni.

[110] Quindi — accorti i plebei che non potevan essi trammandar ab intestato i campi a’ loro congionti, perché non avevano suitá, agnazioni, gentilitá (per le quali ragioni correvano allora le successioni legittime), perché non celebravano matrimoni solenni, e nemmeno ne potevano disponere in testamento, perché non avevano privilegio di cittadini — fecero la pretensione

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de’ connubi de’ nobili, o sia della ragione di contrarre nozze solenni (ché tanto suona «connubium»), la cui maggior solennitá erano gli auspíci, ch’erano propi de’ nobili (i quali auspíci furono il gran fonte di tutto il diritto romano, privato e pubblico); e sí fu da’ padri comunicata a’ plebei la ragion delle nozze, le quali, per la diffinizione di Modestino giureconsulto, essendo «omnis divini et humani iuris communicatio», ch’altro non è la cittadinanza, dieder essi a’ plebei il privilegio di cittadini. Quindi, secondo la serie degli umani disidèri, ne riportarono i plebei da’ padri comunicate tutte le dipendenze degli auspíci ch’erano di ragion privata, come patria potestá, suitá, agnazioni, gentilitá e, per questi diritti, le successioni legittime, i testamenti e le tutele. Dipoi ne pretesero le dipendenze di ragion pubblica, e prima ne riportarono comunicati gl’imperi coi consolati, e finalmente i sacerdozi e i pontificati e, con questi, la scienza ancor delle leggi.

[111] In cotal guisa i tribuni della plebe, sulla pianta sopra la qual erano stati criati di proteggerle la libertá naturale, tratto tratto si condussero a farle conseguire tutta la libertá civile. E ’l censo ordinato da Servio Tullio — con disponersi dappoi che non piú si pagasse privatamente a’ nobili, ma all’erario, perché l’erario somministrasse le spese nelle guerre a’ plebei, — da pianta di libertá signorile, andò da se stesso, naturalmente, a formar il censo pianta della libertá popolare; di che dentro truoverassi la guisa.

[112] Con uguali passi i medesimi tribuni s’avanzarono nella potestá di comandare le leggi. Perché le due leggi orazia ed ortensia non poterono accordar alla plebe ch’i di lei plebisciti obbligassero tutto il popolo senonsé nelle due particolari emergenze, per la prima delle quali la plebe si era ritirata nell’Aventino gli anni di Roma CCCIV, nel qual tempo, come qui si è detto per ipotesi e dentro mostrerassi di fatto, i plebei non erano ancor cittadini; e per la seconda ritirossi nel Gianicolo gli anni CCCLXVII, quando la plebe ancora contendeva con la nobiltá di comunicarlesi il consolato. Ma, sulla pianta delle suddette due leggi, la plebe finalmente si avanzò a comandare

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leggi universali. Per lo che dovetter avvenire in Roma de’ grandi movimenti e rivolte; onde fu bisogno di criare Publilio Filone dittatore, il quale non si criava se non negli ultimi pericoli della repubblica, siccome in questo, ch’ella era caduta in un tanto grande disordine di nudrire dentro il suo corpo due potestá somme legislatrici, senza essere di nulla distinte né di tempi né di materie né di territori, con le quali doveva prestamente andare in una certa rovina. Quindi Filone, per rimediare a tanto civil malore, ordinò che ciò, che la plebe avesse co’ plebisciti comandato ne’ comizi tributi, «omnes quirites teneret», obbligasse tutto il popolo ne’ comizi centuriati, ne’ quali «omnes quirites» si ragunavano (perché i romani non si appellavano «quirites» che nelle pubbliche ragunanze, né «quirites» nel numero del meno si disse in volgar sermone latino giammai); con la qual formola Filone volle dire che non si potessero ordinar leggi le quali fussero a’ plebisciti contrarie. Per tutto ciò — essendo giá, per leggi nelle quali essi nobili erano convenuti, la plebe in tutto e per tutto uguagliata alla nobiltá; e per quest’ultimo tentativo, al quale i nobili non potevano resistere senza rovinar la repubblica, ella era divenuta superiore alla nobiltá, ché senza l’autoritá del senato comandava leggi generali a tutto il popolo; e sí essendo giá naturalmente la romana repubblica divenuta libera popolare; — Filone, con questa legge, tale la dichiarò e ne fu detto «dittator popolare».

[113] In conformitá di tal cangiata natura, le diede due ordinamenti, che si contengono negli altri due capi della legge publilia. Il primo fu che l’autoritá del senato, la qual era stata autoritá di signori, per la quale, di ciò che ’l popolo avesse disposto prima, «deinde patres fierent auctores» (talché le criazioni de’ consoli, l’ordinazioni delle leggi, fatte dal popolo per lo innanzi, erano state pubbliche testimonianze di merito e domande pubbliche di ragione), questo dittatore ordinò ch’indi in poi fussero i padri autori al popolo, ch’era giá sovrano libero, «in incertum comitiorum eventum», come tutori del popolo, signor del romano imperio; che, se volesse comandare

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le leggi, le comandasse secondo la formola portata a lui dal senato, altrimente si servisse del suo sovrano arbitrio e l’«antiquasse» (cioè dichiarasse di non voler novitá); talché tutto ciò ch’indi in poi ordinasse il senato d’intorno a’ pubblici affari, fussero o istruzioni da esso date al popolo, o commessioni del popolo date a lui. Restava finalmente il censo, perché, per tutto il tempo innanzi, essendo stato l’erario de’ nobili, i soli nobili se n’erano criati censori: poi che egli per cotal legge divenne patrimonio di tutto il popolo, ordinò Filone nel terzo capo che si comunicasse alla plebe ancor la censura, il qual maestrato solo restava da comunicarsi alla plebe.

[114] Se sopra quest’ipotesi si legga quindi innanzi la storia romana, a mille pruove si truoverá che vi reggono tutte le cose che narra, le quali, per le tre voci non diffinite anzidette, non hanno né alcun fondamento comune, né tra loro alcun convenevole rapporto particolare; onde quest’ipotesi perciò si dovrebbe ricever per vera. Ma, se ben si considera, questa non è tanto ipotesi quanto una veritá meditata in idea, che poi con l’autoritá truoverassi di fatto. E — posto ciò che Livio dice generalmente: gli asili essere stati «vetus urbes condentium consilium», come Romolo entro l’asilo aperto nel luco egli fondò la romana — ne dá l’istoria di tutte l’altre cittá del mondo de’ tempi finora disperati a sapersi. Lo che è un saggio d’una storia ideal eterna (la quale dentro si medita e si ritruova), sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni.

xliii
[Legge petelia. — Anni del mondo 3661, di Roma 419]

[115] Quest’altra legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXIX, detta de nexu (e, sí, tre anni dopo la publilia), da’ consoli Caio Petelio e Lucio Papirio Mugilano; e contiene un altro punto massimo di cose romane, poiché con quella si rillasciò a’ plebei la ragion feudale d’essere vassalli ligi de’ nobili per cagion di debiti, per gli quali quelli tenevano questi, sovente tutta la vita,

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a lavorare per essi nelle loro private prigioni. Ma restò al senato il sovrano dominio ch’esso aveva sopra i fondi dell’imperio romano, ch’era giá passato nel popolo, e per lo senato‐consulto che chiamavano «ultimo», finché la romana fu repubblica libera, se ’l mantenne con la forza dell’armi; onde, quante volte il popolo ne volle disponere con le leggi agrarie de’ Gracchi, tante il senato armò i consoli, i quali dichiararono rubelli ed uccisero i tribuni della plebe che n’erano stati gli autori. Il quale grand’effetto non può altrove reggere che sopra una ragione di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranitá; la qual ragione ci vien confermata con un luogo di Cicerone in una Catilinaria, dove afferma che Tiberio Gracco con la legge agraria guastava lo stato della repubblica, e che con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu ammazzato, per lo diritto dettato nella formola con la qual il consolo armava il popolo contro gli autori di cotal legge: «Qui rempublicam salvam velit consulem sequatur».

xliv

[Guerra di Taranto, ove s’incomincian a conoscer tra loro i latini co’ greci. — Anni del mondo 3708, di Roma 489]

[116] La cui cagione fu ch’i tarantini maltrattarono le navi romane ch’approdavano al loro lido e gli ambasciadori altresí, perché, per dirla con Floro, essi si scusavano che «qui essent aut unde venirent ignorabant». Tanto tra loro, quantunque dentro brievi continenti, si conoscevano i primi popoli!

xlv

[Guerra cartaginese seconda, da cui comincia la storia certa romana a Livio, il qual pur professa non saperne tre massime circostanze. — Anni del mondo 3849, di Roma 552]

[117] Della qual guerra pur Livio — il quale si era professato dalla seconda guerra cartaginese scrivere la storia romana con alquanto piú di certezza, promettendo di scrivere una guerra la piú memorabile di quante mai si fecero da’ romani, e, ’n

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conseguenza di cotanto incomparabil grandezza, ne debbono come di tutte piú romorose, esser piú certe le memorie che scrive — non ne seppe, ed apertamente dice di non sapere, tre gravissime circostanze. La prima, sotto quali consoli, dopo aver espugnato Sagunto, avesse Annibale preso dalla Spagna il cammino verso l’Italia. La seconda, per quali Alpi vi giunse, se per le Cozie o l’Appennine. La terza, con quante forze; di che truova negli antichi annali tanto divario, ch’altro avevano lasciato scritto seimila cavalieri e ventimila pedoni, altri ventimila di quelli e ottantamila di questi.

[Conclusione]

[118] Per lo che tutto ragionato in queste Annotazioni, si vede che quanto ci è giunto dell’antiche nazioni gentili, fin a’ tempi diterminati su questa Tavola, egli è tutto incertissimo. Onde noi in tutto ciò siamo entrati come in cose dette «nullius», delle quali è quella regola di ragione che «occupanti conceduntur»; e perciò non crediamo d’offendere il diritto di niuno se ne ragioneremo spesso diversamente ed alle volte tutto il contrario all’oppenioni che finora si hanno avute d’intorno a’ princípi dell’umanitá delle nazioni. E, con far ciò, gli ridurremo a princípi di scienza, per gli quali ai fatti della storia certa si rendano le loro primiere origini, sulle quali reggano e per le quali tra essoloro convengano; i quali finora non sembrano aver alcun fondamento comune né alcuna perpetuitá di séguito né alcuna coerenza tra lor medesimi.

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[SEZIONE SECONDA] Degli elementi

[119] Per dar forma adunque alle materie qui innanzi apparecchiate sulla Tavola cronologica, proponiamo ora qui i seguenti assiomi o degnitá cosí filosofiche come filologiche, alcune poche, ragionevoli e discrete domande, con alquante schiarite diffinizioni; le quali, come per lo corpo animato il sangue, cosí deono per entro scorrervi ed animarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona della comune natura delle nazioni.

i

[120] L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo.

[121] Questa degnitá è la cagione di que’ due comuni costumi umani: uno che «fama crescit eundo», l’altro che «minuit praesentia famam». La qual, avendo fatto un cammino lunghissimo quanto è dal principio del mondo, è stata la sorgiva perenne di tutte le magnifiche oppenioni che si sono finor avute delle sconosciute da noi lontanissime antichitá, per tal propietá della mente umana avvertita da Tacito nella Vita d’Agricola con quel motto: «Omne ignotum pro magnifico est».

ii

[122] È altra propietá della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti.

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[123] Questa degnitá addita il fonte inesausto di tutti gli errori presi dall’intiere nazioni e da tutt’i dotti d’intorno a’ princípi dell’umanitá; perocché da’ loro tempi illuminati, colti e magnifici, ne’ quali cominciarono quelle ad avvertirle, questi a ragionarle, hanno estimato l’origini dell’umanitá, le quali dovettero per natura essere picciole, rozze, oscurissime.

[124] A questo genere sono da richiamarsi due spezie di borie che si sono sopra accennate: una delle nazioni ed un’altra de’ dotti.

iii

[125] Della boria delle nazioni udimmo quell’aureo detto di Diodoro sicolo: che le nazioni, o greche o barbare, abbiano avuto tal boria: d’aver esse prima di tutte l’altre ritruovati i comodi della vita umana e conservar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo.

[126] Questa degnitá dilegua ad un fiato la vanagloria de’ caldei, sciti, egizi, chinesi, d’aver essi i primi fondato l’umanitá dell’antico mondo. Ma Flavio Giuseffo ebreo ne purga la sua nazione, con quella confessione magnanima ch’abbiamo sopra udito: che gli ebrei avevano vivuto nascosti a tutti i gentili. E la sagra storia ci accerta l’etá del mondo essere quasi giovine a petto della vecchiezza che ne credettero i caldei, gli sciti, gli egizi e fin al dí d’oggi i chinesi. Lo che è una gran pruova della veritá della storia sagra.

iv

[127] A tal boria di nazioni s’aggiugne qui la boria de’ dotti, i quali, ciò ch’essi sanno, vogliono che sia antico quanto che ’l mondo.

[128] Questa degnitá dilegua tutte le oppinioni de’ dotti d’intorno alla sapienza innarrivabile degli antichi; convince d’impostura gli oracoli di Zoroaste caldeo, d’Anacarsi scita, che non ci son pervenuti, il Pimandro di Mercurio Trimegisto, gli orfici (o

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sieno versi d’Orfeo), il Carme aureo di Pittagora, come tutti gli piú scorti critici vi convengono; e riprende d’importunitá tutti i sensi mistici dati da’ dotti a’ geroglifici egizi e l’allegorie filosofiche date alle greche favole.

v

[129] La filosofia, per giovar al gener umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corrozione.

[130] Questa degnitá allontana dalla scuola di questa Scienza gli stoici, i quali vogliono l’ammortimento de’ sensi, e gli epicurei, che ne fanno regola, ed entrambi niegano la provvedenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che muoiano l’anime umane coi corpi, i quali entrambi si dovrebbero dire «filosofi monastici o solitari». E vi ammette i filosofi politici, e principalmente i platonici, i quali convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia provvedenza divina, che si debbano moderare l’umane passioni e farne umane virtú, e che l’anime umane sien immortali. E, ’n conseguenza, questa degnitá ne dará gli tre princípi di questa Scienza.

vi

[131] La filosofia considera l’uomo quale dev’essere, e sí non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo.

vii

[132] La legislazione considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana societá; come della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sí la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e

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di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicitá.

[133] Questa degnitá pruova esservi provvedenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilitá, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in umana societá.

viii

[134] Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano.

[135] Questa degnitá sola, poiché ’l gener umano, da che si ha memoria del mondo, ha vivuto e vive comportevolmente in societá, ella determina la gran disputa, della quale i migliori filosofi e i morali teologi ancora contendono con Carneade scettico e con Epicuro (né Grozio l’ha pur inchiovata ): se vi sia diritto in natura, o se l’umana natura sia socievole, che suonano la medesima cosa.

[136] Questa medesima degnitá, congionta con la settima e ’l di lei corollario, pruova che l’uomo abbia libero arbitrio, però debole, di fare delle passioni virtú; ma che da Dio è aiutato, naturalmente con la divina provvedenza, e soprannaturalmente dalla divina grazia.

ix

[137] Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccurano d’attenersi al certo, perché, non potendo soddisfare l’intelletto con la scienza, almeno la volontá riposi sulla coscienza.

x

[138] La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autoritá dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo.

77 ―

[139] Questa degnitá per la seconda parte diffinisce i filologi essere tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d’intorno alla cognizione delle lingue e de’ fatti de’ popoli, cosí in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l’alleanze, i viaggi, i commerzi.

[140] Questa medesima degnitá dimostra aver mancato per metá cosí i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l’autoritá de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro autoritá con la ragion de’ filosofi; lo che se avessero fatto, sarebbero stati piú utili alle repubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questa Scienza.

xi

[141] L’umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso comune degli uomini d’intorno alle umane necessitá o utilitá, che son i due fonti del diritto natural delle genti.

xii

[142] Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano.

[143] Questa degnitá con la seguente diffinizione ne dará una nuova arte critica sopra essi autori delle nazioni, tralle quali devono correre assai piú di mille anni per provenirvi gli scrittori, sopra i quali finora si è occupata la critica.

xiii

[144] Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero.

[145] Questa degnitá è un gran principio, che stabilisce il senso comune del gener umano esser il criterio insegnato alle nazioni dalla provvedenza divina per diffinire il certo d’intorno al diritto natural delle genti, del quale le nazioni si accertano

78 ―
con intendere l’unitá sostanziali di cotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutte convengono. Ond’esce il dizionario mentale, da dar l’origini a tutte le lingue articolate diverse, col quale sta conceputa la storia ideal eterna che ne dia le storie in tempo di tutte le nazioni; del qual dizionario e della qual istoria si proporranno appresso le degnitá loro propie.

[146] Questa stessa degnitá rovescia tutte l’idee che si son finor avute d’intorno al diritto natural delle genti, il quale si è creduto esser uscito da una prima nazione da cui l’altre l’avessero ricevuto; al qual errore diedero lo scandalo gli egizi e i greci, i quali vanamente vantavano d’aver essi disseminata l’umanitá per lo mondo. Il qual error certamente dovette far venire la legge delle XII Tavole da’ greci a’ romani. Ma, in cotal guisa, egli sarebbe un diritto civile comunicato ad altri popoli per umano provvedimento, e non giá un diritto con essi costumi umani naturalmente dalla divina provvedenza ordinato in tutte le nazioni. Questo sará uno de’ perpetui lavori che si fará in questi libri: in dimostrare che ’l diritto natural delle genti nacque privatamente appo i popoli senza sapere nulla gli uni degli altri; e che poi, con l’occasioni di guerre, ambasciarie, allianze, commerzi, si riconobbe comune a tutto il gener umano.

xiv

[147] Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.

xv

[148] Le propietá inseparabili da’ subbietti devon essere produtte dalla modificazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci posson avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose.

79 ―

xvi

[149] Le tradizioni volgari devon avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi.

[150] Questo sará altro grande lavoro di questa Scienza: di ritruovarne i motivi del vero, il quale, col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso.

xvii

[151] I parlari volgari debbon esser i testimoni piú gravi degli antichi costumi de’ popoli, che si celebrarono nel tempo ch’essi si formaron le lingue.

xviii

[152] Lingua di nazione antica, che si è conservata regnante finché pervenne al suo compimento, dev’esser un gran testimone de’ costumi de’ primi tempi del mondo.

[153] Questa degnitá ne assicura che le pruove filologiche del diritto natural delle genti (del quale, senza contrasto, sappientissima sopra tutte l’altre del mondo fu la romana) tratte da’ parlari latini sieno gravissime. Per la stessa ragione potranno far il medesimo i dotti della lingua tedesca, che ritiene questa stessa propietá della lingua romana antica.

xix

[154] Se la legge delle XII Tavole furono costumi delle genti del Lazio, incominciativisi a celebrare fin dall’etá di Saturno, altrove sempre andanti e da’ romani fissi nel bronzo e religiosamente custoditi dalla romana giurisprudenza, ella è un gran testimone dell’antico diritto natural delle genti del Lazio.

80 ―

[155] Ciò si è da noi dimostro esser vero di fatto, da ben molti anni fa, ne’ Princípi del Diritto universale; lo che piú illuminato si vedrá in questi libri.

xx

[156] Se i poemi d’Omero sono storie civili degli antichi costumi greci, saranno due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.

[157] Questa degnitá ora qui si suppone: dentro sará dimostrata di fatto.

xxi

[158] I greci filosofi affrettarono il natural corso che far doveva la loro nazione, col provenirvi essendo ancor cruda la lor barbarie, onde passarono immediatamente ad una somma dilicatezza, e nello stesso tempo serbaronv’intiere le loro storie favolose cosí divine com’eroiche; ove i romani, i quali ne’ lor costumi caminarono con giusto passo, affatto perderono di veduta la loro storia degli dèi (onde l’«etá degli dèi», che gli egizi dicevano, Varrone chiama «tempo oscuro» d’essi romani), e conservarono con favella volgare la storia eroica che si stende da Romolo fino alle leggi publilia e petelia, che si truoverá una perpetua mitologia storica dell’etá degli eroi di Grecia.

[159] Questa natura di cose umane civili ci si conferma nella nazione francese, nella quale, perché di mezzo alla barbarie del mille e cento s’aprí la famosa scuola parigina, dove il celebre maestro delle sentenze Piero lombardo si diede ad insegnare di sottilissima teologia scolastica, vi restò come un poema omerico la storia di Turpino vescovo di Parigi, piena di tutte le favole degli eroi di Francia che si dissero «i paladini», delle quali s’empieron appresso tanti romanzi e poemi. E, per tal immaturo passaggio dalla barbarie alle scienze piú sottili, la francese restonne una lingua dilicatissima, talché, di tutte le viventi, sembra avere restituito a’ nostri tempi l’atticismo de’ greci e piú ch’ogni altra è buona a ragionar delle scienze,

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come la greca; e come a’ greci cosí a’ francesi restarono tanti dittonghi, che sono propi di lingua barbara, dura ancor e difficile a comporre le consonanti con le vocali. In confermazione di ciò ch’abbiamo detto di tutte e due queste lingue, aggiugniamo l’osservazione che tuttavia si può fare ne’ giovani, i quali, nell’etá nella qual è robusta la memoria, vivida la fantasia e focoso l’ingegno — ch’eserciterebbero con frutto con lo studio delle lingue e della geometria lineare, senza domare con tali esercizi cotal acerbezza di menti contratta dal corpo, che si potrebbe dire la barbarie degl’intelletti, — passando ancor crudi agli studi troppo assottigliati di critica metafisica e d’algebra, divengono per tutta la vita affilatissimi nella loro maniera di pensare e si rendono inabili ad ogni grande lavoro.

[160] Ma, col piú meditare quest’opera, ritruovammo altra cagione di tal effetto, la qual forse è piú propia: che Romolo fondò Roma in mezzo ad altre piú antiche cittá del Lazio, e fondolla con aprirvi l’asilo, che Livio diffinisce generalmente «vetus urbes condentium consilium», perché, durando ancora le violenze, egli naturalmente ordinò la romana sulla pianta sulla quale si erano fondate le prime cittá del mondo. Laonde, da tali stessi princípi progredendo i romani costumi, in tempi che le lingue volgari del Lazio avevano fatto di molti avvanzi, dovette avvenire che le cose civili romane, le qual’i popoli greci avevano spiegato con lingua eroica, essi spiegarono con lingua volgare; onde la storia romana antica si truoverá essere una perpetua mitologia della storia eroica de’ greci. E questa dev’essere la cagione per che i romani furono gli eroi del mondo: perocché Roma manomise l’altre cittá del Lazio, quindi l’Italia e per ultimo il mondo, essendo tra’ romani giovine l’eroismo; mentre tra gli altri popoli del Lazio, da’ quali, vinti, provenne tutta la romana grandezza, aveva dovuto incominciar a invecchiarsi.

xxii

[161] È necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente

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intenda la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne’ proverbi, che sono massime di sapienza volgare, l’istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elleno sono, per tanti diversi aspetti significate.

[162] Questa lingua è propia di questa Scienza. Col lume della quale se i dotti delle lingue v’attenderanno, potranno formar un vocabolario mentale comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi; di cui abbiamo dato un saggio particolare nella Scienza nuova la prima volta stampata, ove abbiamo provato i nomi de’ primi padri di famiglia, in un gran numero di lingue morte e viventi, dati loro per le diverse propietá ch’ebbero nello stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel qual tempo le nazioni si formaron le lingue. Del qual vocabolario noi, per quanto ci permette la nostra scarsa erudizione, facciamo qui uso in tutte le cose che ragioniamo.

[163] Di tutte l’anzidette proposizioni, la prima, seconda, terza e quarta ne dánno i fondamenti delle confutazioni di tutto ciò che si è finor oppinato d’intorno a’ princípi dell’umanitá, le quali si prendono dalle inverisimiglianze, assurdi, contradizioni, impossibilitá di cotali oppenioni. Le seguenti, dalla quinta fin alla decimaquinta, le quali ne dánno i fondamenti del vero, serviranno a meditare questo mondo di nazioni nella sua idea eterna, per quella propietá di ciascuna scienza, avvertita da Aristotile, che «scientia debet esse de universalibus et aeternis». L’ultime, dalla decimaquinta fin alla ventesimaseconda, le quali ne daranno i fondamenti del certo, si adopreranno a veder in fatti questo mondo di nazioni quale l’abbiamo meditato in idea, giusta il metodo di filosofare piú accertato di Francesco Bacone signor di Verulamio, dalle naturali, sulle quali esso lavorò il libro Cogitata visa, trasportato all’umane cose civili.

[164] Le proposizioni finora proposte sono generali e stabiliscono questa Scienza per tutto; le seguenti sono particolari, che la stabiliscono partitamente nelle diverse materie che tratta.

83 ―

xxiii

[165] La storia sagra è piú antica di tutte le piú antiche profane che ci son pervenute, perché narra tanto spiegatamente e per lungo tratto di piú di ottocento anni lo stato di natura sotto de’ patriarchi, o sia lo stato delle famiglie, sopra le quali tutti i politici convengono che poi sursero i popoli e le cittá; del quale stato la storia profana ce ne ha o nulla o poco e assai confusamente narrato.

[166] Questa degnitá pruova la veritá della storia sagra contro la boria delle nazioni che sopra ci ha detto Diodoro sicolo, perocché gli ebrei han conservato tanto spiegatamente le loro memorie fin dal principio del mondo.

xxiv

[167] La religion ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione, sulla quale sursero tutte le nazioni gentili.

[168] Questa degnitá è una delle principali cagioni per le quali tutto il mondo delle nazioni antiche si divise tra ebrei e genti.

xxv

[169] Il diluvio universale si dimostra non giá per le pruove filologiche di Martino Scoockio, le quali sono troppo leggieri; né per l’astrologiche di Piero cardinale d’Alliac, seguíto da Giampico della Mirandola, le quali sono troppo incerte, anzi false, rigredendo sopra le Tavole alfonsine, confutate dagli ebrei ed ora da’ cristiani, i quali, disappruovato il calcolo d’Eusebio e di Beda, sieguon oggi quello di Filone giudeo: ma si dimostra con istorie fisiche osservate dentro le favole, come nelle degnitá qui appresso si scorgerá.

84 ―

xxvi

[170] I giganti furon in natura di vasti corpi, quali in piedi dell’America, nel paese detto «de los patacones», dicono viaggiatori essersi truovati goffi e fierissimi. E, lasciate le vane o sconce o false ragioni che ne hanno arrecato i filosofi, raccolte e seguite dal Cassanione, De gigantibus, se n’arrecano le cagioni, parte fisiche e parte morali, osservate da Giulio Cesare e da Cornelio Tacito ove narrano della gigantesca statura degli antichi germani; e, da noi considerate, si compongono sulla ferina educazion de’ fanciulli.

xxvii

[171] La storia greca, dalla qual abbiamo tutto ciò ch’abbiamo (dalla romana in fuori) di tutte l’altre antichitá gentilesche, ella dal diluvio e da’ giganti prende i princípi.

[172] Queste due degnitá mettono in comparsa tutto il primo gener umano diviso in due spezie: una di giganti, altra d’uomini di giusta corporatura; quelli gentili, questi ebrei (la qual differenza non può essere nata altronde che dalla ferina educazione di quelli e dall’umana di questi); e, ’n conseguenza, che gli ebrei ebbero altra origine da quella c’hanno avuto tutti i gentili.

xxviii

[173] Ci sono pur giunti due gran rottami dell’egiziache antichitá, che si sono sopra osservati. De’ quali uno è che gli egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso loro dinanzi a tre etá, che furono: etá degli dèi, etá degli eroi ed etá degli uomini. L’altro, che per tutte queste tre etá si fussero parlate tre lingue, nell’ordine corrispondenti a dette tre etá, che furono: la lingua geroglifica ovvero sagra, la lingua simbolica o per somiglianze, qual è l’eroica, e la pistolare o sia volgare degli uomini, per segni convenuti da comunicare le volgari bisogne della lor vita.

85 ―

xxix

[174] Omero, in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi che si rapporteranno dentro, mentova una lingua piú antica della sua, che certamente fu lingua eroica, e la chiama «lingua degli dèi».

xxx

[175] Varrone ebbe la diligenza di raccogliere trentamila nomi di dèi (ché tanti pure ne noverano i greci), i quali nomi si rapportavano ad altrettante bisogne della vita o naturale o morale o iconomica o finalmente civile de’ primi tempi.

[176] Queste tre degnitá stabiliscono che ’l mondo de’ popoli dappertutto cominciò dalle religioni: che sará il primo degli tre princípi di questa Scienza.

xxxi

[177] Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non vi abbiano piú luogo l’umane leggi, l’unico potente mezzo di ridurgli è la religione.

[178] Questa degnitá stabilisce che nello stato eslege la provvedenza divina diede principio a’ fieri e violenti di condursi all’umanitá ed ordinarvi le nazioni, con risvegliar in essi un’idea confusa della divinitá, ch’essi per la loro ignoranza attribuirono a cui ella non conveniva; e cosí, con lo spavento di tal immaginata divinitá, si cominciarono a rimettere in qualche ordine.

[179] Tal principio di cose, tra i suoi «fieri e violenti», non seppe vedere Tommaso Obbes, perché ne andò a truovar i princípi errando col «caso» del suo Epicuro; onde, con quanto magnanimo sforzo, con altrettanto infelice evento, credette d’accrescere la greca filosofia di questa gran parte, della quale certamente aveva mancato (come riferisce Giorgio Paschio, De eruditis huius saeculi inventis), di considerar l’uomo in tutta la societá del gener umano. Né Obbes l’arebbe altrimente pensato, se non gliene avesse dato il motivo la cristiana religione, la quale inverso tutto il gener umano, nonché la giustizia, comanda

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la caritá. E quindi incomincia a confutarsi Polibio di quel falso suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Ché, se non fussero al mondo repubbliche, le quali non posson esser nate senza religioni, non sarebbero al mondo filosofi.

xxxii

[180] Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi dánno alle cose la loro propia natura, come il volgo, per esemplo, dice la calamita esser innamorata del ferro.

[181] Questa degnitá è una particella della prima: che la mente umana, per la sua indiffinita natura, ove si rovesci nell’ignoranza, essa fa sé regola dell’universo d’intorno a tutto quello che ignora.

xxxiii

[182] La fisica degl’ignoranti è una volgar metafisica, con la quale rendono le cagioni delle cose ch’ignorano alla volontá di Dio, senza considerare i mezzi de’ quali la volontá divina si serve.

xxxiv

[183] Vera propietá di natura umana è quella avvertita da Tacito, ove disse «mobiles ad superstitionem perculsae semel mentes»; ch’una volta che gli uomini sono sorpresi da una spaventosa superstizione, a quella richiamano tutto ciò ch’essi immaginano, vedono ed anche fanno.

xxxv

[184] La maraviglia è figliuola dell’ignoranza; e quanto l’effetto ammirato è piú grande, tanto piú a proporzione cresce la maraviglia.

xxxvi

[185] La fantasia tanto è piú robusta quanto è piú debole il raziocinio.

87 ―

xxxvii

[186] Il piú sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è propietá de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive.

[187] Questa degnitá filologico‐filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti.

xxxviii

[188] È un luogo d’oro di Lattanzio Firmiano quello ove ragiona dell’origini dell’idolatria, dicendo: «Rudes initio homines deos appellarunt sive ob miraculum virtutis (hoc vere putabant rudes adhuc et simplices); sive, ut fieri solet, in admirationem praesentis potentiae; sive ob beneficia, quibus erant ad humanitatem compositi».

xxxix

[189] La curiositá, propietá connaturale dell’uomo, figliuola dell’ignoranza, che partorisce la scienza, all’aprire che fa della nostra mente la maraviglia, porta questo costume: ch’ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio, o stella di mezzodí, subito domanda che tal cosa voglia dire o significare.

xl

[190] Le streghe, nel tempo stesso che sono ricolme di spaventose superstizioni, sono sommamente fiere ed immani; talché, se bisogna per solennizzare le loro stregonerie, esse uccidono spietatamente e fanno in brani amabilissimi innocenti bambini.

[191] Tutte queste proposizioni, dalla ventesimottava incominciando fin alla trentesimottava, ne scuoprono i princípi della poesia divina o sia della teologia poetica; dalla trentesimaprima,

88 ―
ne dánno i princípi dell’idolatria; dalla trentesimanona, i princípi della divinazione; e la quarantesima finalmente ne dá con sanguinose religioni i princípi de’ sagrifizi, che da’ primi crudi fierissimi uomini incominciarono con voti e vittime umane. Le quali, come si ha da Plauto, restarono a’ latini volgarmente dette «Saturni hostiae», e furono i sacrifizi di Moloc appresso i fenici, i quali passavano per mezzo alle fiamme i bambini consegrati a quella falsa divinitá; delle quali consagrazioni si serbarono alquante nella legge delle XII Tavole. Le quali cose, come dánno il diritto senso a quel motto:

Primos in orbe deos fecit timor

— che le false religioni non nacquero da impostura d’altrui, ma da propia credulitá; — cosí l’infelice voto e sagrifizio che fece Agamennone della pia figliuola Ifigenia, a cui empiamente Lucrezio acclama:
Tantum relligio potuit suadere malorum,

rivolgono in consiglio della provvedenza. Ché tanto vi voleva per addimesticare i figliuoli de’ polifemi e ridurgli all’umanitá degli Aristidi e de’ Socrati, de’ Leli e degli Scipioni affricani.
xli

[192] Si domanda, e la domanda è discreta, che per piú centinaia d’anni la terra, insoppata dall’umidore dell’universale diluvio, non abbia mandato esalazioni secche, o sieno materie ignite, in aria, a ingenerarvisi i fulmini.

xlii

[193] Giove fulmina ed atterra i giganti, ed ogni nazione gentile n’ebbe uno.

[194] Questa degnitá contiene la storia fisica che ci han conservato le favole: che fu il diluvio universale sopra tutta la terra.

89 ―

[195] Questa stessa degnitá, con l’antecedente postulato, ne dee determinare che dentro tal lunghissimo corso d’anni le razze empie degli tre figliuoli di Noè fussero andate in uno stato ferino, e con un ferino divagamento si fussero sparse e disperse per la gran selva della terra, e con l’educazione ferina vi fussero provenuti e ritruovati giganti nel tempo che la prima volta fulminò il cielo dopo il diluvio.

xliii

[196] Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliuolo di Giove; e Varrone, dottissimo dell’antichitá, ne giunse a noverare quaranta.

[197] Questa degnitá è ’l principio dell’eroismo de’ primi popoli, nato da una falsa oppenione: gli eroi provenir da divina origine.

[198] Questa stessa degnitá con l’antecedente, che ne dánno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli tralle nazioni gentili — oltreché ne dimostrano che non si poterono fondare senza religione né ingrandire senza virtú, essendono elle ne’ lor incominciamenti selvagge e chiuse, e perciò non sappiendo nulla l’una dell’altra, per la degnitá che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti, debbon aver un motivo comune di vero», — ne dánno di piú questo gran principio: che le prime favole dovettero contenere veritá civili, e perciò essere state le storie de’ primi popoli.

xliv

[199] I primi sappienti del mondo greco furon i poeti teologi, i quali senza dubbio fioriron innanzi agli eroici, siccome Giove fu padre d’Ercole.

[200] Questa degnitá con le due altre antecedenti stabiliscono che tutte le nazioni gentili, poiché tutte ebbero i loro Giovi, i lor Ercoli, furono ne’ loro incominciamenti poetiche; e che prima tra loro nacque la poesia divina: dopo, l’eroica.

90 ―

xlv

[201] Gli uomini sono naturalmente portati a conservar le memorie delle leggi e degli ordini che gli tengono dentro le loro societá.

xlvi

[202] Tutte le storie barbare hanno favolosi princípi.

[203] Tutte queste degnitá, dalla quarantesimaseconda, ne dánno il principio della nostra mitologia istorica.

xlvii

[204] La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi dell’uniforme.

[205] Questa degnitá, a proposito delle favole, si conferma dal costume c’ha il volgo, il quale degli uomini nell’una o nell’altra parte famosi, posti in tali o tali circostanze, per ciò che loro in tale stato conviene, ne finge acconce favole. Le quali sono veritá d’idea in conformitá del merito di coloro de’ quali il volgo le finge; e in tanto sono false talor in fatti, in quanto al merito di quelli non sia dato ciò di che essi son degni. Talché, se bene vi si rifletta, il vero poetico è un vero metafisico, a petto del quale il vero fisico, che non vi si conforma, dee tenersi a luogo di falso. Dallo che esce questa importante considerazione in ragion poetica: che ’l vero capitano di guerra, per esemplo, è ’l Goffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri capitani di guerra.

xlviii

[206] È natura de’ fanciulli che con l’idee e nomi degli uomini, femmine, cose che la prima volta hanno conosciuto, da esse

91 ―
e con essi dappoi apprendono e nominano tutti gli uomini, femmine, cose c’hanno con le prime alcuna somiglianza o rapporto.

xlix

[207] È un luogo d’oro quel di Giamblico, De mysteriis aegyptiorum, sopra arrecato, che gli egizi tutti i ritruovati utili o necessari alla vita umana richiamavano a Mercurio Trimegisto.

[208] Cotal detto, assistito dalla degnitá precedente, rovescerá a questo divino filosofo tutti i sensi di sublime teologia naturale ch’esso stesso ha dato a’ misteri degli egizi.

[209] E queste tre degnitá ne dánno il principio de’ caratteri poetici, i quali costituiscono l’essenza delle favole. E la prima dimostra la natural inchinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro. La seconda dimostra ch’i primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessitá di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti; per la qual simiglianza, le antiche favole non potevano fingersi che con decoro. Appunto come gli egizi tutti i loro ritruovati utili o necessari al gener umano, che sono particolari effetti di sapienza civile, riducevano al genere del «sappiente civile», da essi fantasticato Mercurio Trimegisto, perché non sapevano astrarre il gener intelligibile di «sappiente civile», e molto meno la forma di civile sapienza della quale furono sappienti cotal’egizi. Tanto gli egizi, nel tempo ch’arricchivan il mondo de’ ritruovati o necessari o utili al gener umano, furon essi filosofi e s’intendevano di universali, o sia di generi intelligibili!

[210] E quest’ultima degnitá, in séguito dell’antecedenti, è ’l principio delle vere allegorie poetiche, che alle favole davano significati univoci, non analogi, di diversi particolari compresi sotto i loro generi poetici. Le quali perciò si dissero «diversiloquia», cioè parlari comprendenti in un general concetto diverse spezie di uomini o fatti o cose.

92 ―

l

[211] Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all’eccesso la fantasia, ch’altro non è che memoria o dilatata o composta.

[212] Questa degnitá è ’l principio dell’evidenza dell’immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo.

li

[213] In ogni facultá uomini, i quali non vi hanno la natura, vi riescono con ostinato studio dell’arte; ma in poesia è affatto niegato di riuscire con l’arte chiunque non vi ha la natura.

[214] Questa degnitá dimostra che, poiché la poesia fondò l’umanitá gentilesca, dalla quale e non altronde dovetter uscire tutte le arti, i primi poeti furono per natura.

lii

[215] I fanciulli vagliono potentemente nell’imitare, perché osserviamo per lo piú trastullarsi in assemprare ciò che son capaci d’apprendere.

[216] Questa degnitá dimostra che ’l mondo fanciullo fu di nazioni poetiche, non essendo altro la poesia che imitazione.

[217] E questa degnitá daranne il principio di ciò: che tutte l’arti del necessario, utile, comodo e ’n buona parte anco dell’umano piacere si ritruovarono ne’ secoli poetici innanzi di venir i filosofi, perché l’arti non sono altro ch’imitazioni della natura e poesie in un certo modo reali.

liii

[218] Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.

93 ―

[219] Questa degnitá è ’l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini: onde queste piú s’appressano al vero quanto piú s’innalzano agli universali, e quelle sono piú certe quanto piú s’appropiano a’ particolari.

liv

[220] Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appartengono, naturalmente interpetrano secondo le loro nature e quindi uscite passioni e costumi.

[221] Questa degnitá è un gran canone della nostra mitologia, per lo quale le favole, truovate da’ primi uomini selvaggi e crudi tutte severe, convenevolmente alla fondazione delle nazioni che venivano dalla feroce libertá bestiale, poi, col lungo volger degli anni e cangiar de’ costumi, furon impropiate, alterate, oscurate ne’ tempi dissoluti e corrotti anco innanzi d’Omero. Perché agli uomini greci importava la religione; [onde], temendo di non avere gli dèi cosí contrari a’ loro voti come contrari eran a’ loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dèi, e diedero sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole.

lv

[222] È un aureo luogo quello d’Eusebio (dal suo particolare della sapienza degli egizi innalzato a quella di tutti gli altri gentili) ove dice: «Primam aegyptiorum theologiam mere historiam fuisse fabulis interpolatam; quarum quum postea puderet posteros, sensim coeperunt mysticos iis significatus affingere». Come fece Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, che trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, come pur sopra si è detto.

[223] Queste due degnitá sono due grandi pruove della nostra mitologia istorica, e sono insiememente due grandi turbini per confondere l’oppenioni della sapienza innarrivabile degli antichi,

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come due grandi fondamenti della veritá della religion cristiana, la quale nella sagra storia non ha ella narrazioni da vergognarsene.

lvi

[224] I primi autori tra gli orientali, egizi, greci e latini e, nella barbarie ricorsa, i primi scrittori nelle nuove lingue d’Europa si truovano essere stati poeti.

lvii

[225] I mutoli si spiegano per atti o corpi c’hanno naturali rapporti all’idee ch’essi vogliono significare.

[226] Questa degnitá è ’l principio de’ geroglifici, co’ quali si truovano aver parlato tutte le nazioni nella loro prima barbarie.

[227] Quest’istessa è ’l principio del parlar naturale, che congetturò Platone nel Cratilo, e, dopo di lui, Giamblico, De mysteriis aegyptiorum, essersi una volta parlato nel mondo. Co’ quali sono gli stoici ed Origene, Contra Celso; e, perché ’l dissero indovinando, ebbero contrari Aristotile nella Periermenia e Galeno, De decretis Hippocratis et Platonis: della qual disputa ragiona Publio Nigidio appresso Aulo Gellio. Alla qual favella naturale dovette succedere la locuzion poetica per immagini, somiglianze, comparazioni e naturali propietá.

lviii

[228] I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati pur cantando spediscono la lingua a prononziare.

lix

[229] Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati e allegri.

[230] Queste due degnitá — supposto che gli autori delle nazioni gentili eran andat’in uno stato ferino di bestie mute, e che,

95 ―
per quest’istesso balordi, non si fussero risentiti ch’a spinte di violentissime passioni — [dánno a congetturare che] dovettero formare le prime loro lingue cantando.

lx

[231] Le lingue debbon aver incominciato da voci monosillabe; come, nella presente copia di parlari articolati ne’ quali nascon ora, i fanciulli, quantunque abbiano mollissime le fibbre dell’istrumento necessario ad articolare la favella, da tali voci incominciano.

lxi

[232] Il verso eroico è lo piú antico di tutti e lo spondaico il piú tardo, e dentro si truoverá il verso eroico esser nato spondaico.

lxii

[233] Il verso giambico è ’l piú somigliante alla prosa, e ’l giambo è «piede presto», come vien diffinito da Orazio.

[234] Queste due degnitá ultime dánno a congetturare che andarono con pari passi a spedirsi e l’idee e le lingue.

[235] Tutte queste degnitá, dalla quarantesimasettima incominciando, insieme con le sopra proposte per princípi di tutte l’altre, compiono tutta la ragion poetica nelle sue parti, che sono: la favola, il costume e suo decoro, la sentenza, la locuzione e la di lei evidenza, l’allegoria, il canto e per ultimo il verso. E le sette ultime convincon altresí che fu prima il parlar in verso e poi il parlar in prosa appo tutte le nazioni.

lxiii

[236] La mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori nel corpo, e con molta difficultá per mezzo della riflessione ad intendere se medesima.

96 ―

[237] Questa degnitá ne dá l’universal principio d’etimologia in tutte le lingue, nelle qual’i vocaboli sono trasportati da’ corpi e dalle propietá de’ corpi a significare le cose della mente e dell’animo.

lxiv

[238] L’ordine dell’idee dee procedere secondo l’ordine delle cose.

lxv

[239] L’ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le cittá, finalmente l’accademie.

[240] Questa degnitá è un gran principio d’etimologia: che secondo questa serie di cose umane si debbano narrare le storie delle voci delle lingue natie, come osserviamo nella lingua latina quasi tutto il corpo delle sue voci aver origini selvagge e contadinesche. Come, per cagion d’esemplo, «lex», che dapprima dovett’essere «raccolta di ghiande», da cui crediamo detta «ilex», quasi «illex», l’elce (come certamente «aquilex» è ’l raccoglitore dell’acque), perché l’elce produce la ghianda, alla quale s’uniscon i porci. Dappoi «lex» fu «raccolta di legumi», dalla quale questi furon detti «legumina». Appresso, nel tempo che le lettere volgari non si eran ancor truovate con le quali fussero scritte le leggi, per necessitá di natura civile «lex» dovett’essere «raccolta di cittadini», o sia il pubblico parlamento; onde la presenza del popolo era la legge che solennizzava i testamenti che si facevano «calatis comitiis». Finalmente il raccoglier lettere e farne com’un fascio in ciascuna parola fu detto «legere».

lxvi

[241] Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, piú innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze.

97 ―

lxvii

[242] La natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta.

lxviii

[243] Nel gener umano prima surgono immani e goffi, qual’i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni affricani; piú a noi [vicini] gli appariscenti con grand’immagini di virtú che s’accompagnano con grandi vizi, ch’appo il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari; piú oltre i tristi riflessivi, qual’i Tiberi; finalmente i furiosi dissoluti e sfacciati, qual’i Caligoli, i Neroni, i Domiziani.

[244] Questa degnitá dimostra che i primi abbisognarono per ubbidire l’uomo all’uomo nello stato delle famiglie, e disporlo ad ubbidir alle leggi nello stato ch’aveva a venire delle cittá; i secondi, che naturalmente non cedevano a’ loro pari, per istabilire sulle famiglie le repubbliche di forma aristocratica; i terzi per aprirvi la strada alla libertá popolare; i quarti per introdurvi le monarchie; i quinti per istabilirle; i sesti per rovesciarle.

[245] E questa con l’antecedenti degnitá dánno una parte de’ princípi della storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini.

lxix

[246] I governi debbon essere conformi alla natura degli uomini governati.

[247] Questa degnitá dimostra che per natura di cose umane civili la scuola pubblica de’ principi è la morale de’ popoli.

98 ―

lxx

[248] Si conceda ciò che non ripugna in natura e qui poi truoverassi vero di fatto: che dallo stato nefario del mondo eslege si ritirarono prima alquanti pochi piú robusti, che fondarono le famiglie, con le quali e per le quali ridussero i campi a coltura; e gli altri molti lunga etá dopo se ne ritirarono, rifuggendo alle terre colte di questi padri.

lxxi

[249] I natii costumi, e sopra tutto quello della natural libertá, non si cangiano tutti ad un tratto, ma per gradi e con lungo tempo.

lxxii

[250] Posto che le nazioni tutte cominciarono da un culto di una qualche divinitá, i padri nello stato delle famiglie dovetter esser i sappienti in divinitá d’auspíci, i sacerdoti che sagrificavano per proccurargli o sia ben intendergli, e gli re che portavano le divine leggi alle loro famiglie.

lxxiii

[251] È volgar tradizione che i primi i quali governarono il mondo furono re.

lxxiv

[252] È altra volgar tradizione ch’i primi re si criavano per natura i piú degni.

lxxv

[253] È volgar tradizione ancora ch’i primi re furono sappienti, onde Platone con vano voto disiderava questi antichissimi tempi ne’ quali o i filosofi regnavano o filosofavano i re.

99 ―

[254] Tutte queste degnitá dimostrano che nelle persone de’ primi padri andarono uniti sapienza, sacerdozio e regno, e ’l regno e ’l sacerdozio erano dipendenze della sapienza, non giá riposta di filosofi, ma volgare di legislatori. E perciò, dappoi, in tutte le nazioni i sacerdoti andarono coronati.

lxxvi

[255] È volgar tradizione che la prima forma di governo al mondo fusse ella stata monarchica.

lxxvii

[256] Ma la degnitá sessantesimasettima con l’altre seguenti, e ’n particolare col corollario della sessantesimanona, ne dánno che i padri nello stato delle famiglie dovettero esercitare un imperio monarchico, solamente soggetto a Dio, cosí nelle persone come negli acquisti de’ lor figliuoli e molto piú de’ famoli che si erano rifuggiti alle loro terre, e sí che essi furono i primi monarchi del mondo, de’ quali la storia sagra hassi da intendere ove gli appella «patriarchi», cioè «padri principi». Il qual diritto monarchico fu loro serbato dalla legge delle XII Tavole per tutti i tempi della romana repubblica: «Patrifamilias ius vitae et necis in liberos esto»; di che è conseguenza: «Quicquid filius acquirit, patri acquirit».

lxxviii

[257] Le famiglie non posson essere state dette, con propietá d’origine, altronde che da questi famoli de’ padri nello stato allor di natura.

lxxix

[258] I primi soci, che propiamente sono compagni per fine di comunicare tra loro l’utilitá, non posson al mondo immaginarsi né intendersi innanzi di questi rifuggiti per aver salva la vita

100 ―
da’ primi padri anzidetti e, ricevuti per la lor vita, obbligati a sostentarla con coltivare i campi di tali padri.

[259] Tali si truovano i veri soci degli eroi, che poi furono i plebei dell’eroiche cittá, e finalmente le provincie de’ popoli principi.

lxxx

[260] Gli uomini vengono naturalmente alla ragione de’ benefizi, ove scorgano o ritenerne o ritrarne buona e gran parte d’utilitá, che son i benefizi che si possono sperare nella vita civile.

lxxxi

[261] È propietá de’ forti gli acquisti fatti con virtú non rillasciare per infingardaggine, ma, o per necessitá o per utilitá, rimetterne a poco a poco e quanto meno essi possono.

[262] Da queste due degnitá sgorgano le sorgive perenni de’ feudi, i quali con romana eleganza si dicono «beneficia».

lxxxii

[263] Tutte le nazioni antiche si truovano sparse di clienti e di clientele, che non si possono piú acconciamente intendere che per vassalli e per feudi, né da’ feudisti eruditi si truovano piú acconce voci romane per ispiegarsi che «clientes» e «clientelae».

[264] Queste tre ultime degnitá con dodici precedenti, dalla settantesima incominciando, ne scuoprono i princípi delle repubbliche, nate da una qualche grande necessitá (che dentro si determina) a’ padri di famiglia fatta da’ famoli, per la quale andarono da se stesse naturalmente a formarsi aristocratiche. Perocché i padri si unirono in ordini per resister a’ famoli ammutinati contro essoloro; e, cosí uniti, per far contenti essi famoli e ridurgli all’ubbidienza, concedettero loro una spezie di feudi rustici; ed essi si truovaron assoggettiti i loro sovrani imperi famigliari (che non si posson intendere che sulla ragione

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di feudi nobili) all’imperio sovrano civile de’ lor ordini regnanti medesimi; e i capi ordini se ne dissero «re», i quali, piú animosi, dovettero loro far capo nelle rivolte de’ famoli. Tal origine delle cittá se fusse data per ipotesi (che dentro si ritruova di fatto), ella, per la sua naturalezza e semplicitá e per l’infinito numero degli effetti civili che sopra, come a lor propia cagione, vi reggono, dee fare necessitá di esser ricevuta per vera. Perché in altra guisa non si può al mondo intendere come delle potestá famigliari si formò la potestá civile e de’ patrimoni privati il patrimonio pubblico, e come truovossi apparecchiata la materia alle repubbliche d’un ordine di pochi che vi comandi e della moltitudine de’ plebei la qual v’ubbidisca: che sono le due parti che compiono il subbietto della politica. La qual generazione degli Stati civili, con le famiglie sol di figliuoli, si dimostrerá dentro essere stata impossibile.

lxxxiii

[265] Questa legge d’intorno a’ campi si stabilisce la prima agraria del mondo; né per natura si può immaginar o intendere un’altra che possa essere piú ristretta.

[266] Questa legge agraria distinse gli tre domíni, che posson esser in natura civile, appo tre spezie di persone: il bonitario, appo i plebei; il quiritario, conservato con l’armi e, ’n conseguenza, nobile, appo i padri; e l’eminente, appo esso ordine, ch’è la Signoria, o sia la sovrana potestá, nelle repubbliche aristocratiche.

lxxxiv

[267] È un luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri politici ove, nella divisione delle repubbliche, novera i regni eroici, ne’ quali gli re in casa ministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, ed erano capi della religione.

[268] Questa degnitá cade tutta a livello ne’ due regni eroici di Teseo e di Romolo, come di quello si può osservar in Plutarco

102 ―
nella di lui Vita, e di questo sulla storia romana, con supplire la storia greca con la romana, ove Tullo Ostilio ministra la legge nell’accusa d’Orazio. E gli re romani erano ancora re delle cose sagre, detti «reges sacrorum»; onde, cacciati gli re da Roma, per la certezza delle cerimonie divine ne criavano uno che si dicesse «rex sacrorum», ch’era il capo de’ feciali o sia degli araldi.

lxxxv

[269] È pur luogo d’oro d’Aristotile ne’ medesimi libri, ove riferisce che l’antiche repubbliche non avevano leggi da punire l’offese ed ammendar i torti privati; e dice tal costume esser de’ popoli barbari, perché i popoli per ciò ne’ lor incominciamenti son barbari perché non sono addimesticati ancor con le leggi.

[270] Questa degnitá dimostra la necessitá de’ duelli e delle ripresaglie ne’ tempi barbari, perché in tali tempi mancano le leggi giudiziarie.

lxxxvi

[271] È pur aureo negli stessi libri d’Aristotile quel luogo ove dice che nell’antiche repubbliche i nobili giuravano d’esser eterni nemici della plebe.

[272] Questa degnitá ne spiega la cagione de’ superbi, avari e crudeli costumi de’ nobili sopra i plebei, ch’apertamente si leggono sulla storia romana antica. Ché, dentro essa finor sognata libertá popolare, lungo tempo angariarono i plebei di servir loro a propie spese nelle guerre, gli anniegavano in un mar d’usure, che non potendo quelli meschini poi soddisfare, gli tenevano chiusi tutta la vita nelle loro private prigioni, per pagargliele co’ lavori e fatighe, e quivi con maniera tirannica gli battevano a spalle nude con le verghe come vilissimi schiavi.

103 ―

lxxxvii

[273] Le repubbliche aristocratiche sono rattenutissime di venir alle guerre per non agguerrire la moltitudine de’ plebei.

[274] Questa degnitá è ’l principio della giustizia dell’armi romane fin alle guerre cartaginesi.

lxxxviii

[275] Le repubbliche aristocratiche conservano le ricchezze dentro l’ordine de’ nobili, perché conferiscono alla potenza di esso ordine.

[276] Questa degnitá è ’l principio della clemenza romana nelle vittorie, ché toglievano a’ vinti le sole armi e, sotto la legge di comportevol tributo, rillasciavano il dominio bonitario di tutto. Ch’è la cagione per che i padri resistettero sempre all’agrarie de’ Gracchi: perché non volevano arricchire la plebe.

lxxxix

[277] L’onore è ’l piú nobile stimolo del valor militare.

xc

[278] I popoli debbon eroicamente portarsi in guerra, se esercitano gare di onori tra lor in pace, altri per conservarglisi, altri per farsi merito di conseguirgli.

[279] Questa degnitá è un principio dell’eroismo romano dalla discacciata de’ tiranni fin alle guerre cartaginesi, dentro il qual tempo i nobili naturalmente si consagravano per la salvezza della lor patria, con la quale avevano salvi tutti gli onori civili dentro il lor ordine, e i plebei facevano delle segnalatissime imprese per appruovarsi meritevoli degli onori de’ nobili.

104 ―

xci

[280] Le gare, ch’esercitano gli ordini nelle cittá, d’uguagliarsi con giustizia sono lo piú potente mezzo d’ingrandir le repubbliche.

[281] Questo è altro principio dell’eroismo romano, assistito da tre pubbliche virtú: dalla magnanimitá della plebe di volere le ragioni civili comunicate ad essolei con le leggi de’ padri, e dalla fortezza de’ padri nel custodirle dentro il lor ordine, e dalla sapienza de’ giureconsulti nell’interpetrarle e condurne fil filo l’utilitá a’ nuovi casi che domandavano la ragione. Che sono le tre cagioni propie onde si distinse al mondo la giurisprudenza romana.

[282] Tutte queste degnitá, dalla ottantesimaquarta incominciando, espongono nel suo giusto aspetto la storia romana antica: le seguenti tre vi si adoprano in parte.

xcii

[283] I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi séguito, le promuovono; i principi, per uguagliar i potenti co’ deboli, le proteggono.

[284] Questa degnitá, per la prima e seconda parte, è la fiaccola delle contese eroiche nelle repubbliche aristocratiche, nelle qual’i nobili vogliono appo l’ordine arcane tutte le leggi, perché dipendano dal lor arbitrio e le ministrino con la mano regia. Che sono le tre cagioni ch’arreca Pomponio giureconsulto, ove narra che la plebe romana desidera la legge delle XII Tavole, con quel motto che l’erano gravi «ius latens, incertum et manus regia». Ed è la cagione della ritrosia ch’avevano i padri di dargliele, dicendo «mores patrios servandos», «leges ferri non oportere», come riferisce Dionigi d’Alicarnasso, che fu meglio informato che Tito Livio delle cose romane (perché le scrisse istrutto delle notizie di Marco Terenzio Varrone, il qual fu acclamato «il dottissimo de’ romani»), e in questa circostanza

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è per diametro opposto a Livio, che narra intorno a ciò: i nobili, per dirla con lui, «desideria plebis non aspernari». Onde, per questa ed altre maggiori contrarietá osservate ne’ Princípi del Diritto universale, essendo cotanto tra lor opposti i primi autori che scrissero di cotal favola da presso a cinquecento anni dopo, meglio sará di non credere a niun degli due. Tanto piú che ne’ medesimi tempi non la credettero né esso Varrone, il quale nella grande opera Rerum divinarum et humanarum diede origini tutte natie del Lazio a tutte le cose divine ed umane d’essi romani; né Cicerone, il qual in presenza di Quinto Muzio Scevola, principe de’ giureconsulti della sua etá, fa dire a Marco Crasso oratore che la sapienza de’ decemviri di gran lunga superava quella di Dragone e di Solone, che diedero le leggi agli ateniesi, e quella di Ligurgo, che diedele agli spartani: ch’è lo stesso che la legge delle XII Tavole non era né da Sparta né da Atene venuta in Roma. E crediamo in ciò apporci al vero: che non per altro Cicerone fece intervenire Quinto Muzio in quella sola prima giornata che — essendo al suo tempo cotal favola troppo ricevuta tra’ letterati, nata dalla boria de’ dotti di dare origini sappientissime al sapere ch’essi professano (lo che s’intende da quelle parole che ’l medesimo Crasso dice: «Fremant omnes; dicam quod sentio») — perché non potessero opporgli ch’un oratore parlasse della storia del diritto romano, che si appartiene saper da’ giureconsulti (essendo allora queste due professioni tra lor divise); [onde], se Crasso avesse d’intorno a ciò detto falso, Muzio ne l’avrebbe certamente ripreso, siccome, al riferir di Pomponio, riprese Servio Sulpizio, ch’interviene in questi stessi ragionamenti, dicendogli «turpe esse patricio viro ius, in quo versaretur, ignorare».

[285] Ma, piú che Cicerone e Varrone, ci dá Polibio un invitto argomento di non credere né a Dionigi né a Livio, il quale senza contrasto seppe piú di politica di questi due e fiorí da dugento anni piú vicino a’ decemviri che questi due. Egli (nel libro sesto, al numero quarto e molti appresso, dell'edizione di Giacomo Gronovio) a piè fermo si pone a contemplare la

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costituzione delle repubbliche libere piú famose de’ tempi suoi, ed osserva la romana esser diversa da quelle d’Atene e di Sparta e, piú che di Sparta, esserlo da quella d’Atene, dalla quale, piú che da Sparta, i pareggiatori del gius attico col romano vogliono esser venute le leggi per ordinarvi la libertá popolare giá innanzi fondata da Bruto. Ma osserva, al contrario, somiglianti tra loro la romana e la cartaginese, la quale niuno mai si è sognato essere stata ordinata libera con le leggi di Grecia; lo che è tanto vero ch’in Cartagine era espressa legge che vietava a’ cartaginesi sapere di greca lettera. Ed uno scrittore sappientissimo di repubbliche non fa sopra ciò questa cotanto naturale e cotanto ovvia riflessione, e non ne investiga la cagion della differenza: — Le repubbliche romana ed ateniese, diverse, ordinate con le medesime leggi; e le repubbliche romana e cartaginese, simili, ordinate con leggi diverse? — Laonde, per assolverlo d’un’oscitanza sí dissoluta, è necessaria cosa a dirsi che nell’etá di Polibio non era ancor nata in Roma cotesta favola delle leggi greche venute da Atene ad ordinarvi il governo libero popolare.

[286] Questa stessa degnitá, per la terza parte, apre la via agli ambiziosi nelle repubbliche popolari di portarsi alla monarchia, col secondare tal disiderio natural della plebe, che, non intendendo universali, d’ogni particolare vuol una legge. Onde Silla, capoparte di nobiltá, vinto Mario, capoparte di plebe, riordinando lo Stato popolare con governo aristocratico, rimediò alla moltitudine delle leggi con le Quistioni perpetue.

[287] E questa degnitá medesima per l’ultima parte è la ragione arcana perché, da Augusto incominciando, i romani principi fecero innumerabili leggi di ragion privata, e perché i sovrani e le potenze d’Europa dappertutto, ne’ loro Stati reali e nelle repubbliche libere, ricevettero il Corpo del diritto civile romano e quello del diritto canonico.

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xciii

[288] Poiché la porta degli onori nelle repubbliche popolari tutta si è con le leggi aperta alla moltitudine avara che vi comanda, non resta altro in pace che contendervi di potenza non giá con le leggi ma con le armi, e per la potenza comandare leggi per arricchire, quali in Roma furon l’agrarie de’ Gracchi; onde provengono nello stesso tempo guerre civili in casa ed ingiuste fuori.

[289] Questa degnitá, per lo suo opposto, conferma per tutto il tempo innanzi de’ Gracchi il romano eroismo.

xciv

[290] La natural libertá è piú feroce quanto i beni piú a’ propi corpi son attaccati, e la civil servitú s’inceppa co’ beni di fortuna non necessari alla vita.

[291] Questa degnitá, per la prima parte, è altro principio del natural eroismo de’ primi popoli; per la seconda, ella è ’l principio naturale delle monarchie.

xcv

[292] Gli uomini prima amano d’uscir di suggezione e disiderano ugualitá: ecco le plebi nelle repubbliche aristocratiche, le quali finalmente cangiano in popolari. Dipoi si sforzano superare gli uguali: ecco le plebi nelle repubbliche popolari, corrotte in repubbliche di potenti. Finalmente vogliono mettersi sotto le leggi: ecco l’anarchie, o repubbliche popolari sfrenate, delle quali non si dá piggiore tirannide, dove tanti son i tiranni quanti sono gli audaci e dissoluti delle cittá. E quivi le plebi, fatte accorte da’ propi mali, per truovarvi rimedio vanno a salvarsi sotto le monarchie; ch’è la legge regia naturale con la quale Tacito legittima la monarchia romana sotto di Augusto, «qui cuncta, bellis civilibus fessa, nomine ‘principis’ sub imperium accepit».

108 ―

xcvi

[293] Dalla natia libertá eslege i nobili, quando sulle famiglie si composero le prime cittá, furono [fatti] ritrosi ed a freno ed a peso: ecco le repubbliche aristocratiche nelle qual’i nobili son i signori. Dappoi, dalle plebi, cresciute in gran numero ed agguerrite, indutti a sofferire e leggi e pesi egualmente coi lor plebei: ecco i nobili nelle repubbliche popolari. Finalmente, per aver salva la vita comoda, naturalmente inchinati alla suggezione d’un solo: ecco i nobili sotto le monarchie.

[294] Queste due degnitá con l’altre innanzi, dalla sessantesimasesta incominciando, sono i princípi della storia ideal eterna la quale si è sopra detta.

xcvii

[295] Si conceda ciò che ragion non offende, col dimandarsi che dopo il diluvio gli uomini prima abitarono sopra i monti, alquanto tempo appresso calarono alle pianure, dopo lunga etá finalmente si assicurarono di condursi a’ lidi del mare.

xcviii

[296] Appresso Strabone è un luogo d’oro di Platone, che dice, dopo i particolari diluvi ogigio e deucalionio, aver gli uomini abitato nelle grotte sui monti, e gli riconosce ne’ polifemi, ne’ quali altrove rincontra i primi padri di famiglia del mondo; dipoi, sulle falde, e gli avvisa in Dardano che fabbricò Pergamo, che divenne poi la ròcca di Troia; finalmente, nelle pianure, e gli scorge in Ilo, dal quale Troia fu portata nel piano vicino al mare e fu detta Ilio.

xcix

[297] È pur antica tradizione che Tiro prima fu fondata entro terra, e dipoi portata nel lido del mar fenicio; com’è certa

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istoria indi essere stata tragittata in un’isola ivi da presso, quindi da Alessandro magno riattaccata al suo continente.

[298] L’antecedente postulato e le due degnitá che gli vanno appresso ne scuoprono che prima si fondarono le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E ne dánno un grand’argomento che dimostra l’antichitá del popolo ebreo, che da Noè si fondò nella Mesopotamia, ch’è la terra piú mediterranea del primo mondo abitabile, e sí fu l’antichissima di tutte le nazioni. Lo che vien confermato perché ivi fondossi la prima monarchia, che fu quella degli assiri, sopra la gente caldea, dalla qual eran usciti i primi sappienti del mondo, de’ quali fu principe Zoroaste.

c

[299] Gli uomini non s’inducono ad abbandonar affatto le propie terre, che sono naturalmente care a’ natii, che per ultime necessitá della vita; o a lasciarle a tempo che o per l’ingordigia d’arricchire co’ traffichi, o per gelosia di conservare gli acquisti.

[300] Questa degnitá è ’l principio delle trasmigrazioni de’ popoli, fatta con le colonie eroiche marittime, con le innondazioni de’ barbari (delle quali sole scrisse Wolfango Lazio), con le colonie romane ultime conosciute e con le colonie degli europei nell’Indie.

[301] E questa stessa degnitá ci dimostra che le razze perdute degli tre figliuoli di Noè dovettero andar in un error bestiale, perché, col fuggire le fiere (delle quali la gran selva della terra doveva pur troppo abbondare) e coll’inseguire le schive e ritrose donne (ch’in tale stato selvaggio dovevan essere sommamente ritrose e schive), e poi per cercare pascolo ed acqua, si ritruovassero dispersi per tutta la terra nel tempo che fulminò la prima volta il cielo dopo il diluvio. Onde ogni nazione gentile cominciò da un suo Giove. Perché, se avessero durato nell’umanitá come il popolo di Dio vi durò, si sarebbero, come quello, ristati nell’Asia, che, tra per la vastitá di quella gran

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parte del mondo e per la scarsezza allora degli uomini, non avevano niuna necessaria cagione d’abbandonare, quando non è natural costume ch’i paesi natii s’abbandonino per capriccio.

ci

[302] I fenici furono i primi navigatori del mondo antico.

cii

[303] Le nazioni nella loro barbarie sono impenetrabili, che o si debbono irrompere da fuori con le guerre, o da dentro spontaneamente aprire agli stranieri per l’utilitá de’ commerzi. Come Psammetico aprí l’Egitto a’ greci dell’Ionia e della Caria, i quali, dopo i fenici, dovetter essere celebri nella negoziazione marittima; onde, per le grandi ricchezze, nell’Ionia si fondò il templo di Giunone samia e nella Caria si alzò il mausoleo d’Artemisia, che furono due delle sette maraviglie del mondo. La gloria della qual negoziazione restò a quelli di Rodi, nella bocca del cui porto ergerono il gran colosso del Sole, ch’entrò nel numero delle maraviglie suddette. Cosí il Chinese, per l’utilitá de’ commerzi, ha ultimamente aperto la China a’ nostri europei.

[304] Queste tre degnitá ne dánno il principio d’un altro etimologico delle voci d’origine certa straniera, diverso da quello sopra detto delle voci natie. Ne può altresí dare la storia di nazioni dopo altre nazioni portatesi con colonie in terre straniere. Come Napoli si disse dapprima Sirena con voce siriaca — ch’è argomento che i siri, ovvero fenici, vi avessero menato prima di tutti una colonia per cagione di traffichi; — dopo si disse Partenope con voce eroica greca, e finalmente con lingua greca volgare si disse Napoli — che sono pruove che vi fussero appresso passati i greci per aprirvi societá di negozi. — Ove dovette provenire una lingua mescolata di fenicia e di greca, della quale, piú che della greca pura, si dice Tiberio imperadore essersi dilettato. Appunto come ne’ lidi di

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Taranto vi fu una colonia siriaca detta Siri, i cui abitatori erano chiamati «siriti», e poi da’ greci fu detta Polieo, e ne fu appellata Minerva «poliade», che ivi aveva un suo templo.

[305] Questa degnitá altresí dá i princípi di scienza all’argomento di che scrisse il Giambullari: che la lingua toscana sia d’origine siriaca. La quale non poté provenire che dagli piú antichi fenici, che furono i primi navigatori del mondo antico, come poco sopra n’abbiamo proposto una degnitá; perché, appresso, tal gloria fu de’ greci della Caria e dell’Ionia, e restò per ultimo a’ rodiani.

ciii

[306] Si domanda ciò ch’è necessario concedersi: che nel lido del Lazio fusse stata menata alcuna greca colonia, che poi, da’ romani vinta e distrutta, fusse restata seppellita nelle tenebre dell’antichitá.

[307] Se ciò non si concede, chiunque riflette e combina sopra l’antichitá, è sbalordito dalla storia romana ove narra Ercole, Evandro, arcadi, frigi dentro del Lazio, Servio Tullio greco, Tarquinio Prisco figliuolo di Demarato corintio, Enea fondatore della gente romana. Certamente le lettere latine Tacito osserva somiglianti all’antiche greche, quando a’ tempi di Servio Tullio, per giudizio di Livio, non poterono i romani nemmeno udire il famoso nome di Pittagora, ch’insegnava nella sua celebratissima scuola in Cotrone, e non incominciaron a conoscersi co’ greci d’Italia che con l’occasione della guerra di Taranto, che portò appresso quella di Pirro co’ greci oltramare.

civ

[308] È un detto degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la consuetudine è simile al re e la legge al tiranno; che deesi intendere della consuetudine ragionevole e della legge non animata da ragion naturale.

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[309] Questa degnitá dagli effetti diffinisce altresí la gran disputa; «se vi sia diritto in natura o sia egli nell’oppenione degli uomini», la qual è la stessa che la proposta nel corollario dell’ottava: «se la natura umana sia socievole». Perché, il diritto natural delle genti essendo stato ordinato dalla consuetudine (la qual Dione dice comandare da re con piacere), non ordinato con legge (che Dion dice comandare da tiranno con forza), perocché egli è nato con essi costumi umani usciti dalla natura comune delle nazioni (ch’è ’l subbietto adeguato di questa Scienza), e tal diritto conserva l’umana societá; né essendovi cosa piú naturale (perché non vi è cosa che piaccia piú) che celebrare i naturali costumi: per tutto ciò la natura umana, dalla quale sono usciti tali costumi, ella è socievole.

[310] Questa stessa degnitá, con l’ottava e ’l di lei corollario, dimostra che l’uomo non è ingiusto per natura assolutamente, ma per natura caduta e debole. E ’n conseguenza dimostra il primo principio della cristiana religione, ch’è Adamo intiero, qual dovette nell’idea ottima essere stato criato da Dio. E quindi dimostra i catolici princípi della grazia: ch’ella operi nell’uomo, ch’abbia la privazione, non la niegazione delle buon’opere, e sí ne abbia una potenza inefficace, e perciò sia efficace la grazia; che perciò non può stare senza il principio dell’arbitrio libero, il quale naturalmente è da Dio aiutato con la di lui provvedenza (come si è detto sopra, nel secondo corollario della medesima ottava), sulla quale la cristiana conviene con tutte l’altre religioni. Ch’era quello sopra di che Grozio, Seldeno, Pufendorfio dovevano, innanzi ogni altra cosa, fondar i loro sistemi e convenire coi romani giureconsulti, che diffiniscono «il diritto natural delle genti essere stato dalla divina provvedenza ordinato».

cv

[311] Il diritto natural delle genti è uscito coi costumi delle nazioni, tra loro conformi in un senso comune umano, senza alcuna riflessione e senza prender esemplo l’una dall’altra.

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[312] Questa degnitá, col detto di Dione riferito nell’antecedente, stabilisce la provvedenza essere l’ordinatrice del diritto natural delle genti, perch’ella è la regina delle faccende degli uomini.

[313] Questa stessa stabilisce la differenza del diritto natural degli ebrei, del diritto natural delle genti e diritto natural de’ filosofi. Perché le genti n’ebbero i soli ordinari aiuti dalla provvedenza; gli ebrei n’ebbero anco aiuti estraordinari dal vero Dio, per lo che tutto il mondo delle nazioni era da essi diviso tra ebrei e genti; e i filosofi il ragionano piú perfetto di quello che ’l costuman le genti, i quali non vennero che da un duemila anni dopo essersi fondate le genti. Per tutte le quali tre differenze non osservate, debbon cadere gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio.

cvi

[314] Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che trattano.

[315] Questa degnitá, allogata qui per la particolar materia del diritto natural delle genti, ella è universalmente usata in tutte le materie che qui si trattano. Ond’era da proporsi tralle degnitá generali; ma si è posta qui, perché in questa piú che in ogni altra particolar materia fa vedere la sua veritá e l’importanza di farne uso.

cvii

[316] Le genti cominciarono prima delle cittá, e sono quelle che da’ latini si dissero «gentes maiores», o sia case nobili antiche, come quelle de’ padri de’ quali Romolo compose il senato e, col senato, la romana cittá. Come, al contrario, si dissero «gentes minores» le case nobili nuove fondate dopo le cittá, come furono quelle de’ padri de’ quali Giunio Bruto, cacciati gli re, riempiè il senato, quasi esausto per le morti de’ senatori fatti morire da Tarquinio Superbo.

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cviii

[317] Tale fu la divisione degli dèi: tra quelli delle genti maggiori, ovvero dèi consagrati dalle famiglie innanzi delle cittá, — i quali appo i greci e latini certamente (e qui pruoverassi appo i primi assiri ovvero caldei, fenici, egizi) furono dodici (il qual novero fu tanto famoso tra i greci che l’intendevano con la sola parola δώδεκα), e vanno confusamente raccolti in un distico latino riferito ne’ Princípi del Diritto universale; i quali però qui, nel libro secondo, con una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi naturalmente fatta nelle menti de’ greci, usciranno cosí ordinati: Giove, Giunone; Diana, Apollo; Vulcano, Saturno, Vesta; Marte, Venere; Minerva, Mercurio; Nettunno; — e gli dèi delle genti minori, ovvero dèi consagrati appresso dai popoli, come Romolo, il qual, morto, il popolo romano appellò Dio Quirino.

[318] Per queste tre degnitá, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio mancano ne’ loro princípi, ch’incominciano dalle nazioni guardate tra loro nella societá di tutto il gener umano, il quale, appo tutte le prime nazioni, come sará qui dimostrato, cominciò dal tempo delle famiglie, sotto gli dèi delle genti dette «maggiori».

cix

[319] Gli uomini di corte idee stimano diritto quanto si è spiegato con le parole.

cx

[320] È aurea la diffinizione ch’Ulpiano assegna dell’equitá civile: ch’ella è «probabilis quaedam ratio, non omnibus hominibus naturaliter cognita (com’è l’equitá naturale), sed paucis tantum, qui, prudentia, usu, doctrina praediti, didicerunt quae ad societatis humanae conservationem sunt necessaria». La quale in bell’italiano si chiama «ragion di Stato».

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cxi

[321] Il certo delle leggi è un’oscurezza della ragione unicamente sostenuta dall’autoritá, che le ci fa sperimentare dure nel praticarle, e siamo necessitati praticarle per lo di lor «certo», che in buon latino significa «particolarizzato» o, come le scuole dicono, «individuato»; nel qual senso «certum» e «commune», con troppa latina eleganza, son opposti tra loro.

[322] Questa degnitá, con le due seguenti diffinizioni, costituiscono il principio della ragion stretta, della qual è regola l’equitá civile, al cui certo, o sia alla determinata particolaritá delle cui parole, i barbari, d’idee particolari, naturalmente s’acquetano, e tale stimano il diritto che lor si debba. Onde ciò che in tali casi Ulpiano dice: «lex dura est, sed scripta est», tu diresti, con piú bellezza latina e con maggior eleganza legale: «lex dura est, sed certa est>».

cxii

[323] Gli uomini intelligenti stimano diritto tutto ciò che detta essa uguale utilitá delle cause.

cxiii

[324] Il vero delle leggi è un certo lume e splendore di che ne illumina la ragion naturale; onde spesso i giureconsulti usan dire «verum est» per «aequum est».

[325] Questa diffinizione come la centoundecima sono proposizioni particolari per far le pruove nella particolar materia del diritto natural delle genti, uscite dalle due generali, nona e decima, che trattano del vero e del certo generalmente, per far le conchiusioni in tutte le materie che qui si trattano.

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cxiv

[326] L’equitá naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell’utilitá, poiché «sapienza», nell’ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura.

[327] Questa degnitá con l’altre due seguenti diffinizioni costituiscono il principio della ragion benigna, regolata dall’equitá naturale, la qual è connaturale alle nazioni ingentilite; dalla quale scuola pubblica si dimostrerá esser usciti i filosofi.

[328] Tutte queste sei ultime proposizioni fermano che la provvedenza fu l’ordinatrice del diritto natural delle genti, la qual permise che, poiché per lunga scorsa di secoli le nazioni avevano a vivere incapaci del vero e dell’equitá naturale (la quale piú rischiararono, appresso, i filosofi), esse si attenessero al certo ed all’equitá civile, che scrupolosamente custodisce le parole degli ordini e delle leggi, e da queste fussero portate ad osservarle generalmente anco ne’ casi che riuscissero dure, perché si serbassero le nazioni.

[329] E queste istesse sei proposizioni, sconosciute dagli tre principi della dottrina del diritto natural delle genti, fecero ch’essi, tutti e tre, errassero di concerto nello stabilirne i loro sistemi; perc’han creduto che l’equitá naturale nella sua idea ottima fusse stata intesa dalle nazioni gentili fin da’ loro primi incominciamenti, senza riflettere che vi volle da un duemila anni perché in alcuna fussero provenuti i filosofi, e senza privilegiarvi un popolo con particolaritá assistito dal vero Dio.

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[SEZIONE TERZA] De’ princípi

[330] Ora, per fare sperienza se le proposizioni noverate finora per elementi di questa Scienza debbano dare la forma alle materie apparecchiate nel principio sulla Tavola cronologica, preghiamo il leggitore che rifletta a quanto si è scritto d’intorno a’ princípi di qualunque materia di tutto lo scibile divino ed umano della gentilitá, e combini se egli faccia sconcezza con esse proposizioni, o tutte o piú o una; perché tanto si è con una quanto sarebbe con tutte, perché ogniuna di quelle fa acconcezza con tutte. Ché certamente egli, faccendo cotal confronto, s’accorgerá che sono tutti luoghi di confusa memoria, tutte immagini di mal regolata fantasia, e niun essere parto d’intendimento, il qual è stato trattenuto ozioso dalle due borie che nelle Degnitá noverammo. Laonde, perché la boria delle nazioni, d’essere stata ogniuna la prima del mondo, ci disanima di ritruovare i princípi di questa Scienza da’ filologi; altronde la boria de’ dotti, i quali vogliono ciò ch’essi sanno essere stato eminentemente inteso fin dal principio del mondo, ci dispera di ritruovargli da’ filosofi. Quindi, per questa ricerca, si dee far conto come se non vi fussero libri nel mondo.

[331] Ma, in tal densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichitá, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa veritá, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princípi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana.

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Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto da quella miseria, la qual avvertimmo nelle Degnitá, della mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima, come l’occhio corporale che vede tutti gli obbietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso.

[332] Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuitá convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princípi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte [le nazioni] sursero e tutte vi si conservano in nazioni.

[333] Osserviamo tutte le nazioni cosí barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con piú ricercate cerimonie e piú consegrate solennitá che religioni, matrimoni e sepolture. Ché, per la degnitá che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero», dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanitá, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi princípi di questa Scienza.

[334] Né ci accusino di falso il primo i moderni viaggiatori, i quali narrano che popoli del Brasile, di Cafra ed altre nazioni

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del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo crede lo stesso degli abitatori dell’isole chiamate Antille) vivano in societá senza alcuna cognizione di Dio; da’ quali forse persuaso, Bayle afferma nel Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia; che tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s’acclama: che, se fussero al mondo filosofi, che ’n forza della ragione non delle leggi vivessero con giustizia, al mondo non farebber uopo religioni. Queste sono novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a’ loro libri con mostruosi ragguagli. Certamente Andrea Rudigero nella sua Fisica magnificamente intitolata divina, che vuole che sia l’unica via di mezzo tra l’ateismo e la superstizione, egli da’ censori dell’universitá di Genevra (nella qual repubblica, come libera popolare, dee essere alquanto piú di libertá nello scrivere) è di tal sentimento gravemente notato che «’l dica con troppo di sicurezza», ch’è lo stesso dire che con non poco d’audacia. Perché tutte le nazioni credono in una divinitá provvedente, onde quattro e non piú si hanno potuto truovare religioni primarie per tutta la scorsa de’ tempi e per tutta l’ampiezza di questo mondo civile: una degli ebrei, e quindi altra de’ cristiani, che credono nella divinitá d’una mente infinita libera; la terza de’ gentili, che la credono di piú dèi, immaginati composti di corpo e di mente libera, onde, quando vogliono significare la divinitá che regge e conserva il mondo, dicono «deos immortales»; la quarta ed ultima de’ maomettani, che la credono d’un dio infinita mente libera in un infinito corpo, perché aspettano piaceri de’ sensi per premi nell’altra vita.

[335] Niuna credette in un dio tutto corpo o pure in un dio tutto mente la quale non fusse libera. Quindi né gli epicurei, che non dánno altro che corpo e, col corpo, il caso, né gli stoici, che dánno Dio in infinito corpo infinita mente soggetta al fato (che sarebbero per tal parte gli spinosisti), poterono ragionare di repubblica né di leggi, e Benedetto Spinosa parla di repubblica come d’una societá che fusse di mercadanti. Per lo che aveva la ragion Cicerone, il qual ad Attico, perch’egli era epicureo, diceva non poter esso con lui ragionar delle leggi, se

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quello non gli avesse conceduto che vi sia provvedenza divina. Tanto le due sètte stoica ed epicurea sono comportevoli con la romana giurisprudenza, la quale pone la provvedenza divina per principal suo principio!

[336] L’oppenione poi ch’i concubiti, certi di fatto, d’uomini liberi con femmine libere senza solennitá di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, ella da tutte le nazioni del mondo è ripresa di falso con essi costumi umani, co’ quali tutte religiosamente celebrano i matrimoni e con essi diffiniscono che, ’n grado benché rimesso, sia tal peccato di bestia. Perciocché, quanto è per tali genitori, non tenendogli congionti niun vincolo necessario di legge, essi vanno a disperdere i loro figliuoli naturali, i quali, potendosi i loro genitori ad ogni ora dividere, eglino, abbandonati da entrambi, deono giacer esposti per esser divorati da’ cani; e, se l’umanitá o pubblica o privata non gli allevasse, dovrebbero crescere senza avere chi insegnasse loro religione, né lingua, né altro umano costume. Onde, quanto è per essi, di questo mondo di nazioni, di tante belle arti dell’umanitá arricchito ed adorno, vanno a fare la grande antichissima selva per entro a cui divagavano con nefario ferino errore le brutte fiere d’Orfeo, delle qual’i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole usavano la venere bestiale. Ch’è l’infame nefas del mondo eslege, che Socrate con ragioni fisiche poco propie voleva pruovare esser vietato dalla natura, essendo egli vietato dalla natura umana, perché tali concubiti appo tutte le nazioni sono naturalmente abborriti, né da talune furono praticati che nell’ultima loro corrozione, come da’ persiani.

[337] Finalmente, quanto gran principio dell’umanitá sieno le seppolture, s’immagini uno stato ferino nel quale restino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esser ésca de’ corvi e cani; ché certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d’esser incolti i campi nonché disabitate le cittá, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, còlte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde a gran ragione le seppolture con quella espressione sublime «foedera generis humani» ci furono diffinite e, con minor

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grandezza, «humanitatis commercia» ci furono descritte da Tacito. Oltrecché, questo è un placito nel quale certamente son convenute tutte le nazioni gentili: che l’anime restassero sopra la terra inquiete ed andassero errando intorno a’ loro corpi inseppolti, e ’n conseguenza che non muoiano co’ loro corpi, ma che sieno immortali. E che tale consentimento fusse ancora stato dell’antiche barbare, ce ne convincono i popoli di Guinea, come attesta Ugone Linschotano; di quei del Perú e del Messico, Acosta, De indicis; degli abitatori della Virginia, Tommaso Aviot; di quelli della Nuova Inghilterra, Riccardo Waitbornio; di quelli del regno di Sciam, Giuseffo Scultenio. Laonde Seneca conchiude: «Quum de immortalitate loquimur, non leve momentum apud nos habet consensus hominum aut timentium inferos aut colentium: hac persuasione publica utor».
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[SEZIONE QUARTA]
Del metodo

[338] Per lo intiero stabilimento de’ princípi, i quali si sono presi di questa Scienza, ci rimane in questo primo libro di ragionare del metodo che debbe ella usare. Perché, dovendo ella cominciare donde ne incominciò la materia, siccome si è proposto nelle Degnitá; e sí avendo noi a ripeterla, per gli filologi, dalle pietre di Deucalione e Pirra, da’ sassi d’Anfione, dagli uomini nati o da’ solchi di Cadmo o dalla dura rovere di Virgilio e, per gli filosofi, dalle ranocchie d’Epicuro, dalle cicale di Obbes, da’ semplicioni di Grozio, da’ gittati in questo mondo senza niuna cura o aiuto di Dio di Pufendorfio, goffi e fieri quanto i giganti detti «los patacones», che dicono ritruovarsi presso lo stretto di Magaglianes, cioè da’ polifemi d’Omero, ne’ quali Platone riconosce i primi padri nello stato delle famiglie (questa scienza ci han dato de’ princípi dell’umanitá cosí i filologi come i filosofi!); — e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente pensare; — e, nella loro immane fierezza e sfrenata libertá bestiale, non essendovi altro mezzo, per addimesticar quella ed infrenar questa, ch’uno spaventoso pensiero d’una qualche divinitá, il cui timore, come si è detto nelle Degnitá, è ’l solo potente mezzo di ridurre in ufizio una libertá inferocita: — per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilitá, incontrammo l’aspre difficultá che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e [dovemmo] discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere

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ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d’intendere.

[339] Per tutto ciò dobbiamo cominciare da una qualche cognizione di Dio, della quale non sieno privi gli uomini, quantunque selvaggi, fieri ed immani. Tal cognizione dimostriamo esser questa: che l’uomo, caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, disidera una cosa superiore che lo salvasse. Ma cosa superiore alla natura è Iddio, e questo è il lume ch’Iddio ha sparso sopra tutti gli uomini. Ciò si conferma con questo comune costume umano: che gli uomini libertini, invecchiando, perché si sentono mancare le forze naturali, divengono naturalmente religiosi.

[340] Ma tali primi uomini, che furono poi i principi delle nazioni gentili, dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch’è il pensare da bestie. Quindi dobbiamo andare da una volgare metafisica (la quale si è avvisata nelle Degnitá, e truoveremo che fu la teologia de’ poeti), e da quella ripetere il pensiero spaventoso d’una qualche divinitá, ch’alle passioni bestiali di tal’uomini perduti pose modo e misura e le rendé passioni umane. Da cotal pensiero dovette nascere il conato, il qual è propio dell’umana volontá, di tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo, per o affatto acquetargli, ch’è dell’uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad usi migliori, ch’è dell’uomo civile. Questo infrenar il moto de’ corpi certamente egli è un effetto della libertá dell’umano arbitrio, e sí della libera volontá, la qual è domicilio e stanza di tutte le virtú, e, tralle altre, della giustizia, da cui informata, la volontá è ’l subbietto di tutto il giusto e di tutti i diritti che sono dettati dal giusto. Perché dar conato a’ corpi tanto è quanto dar loro libertá di regolar i lor moti, quando i corpi tutti sono agenti necessari in natura; e que’ ch’i meccanici dicono «potenze», «forze», «conati» sono moti insensibili d’essi corpi, co’ quali essi o s’appressano, come volle la meccanica antica, a’ loro centri di gravitá, o s’allontanano, come vuole la meccanica nuova, da’ loro centri del moto.

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[341] Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, sono tiranneggiati dall’amor propio, per lo quale non sieguono principalmente che la propia utilitá; onde eglino, volendo tutto l’utile per sé e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l’uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle cittá; distesi gl’imperi sopra piú popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l’uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l’utilitá propia. Adunque, non da altri che dalla provvedenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l’umana societá; per gli quali ordini, non potendo l’uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell’utilitá: ch’è quel che dicesi «giusto». Onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per conservare l’umana societá.

[342] Perciò questa Scienza, per uno de’ suoi principali aspetti, dev’essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina, la quale sembra aver mancato finora. Perché i filosofi o l’hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de’ quali questi dicono che un concorso cieco d’atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d’effetti strascina le faccende degli uomini; o l’hanno considerata solamente sull’ordine delle naturali cose, onde «teologia naturale» essi chiamano la metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e ’l confermano con l’ordine fisico che si osserva ne’ moti de’ corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion finale sopra l’altre naturali cose minori osservata. E pure sull’iconomia delle cose civili essi ne dovevano ragionare con tutta la propietá della voce, con la quale la provvedenza fu appellata «divinitá» da «divinari», «indovinare», ovvero

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intendere o ’l nascosto agli uomini, ch’è l’avvenire, o ’l nascosto degli uomini, ch’è la coscienza; ed è quella che propiamente occupa la prima e principal parte del subbietto della giurisprudenza, che son le cose divine, dalle quali dipende l’altra che ’l compie, che sono le cose umane. Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per cosí dire, di fatto istorico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran cittá del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch’ella v’ha posto sono universali ed eterni.

[343] Per tutto ciò, entro la contemplazione di essa provvedenza infinita ed eterna questa Scienza ritruova certe divine pruove, con le quali si conferma e dimostra. Imperciocché la provvedenza divina, avendo per sua ministra l’onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi umani; perc’ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi dispone debbe essere tutto ordine; perch’ha per suo fine la sua stessa immensa bontá, quanto vi ordina debb’esser indiritto a un bene sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini.

[344] Per tutto ciò, nella deplorata oscuritá de’ princípi e nell’innumerabile varietá de’ costumi delle nazioni, sopra un argomento divino che contiene tutte le cose umane, qui pruove non si possono piú sublimi disiderare che queste istesse che ci daranno la naturalezza, l’ordine e ’l fine, ch’è essa conservazione del gener umano. Le quali pruove vi riusciranno luminose e distinte, ove rifletteremo con quanta facilitá le cose nascono ed a quali occasioni, che spesso da lontanissime parti, e talvolta tutte contrarie ai proponimenti degli uomini, vengono e vi si adagiano da se stesse; e tali pruove ne somministra l’onnipotenza. Combinarle e vederne l’ordine, a quali tempi e luoghi loro propi nascono le cose ora, che vi debbono nascer ora, e l’altre si differiscono nascer ne’ tempi e ne’ luoghi loro, nello che, all’avviso d’Orazio, consiste tutta la bellezza dell’ordine;

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e tali pruove ci apparecchia l’eterna sapienza. E finalmente considerare se siam capaci d’intendere se, a quelle occasioni, luoghi e tempi, potevano nascere altri benefíci divini, co’ quali, in tali o tali bisogni o malori degli uomini, si poteva condurre meglio a bene e conservare l’umana societá; e tali pruove ne dará l’eterna bontá di Dio.

[345] Onde la propia continua pruova che qui farassi sará il combinar e riflettere se la nostra mente umana, nella serie de’ possibili la quale ci è permesso d’intendere, e per quanto ce n’è permesso, possa pensare o piú o meno o altre cagioni di quelle ond’escono gli effetti di questo mondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverá un divin piacere, in questo corpo mortale, di contemplare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa de’ loro luoghi, tempi e varietá; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei che ’l loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni parte l’uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la qual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall’onnipotente, saggia e benigna volontá dell’Ottimo Massimo Dio.

[346] Queste sublimi pruove teologiche naturali ci saran confermate con le seguenti spezie di pruove logiche: che, nel ragionare dell’origini delle cose divine ed umane della gentilitá, se ne giugne a que’ primi oltre i quali è stolta curiositá di domandar altri primi, ch’è la propia caratteristica de’ princípi; se ne spiegano le particolari guise del loro nascimento, che si appella «natura», ch’è la nota propissima della scienza; e finalmente si confermano con l’eterne propietá che conservano, le quali non posson altronde esser nate che da tali e non altri nascimenti, in tali tempi, luoghi e con tali guise, o sia da tali nature, come se ne sono proposte sopra due degnitá.

[347] Per andar a truovare tali nature di cose umane procede questa Scienza con una severa analisi de’ pensieri umani d’intorno all’umane necessitá o utilitá della vita socievole, che sono i due fonti perenni del diritto natural delle genti, come pure nelle Degnitá si è avvisato. Onde, per quest’altro principale suo aspetto, questa Scienza è una storia dell’umane idee,

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sulla quale sembra dover procedere la metafisica della mente umana; la qual regina delle scienze, per la degnitá che «le scienze debbono incominciare da che n’incominciò la materia», cominciò d’allora ch’i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non giá da quando i filosofi cominciaron a riflettere sopra l’umane idee (come ultimamente n’è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all’ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa etá, il Leibnizio e ’l Newtone).

[348] E per determinar i tempi e i luoghi a sí fatta istoria, cioè quando e dove essi umani pensieri nacquero, e sí accertarla con due sue propie cronologia e geografia, per dir cosí, metafisiche, questa Scienza usa un’arte critica, pur metafisica, sopra gli autori d’esse medesime nazioni, tralle quali debbono correre assai piú di mille anni per potervi provenir gli scrittori, sopra i quali la critica filologica si è finor occupata. E ’l criterio di che si serve, per una degnitá sovraposta, è quello, insegnato dalla provvedenza divina, comune a tutte le nazioni; ch’è ’l senso comune d’esso gener umano, determinato dalla necessaria convenevolezza delle medesime umane cose, che fa tutta la bellezza di questo mondo civile. Quindi regna in questa Scienza questa spezie di pruove: che tali dovettero, debbono e dovranno andare le cose delle nazioni quali da questa Scienza son ragionate, posti tali ordini dalla provvedenza divina, fusse anco che dall’eternitá nascessero di tempo in tempo mondi infiniti; lo che certamente è falso di fatto.

[349] Onde questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna, sopra la quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Anzi ci avvanziamo ad affermare ch’in tanto chi medita questa Scienza egli narri a se stesso questa storia ideal eterna, in quanto — essendo questo mondo di nazioni stato certamente fatto dagli uomini (ch’è ’l primo principio indubitato che se n’è posto qui sopra), e perciò dovendosene ritruovare la guisa dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana — egli, in quella pruova «dovette, deve, dovrá»,

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esso stesso sel faccia; perché, ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere piú certa l’istoria. Cosí questa Scienza procede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o ’l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto piú di realitá quanta piú ne hanno gli ordini d’intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure. E questo istesso è argomento che tali pruove sieno d’una spezie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un divin piacere, perocché in Dio il conoscer e ’l fare è una medesima cosa.

[350] Oltracciò, quando, per le diffinizioni del vero e del certo sopra proposte, gli uomini per lunga etá non poteron esser capaci del vero e della ragione, ch’è ’l fonte della giustizia interna, della quale si soddisfano gl’intelletti — la qual fu praticata dagli ebrei, che, illuminati dal vero Dio erano proibiti dalla di lui divina legge di far anco pensieri meno che giusti, de’ quali niuno di tutti i legislatori mortali mai s’impacciò (perché gli ebrei credevano in un Dio tutto mente che spia nel cuor degli uomini, e i gentili credevano negli dèi composti di corpi e mente che nol potevano); e fu poi ragionata da’ filosofi, i quali non provennero che due mila anni dopo essersi le loro nazioni fondate; — [la provvedenza dispose che] frattanto si governassero col certo dell’autoritá, cioè con lo stesso criterio ch’usa questa critica metafisica, il qual è ’l senso comune d’esso gener umano (di cui si è la diffinizione sopra, negli Elementi, proposta), sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni. Talché, per quest’altro principale riguardo, questa Scienza vien ad essere una filosofia dell’autoritá, ch’è ’l fonte della «giustizia esterna» che dicono i morali teologi. Della qual autoritá dovevano tener conto gli tre principi della dottrina d’intorno al diritto natural delle genti, e non di quella tratta da’ luoghi degli scrittori; della quale niuna contezza aver poterono gli scrittori, perché tal autoritá regnò tralle nazioni assai piú di mille anni innanzi di potervi provenir gli scrittori. Onde Grozio, piú degli altri due come dotto cosí erudito, quasi in ogni particolar materia di tal dottrina combatte i romani

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giureconsulti; ma i colpi tutti cadono a vuoto, perché quelli stabilirono i loro princípi del giusto sopra il certo dell’autoritá del gener umano, non sopra l’autoritá degli addottrinati.

[351] Queste sono le pruove filosofiche ch’userá questa Scienza, e ’n conseguenza quelle che per conseguirla son assolutamente necessarie. Le filologiche vi debbono tenere l’ultimo luogo, le quali tutte a questi generi si riducono:

[352] Primo, che sulle cose le quali si meditano vi convengono le nostre mitologie, non isforzate e contorte, ma diritte, facili e naturali, che si vedranno essere istorie civili de’ primi popoli, i quali si truovano dappertutto essere stati naturalmente poeti.

[353] Secondo, vi convengono le frasi eroiche, che vi si spiegano con tutta la veritá de’ sentimenti e tutta la propietá dell’espressioni.

[354] Terzo, che vi convengono l’etimologie delle lingue natie, che ne narrano le storie delle cose ch’esse voci significano, incominciando dalla propietá delle lor origini e prosieguendone i naturali progressi de’ lor trasporti secondo l’ordine dell’idee, sul quale dee procedere la storia delle lingue, come nelle Degnitá sta premesso.

[355] Quarto, vi si spiega il vocabolario mentale delle cose umane socievoli, sentite le stesse in sostanza da tutte le nazioni e per le diverse modificazioni spiegate con lingue diversamente, quale si è nelle Degnitá divisato.

[356] Quinto, vi si vaglia dal falso il vero in tutto ciò che per lungo tratto di secoli ce ne hanno custodito le volgari tradizioni, le quali, perocché sonosi per sí lunga etá e da intieri popoli custodite, per una degnitá sopraposta debbon avere avuto un pubblico fondamento di vero.

[357] Sesto, i grandi frantumi dell’antichitá, inutili finor alla scienza perché erano giaciuti squallidi, tronchi e slogati, arrecano de’ grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne’ luoghi loro.

[358] Settimo ed ultimo, sopra tutte queste cose, come loro necessarie cagioni, vi reggono tutti gli effetti i quali ci narra la storia certa.

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[359] Le quali pruove filologiche servono per farci vedere di fatto le cose meditate in idea d’intorno a questo mondo di nazioni, secondo il metodo di filosofare del Verulamio, ch’è «cogitare videre»; ond’è che, per le pruove filosofiche innanzi fatte, le filologiche, le quali succedono appresso, vengono nello stesso tempo e ad aver confermata l’autoritá loro con la ragione ed a confermare la ragione con la loro autoritá.

[360] Conchiudiamo tutto ciò che generalmente si è divisato d’intorno allo stabilimento de’ princípi di questa Scienza: che, poiché i di lei princípi sono provvedenza divina, moderazione di passioni co’ matrimoni e immortalitá dell’anime umane con le seppolture; e ’l criterio che usa è che ciò che si sente giusto da tutti o la maggior parte degli uomini debba essere la regola della vita socievole (ne’ quali princípi e criterio conviene la sapienza volgare di tutti i legislatori e la sapienza riposta degli piú riputati filosofi): questi deon esser i confini dell’umana ragione. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l’umanitá.

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LIBRO SECONDO della sapienza poetica

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[PROLEGOMENI]

[Introduzione]

[361] Per ciò che sopra si è detto nelle Degnitá: che tutte le storie delle nazioni gentili hanno avuto favolosi princípi, e che appo i greci (da’ quali abbiamo tutto ciò ch’abbiamo dell’antichitá gentilesche) i primi sappienti furon i poeti teologi, e la natura delle cose che sono mai nate o fatte porta che sieno rozze le lor origini; tali e non altrimenti si deono stimare quelle della sapienza poetica. E la somma e sovrana stima con la qual è fin a noi pervenuta, ella è nata dalle due borie nelle Degnitá divisate, una delle nazioni, l’altra de’ dotti, e piú che da quella delle nazioni ella è nata dalla boria de’ dotti, per la quale, come Manetone, sommo pontefice egizio, portò tutta la storia favolosa egiziaca ad una sublime teologia naturale, come dicemmo nelle Degnitá, cosí i filosofi greci portarono la loro alla filosofia. Né giá solamente per ciò — perché, come sopra pur vedemmo nelle Degnitá, erano loro entrambe cotal’istorie pervenute laidissime, — ma per queste cinque altre cagioni.

[362] La prima fu la riverenza della religione, perché con le favole furono le gentili nazioni dappertutto sulla religione fondate. La seconda fu il grande effetto indi seguíto di questo mondo civile, sí sappientemente ordinato che non poté esser effetto che d’una sovraumana sapienza. La terza furono l’occasioni che, come qui dentro vedremo, esse favole, assistite dalla venerazione della religione e dal credito di tanta sapienza, dieder a’ filosofi di porsi in ricerca e di meditare altissime cose in filosofia. La quarta furono le comoditá, come pur qui dentro farem

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conoscere, di spiegar essi le sublimi da lor meditate cose in filosofia con l’espressioni che loro n’avevano per ventura lasciato i poeti. La quinta ed ultima, che val per tutte, per appruovar essi filosofi le cose da essolor meditate con l’autoritá della religione e con la sapienza de’ poeti. Delle quali cinque cagioni le due prime contengono le lodi, l’ultima le testimonianze, che, dentro i lor errori medesimi, dissero i filosofi della sapienza divina, la quale ordinò questo mondo di nazioni; la terza e quarta sono inganni permessi dalla divina provvedenza ond’essi provenisser filosofi per intenderla e riconoscerla, qual ella è veramente, attributo del vero Dio.

[363] E per tutto questo libro si mostrerá che quanto prima avevano sentito d’intorno alla sapienza volgare i poeti, tanto intesero poi d’intorno alla sapienza riposta i filosofi; talché si possono quelli dire essere stati il senso e questi l’intelletto del gener umano. Di cui anco generalmente sia vero quello da Aristotile detto particolarmente di ciascun uomo: «Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu», cioè che la mente umana non intenda cosa della quale non abbia avuto alcun motivo (ch’i metafisici d’oggi dicono «occasione») da’ sensi, la quale allora usa l’intelletto quando, da cosa che sente, raccoglie cosa che non cade sotto de’ sensi; lo che propiamente a’ latini vuol dir «intelligere».

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[Capitolo Primo]
Della sapienza generalmente

[364] Ora, innanzi di ragionare della sapienza poetica, ci fa mestieri di vedere generalmente che cosa sia essa sapienza. Ella è «sapienza» la facultá che comanda a tutte le discipline, dalle quali s’apprendono tutte le scienze e l’arti che compiono l’umanitá. Platone diffinisce la sapienza esser «la perfezionatrice dell’uomo». Egli è l’uomo non altro, nel propio esser d’uomo, che mente ed animo, o vogliam dire intelletto e volontá. La sapienza dee compier all’uomo entrambe queste due parti, e la seconda in séguito della prima, acciocché dalla mente illuminata con la cognizione delle cose altissime l’animo s’induca all’elezione delle cose ottime. Le cose altissime in quest’universo son quelle che s’intendono e si ragionan di Dio; le cose ottime son quelle che riguardano il bene di tutto il gener umano: quelle «divine» e queste si dicono «umane cose». Adunque la vera sapienza deve la cognizione delle divine cose insegnare per condurre a sommo bene le cose umane. Crediamo che Marco Terenzio Varrone, il quale meritò il titolo di «dottissimo de’ romani», su questa pianta avesse innalzata la sua grand’opera Rerum divinarum et humanarum, della quale l’ingiuria del tempo ci fa sentire la gran mancanza. Noi in questo libro ne trattiamo secondo la debolezza della nostra dottrina e scarsezza della nostra erudizione.

[365] La sapienza tra’ gentili cominciò dalla musa, la qual è da Omero, in un luogo d’oro dell’Odissea, diffinita «scienza del bene e del male», la qual poi fu detta «divinazione»; sul cui natural divieto, perché di cosa naturalmente niegata agli uomini, Iddio fondò la vera religione agli ebrei, onde uscí la nostra de’ cristiani, come se n’è proposta una degnitá. Sicché la musa dovett’essere propiamente dapprima la scienza in divinitá

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d’auspíci; la quale, come innanzi nelle Degnitá si è detto (e piú, appresso, se ne dirá), fu la sapienza volgare di tutte le nazioni di contemplare Dio per l’attributo della sua provvedenza, per la quale, da «divinari», la di lui essenza appellossi «divinitá». E di tal sapienza vedremo appresso essere stati sappienti i poeti teologi, i quali certamente fondarono l’umanitá della Grecia; onde restò a’ latini dirsi «professori di sapienza» gli astrologhi giudiziari. Quindi «sapienza» fu poi detta d’uomini chiari per avvisi utili dati al gener umano, onde furono detti i sette sappienti della Grecia. Appresso «sapienza» s’avanzò a dirsi d’uomini ch’a bene de’ popoli e delle nazioni saggiamente ordinano repubbliche e le governano. Dappoi s’innoltrò la voce «sapienza» a significare la scienza delle divine cose naturali, qual è la metafisica, che perciò si chiama «scienza divina», la quale, andando a conoscere la mente dell’uomo in Dio, per ciò che riconosce Dio fonte d’ogni vero, dee riconoscerlo regolator d’ogni bene. Talché la metafisica dee essenzialmente adoperarsi a bene del gener umano, il quale si conserva sopra questo senso universale: che sia, la divinitá, provvedente; onde forse Platone, che la dimostra, meritò il titolo di «divino», e perciò quella che niega a Dio un tale e tanto attributo, anziché «sapienza», dee «stoltezza» appellarsi. Finalmente «sapienza» tra gli ebrei, e quindi tra noi cristiani, fu detta la scienza di cose eterne rivelate da Dio, la quale appo i toscani, per l’aspetto di scienza del vero bene e del vero male, forse funne detta, col suo primo vocabolo, «scienza in divinitá».

[366] Quindi si deon fare tre spezie di teologia, con piú veritá di quelle che ne fece Varrone: una, teologia poetica, la qual fu de’ poeti teologi, che fu la teologia civile di tutte le nazioni gentili; un’altra, teologia naturale, ch’è quella de’ metafisici; e ’n luogo della terza che ne pose Varrone, ch’è la poetica, la qual appo i gentili fu la stessa che la civile (la qual Varrone distinse dalla civile e dalla naturale, perocché, entrato nel volgare comun errore che dentro le favole si contenessero alti misteri di sublime filosofia, la credette mescolata dell’una e dell’altra), poniamo per terza spezie la nostra teologia cristiana,

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mescolata di civile e di naturale e di altissima teologia rivelata; e tutte e tre tra loro congionte dalla contemplazione della provvedenza divina. La quale cosí condusse le cose umane che, dalla teologia poetica che li regolava a certi segni sensibili, creduti divini avvisi mandati agli uomini dagli dèi, per mezzo della teologia naturale, che dimostra la provvedenza per eterne ragioni che non cadano sotto i sensi, le nazioni si disponessero a ricevere la teologia rivelata in forza d’una fede sopranaturale, nonché a’ sensi, superiore ad esse umane ragioni.
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[Capitolo Secondo]
Proposizione e partizione della sapienza poetica

[367] Ma, perché la metafisica è la scienza sublime, che ripartisce i certi loro subbietti a tutte le scienze che si dicono «subalterne»; e la sapienza degli antichi fu quella de’ poeti teologi, i quali senza contrasto furono i primi sappienti del gentilesimo, come si è nelle Degnitá stabilito; e le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze: dobbiamo per tutto ciò dar incominciamento alla sapienza poetica da una rozza lor metafisica, dalla quale, come da un tronco, si diramino per un ramo la logica, la morale, l’iconomica e la politica, tutte poetiche; e per un altro ramo, tutte eziandio poetiche, la fisica, la qual sia stata madre della loro cosmografia, e quindi dell’astronomia, che ne dia accertate le due sue figliuole, che sono cronologia e geografia. E con ischiarite e distinte guise farem vedere come i fondatori dell’umanitá gentilesca con la loro teologia naturale (o sia metafisica) s’immaginarono gli dèi, con la loro logica si truovarono le lingue, con la morale si generarono gli eroi, con l’iconomica si fondarono le famiglie, con la politica le cittá; come con la loro fisica si stabilirono i princípi delle cose tutte divini, con la fisica particolare dell’uomo in un certo modo generarono se medesimi, con la loro cosmografia si finsero un lor universo tutto di dèi, con l’astronomia portarono da terra in cielo i pianeti e le costellazioni, con la cronologia diedero principio ai tempi, e con la geografia i greci, per cagion di esemplo, si descrissero il mondo dentro la loro Grecia.

[368] Di tal maniera questa Scienza vien ad essere ad un fiato una storia dell’idee, costumi e fatti del gener umano. E da tutti e tre si vedranno uscir i princípi della storia della natura umana, e questi esser i princípi della storia universale, la quale sembra ancor mancare ne’ suoi princípi.

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[Capitolo Terzo]
Del diluvio universale e de’ giganti

[369] Gli autori dell’umanitá gentilesca dovetter essere uomini delle razze di Cam, che molto prestamente, di Giafet, che alquanto dopo, e finalmente di Sem, ch’altri dopo altri tratto tratto rinnonziarono alla vera religione del loro comun padre Noè, la qual sola nello stato delle famiglie poteva tenergli in umana societá con la societá de’ matrimoni, e quindi di esse famiglie medesime; e perciò dovetter andar a dissolver i matrimoni e disperdere le famiglie coi concubiti incerti. E, con un ferino error divagando per la gran selva della terra — quella di Cam per l’Asia meridionale, per l’Egitto e ’l rimanente dell’Affrica; quella di Giafet per l’Asia settentrionale, ch’è la Scizia, e di lá per l’Europa; quella di Sem per tutta l’Asia di mezzo ad esso Oriente — per campar dalle fiere, delle quali la gran selva ben doveva abbondare, e per inseguire le donne, ch’in tale stato dovevan esser selvagge, ritrose e schive, e sí sbandati per truovare pascolo ed acqua, le madri abbandonando i loro figliuoli, questi dovettero tratto tratto crescere senza udir voce umana nonché apprender uman costume, onde andarono in uno stato affatto bestiale e ferino, nel quale le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolar dentro le fecce loro propie, ed appena spoppati abbandonargli per sempre. E questi — dovendosi rotolare dentro le loro fecce, le quali co’ sali nitri maravigliosamente ingrassano i campi; — e sforzarsi per penetrare la gran selva, che per lo diluvio doveva esser foltissima, per gli quali sforzi dovevano dilatar altri muscoli per tenderne altri, onde i sali nitri in maggior copia s’insinuavano ne’ loro corpi; — e senza alcun timore di dèi, di padri, di maestri, il qual assidera il piú rigoglioso dell’etá fanciullesca; — dovettero a dismisura ingrandire

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le carni e l’ossa, e crescere vigorosamente robusti, e sí provenire giganti. Ch’è la ferina educazione, ed in grado piú fiera di quella nella quale, come nelle Degnitá si è sopra avvisato, Cesare e Tacito rifondono la cagione della gigantesca statura degli antichi Germani, onde fu quella de’ goti che dice Procopio, e qual oggi è quella de los patacones che si credono presso lo stretto di Magaglianes; d’intorno alla quale han detto tante inezie i filosofi in fisica, raccolte dal Cassanione che scrisse De gigantibus. De’ quali giganti si sono truovate e tuttavia si truovano, per lo piú sopra i monti (la qual particolaritá molto rileva per le cose ch’appresso se n’hanno a dire), i vasti teschi e le ossa d’una sformata grandezza, la quale poi con le volgari tradizioni si alterò all’eccesso, per ciò che a suo luogo diremo.

[370] Di giganti cosí fatti fu sparsa la terra dopo il diluvio, poiché, come gli abbiamo veduti sulla storia favolosa de’ greci, cosí i filologi latini, senza avvedersene, gli ci hanno narrati sulla vecchia storia d’Italia, ov’essi dicono che gli antichissimi popoli dell’Italia detti «aborigini» si dissero αὐτόχθονες, che tanto suona quanto «figliuoli della Terra», ch’a’ greci e latini significano «nobili». E con tutta propietá i figliuoli della Terra da’ greci furon detti «giganti», onde madre de’ giganti dalle favole ci è narrata la Terra; ed αὐτόχθονες de’ greci si devono voltare in latino «indigenae», che sono propiamente i natii d’una terra, siccome gli dèi natii d’un popolo o nazione si dissero «dii indigetes», quasi «inde geniti», ed oggi piú speditamente si direbbono «ingeniti». Perocché la sillaba «de», qui, è una delle ridondanti delle prime lingue de’ popoli, le quali qui appresso ragioneremo; come ne giunsero de’ latini quella «induperator» per «imperator», e nella legge delle XII Tavole quella «endoiacito» per «iniicito» (onde forse rimasero dette «induciae» gli armistizi, quasi «iniiciae», perché debbon essere state cosí dette da «icere foedus», «far patto di pace»). Siccome, al nostro proposito, dagl’«indigeni», ch’or ragioniamo, restarono detti «ingenui», i quali, prima e propiamente, significarono «nobili» (onde restarono dette «artes

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ingenuae», «arti nobili»), e finalmente restarono a significar «liberi» (ma pur «artes liberales» restaron a significar «arti nobili»), perché di soli nobili, come appresso sará dimostro, si composero le prime cittá, nelle qual’i plebei furono schiavi o abbozzi di schiavi.

[371] Gli stessi latini filologi osservano che tutti gli antichi popoli furon detti «aborigini», e la sagra storia ci narra esserne stati intieri popoli, che si dissero emmei e zanzummei, ch’i dotti della lingua santa spiegano «giganti», uno de’ quali fu Nebrot; e i giganti innanzi il diluvio la stessa storia sagra gli diffinisce «uomini forti, famosi, potenti del secolo». Perché gli ebrei, con la pulita educazione e col timore di Dio e de’ padri, durarono nella giusta statura, nella qual Iddio aveva criato Adamo, e Noè aveva procriato i suoi tre figliuoli; onde, forse in abbominazione di ciò, gli ebrei ebbero tante leggi cerimoniali, che s’appartenevano alla pulizia de’ lor corpi. E ne serbarono un gran vestigio i romani nel pubblico sagrifizio con cui credevano purgare la cittá da tutte le colpe de’ cittadini, il quale facevano con l’acqua e ’l fuoco; con le quali due cose essi celebravano altresí le nozze solenni, e nella comunanza delle stesse due cose riponevano di piú la cittadinanza, la cui privazione perciò dissero «interdictum aqua et igni». E tal sagrifizio chiamavano «lustrum», che, perché dentro tanto tempo si ritornava a fare, significò lo spazio di cinque anni, come l’olimpiade a’ greci significò quel di quattro. E «lustrum» appo i medesimi significò «covile di fiere», ond’è «lustrari», che significa egualmente e «spiare» e «purgare», che dovette significar dapprima spiare sí fatti lustri e purgargli dalle fiere ivi dentro intanate; e «aqua lustralis» restò detta quella ch’abbisognava ne’ sagrifizi. E i romani, con piú accorgimento forse che i greci, che incominciarono a noverare gli anni dal fuoco che attaccò Ercole alla selva nemea per seminarvi il frumento (ond’esso, come accennammo nell’Idea dell’opera e appieno vedremo appresso, ne fondò l’olimpiadi); con piú accorgimento, diciamo, i romani dall’acqua delle sagre lavande cominciarono a noverare i tempi per lustri, perocché dall’acqua, la cui

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necessitá s’intese prima del fuoco (come, nelle nozze e nell’interdetto, dissero prima «aqua» e poi «igni»), avesse incominciato l’umanitá. E questa è l’origine delle sagre lavande che deono precedere a’ sagrifizi, il qual costume fu ed è comune di tutte le nazioni. Con tal pulizia de’ corpi e col timore degli dèi e de’ padri, il quale si truoverá, e degli uni e degli altri, essere ne’ primi tempi stato spaventosissimo, avvenne che i giganti degradarono alle nostre giuste stature. Il perché forse da πολιτεία, ch’appo i greci vuol dir «governo civile», venne a’ latini detto «politus», «nettato» e «mondo».

[372] Tal degradamento dovette durar a farsi fin a’ tempi umani delle nazioni, come il dimostravano le smisurate armi de’ vecchi eroi, le quali, insieme con l’ossa e i teschi degli antichi giganti, Augusto, al riferire di Suetonio, conservava nel suo museo. Quindi, come si è nelle Degnitá divisato, di tutto il primo mondo degli uomini si devono fare due generi: cioè uno d’uomini di giusta corporatura, che furon i soli ebrei, e l’altro di giganti, che furono gli autori delle nazioni gentili; e de’ giganti fare due spezie: una de’ figliuoli della Terra, ovvero nobili, che diedero il nome all’etá de’ giganti, con tutta la propietá di tal voce, come si è detto (e la sagra storia gli ci ha diffiniti «uomini forti, famosi, potenti del secolo»); l’altra, meno propiamente detta, degli altri giganti signoreggiati.

[373] Il tempo di venire gli autori delle nazioni gentili in sí fatto stato si determina cento anni dal diluvio per la razza di Sem, e duecento per quelle di Giafet e di Cam, come sopra ve n’ha un postulato; e quindi a poco se n’arrecherá la storia fisica, narrataci bensí dalle greche favole, ma finora non avvertita, la quale nello stesso tempo ne dará un’altra storia fisica dell’universale diluvio.

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[SEZIONE PRIMA] [Metafisica poetica]


[Capitolo Primo]
Della metafisica poetica, che ne dá l’origini della poesia,
dell’idolatria, della divinazione e de’ sagrifizi

[374] Da sí fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar a ragionare la sapienza degli antichi gentili; cioè da’ giganti, testé presi nella loro propia significazione. De’ quali il padre Boulduc, De ecclesia ante Legem, dice che i nomi de’ giganti ne’ sagri libri significano «uomini pii, venerabili, illustri»; lo che non si può intendere che de’ giganti nobili, i quali con la divinazione fondarono le religioni a’ gentili e diedero il nome all’etá de’ giganti. E dovevano incominciarla dalla metafisica, siccome quella che va a prendere le sue pruove non giá da fuori ma da dentro le modificazioni della propia mente di chi la medita, dentro le quali, come sopra dicemmo, perché questo mondo di nazioni egli certamente è stato fatto dagli uomini, se ne dovevan andar a truovar i princípi; e la natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, porta seco questa propietá: ch’i sensi sieno le sole vie ond’ella conosca le cose.

[375] Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilitá, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata

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ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie, com’è stato nelle Degnitá stabilito. Questa fu la loro propia poesia, la qual in essi fu una facultá loro connaturale (perch’erano di tali sensi e di sí fatte fantasie naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano, come si è accennato nelle Degnitá. Tal poesia incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch’essi immaginavano le cagioni delle cose che sentivano ed ammiravano, essere dèi, come nelle Degnitá il vedemmo con Lattanzio (ed ora il confermiamo con gli americani, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capacitá dicono esser dèi; a’ quali aggiugniamo i Germani antichi, abitatori presso il Mar Agghiacciato, de’ quali Tacito narra che dicevano d’udire la notte il Sole, che dall’occidente passava per mare nell’oriente, ed affermavano di vedere gli dèi: le quali rozzissime e semplicissime nazioni ci dánno ad intendere molto piú di questi autori della gentilitá, de’ quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano l’essere di sostanze dalla propia lor idea, ch’è appunto la natura de’ fanciulli, che, come se n’è proposta una degnitá, osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come fusser, quelle, persone vive.

[376] In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnitá divisato, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio. Perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia. E perch’era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimitá; tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si creavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia

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grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essi l’insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerá. E di questa natura di cose umane restò eterna propietá, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamente gli uomini spaventati «fingunt simul creduntque».

[377] Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell’umanitá gentilesca quando — dugento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto in un postulato (perché tanto di tempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che, disseccata dall’umidore dell’universale innondazione, mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini) — il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sí violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli piú robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, siccome le fiere piú robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnitá, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette «maggiori», che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa. E sí incominciarono a celebrare la naturale curiositá, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell’aprire che fa della mente dell’uomo, la maraviglia, come tra gli Elementi ella sopra si è diffinita. La qual natura tuttavia dura ostinata nel volgo, ch’ove veggano o una qualche cometa o parelio o altra stravagante cosa in natura, e particolarmente

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nell’aspetto del cielo, subito dánno nella curiositá e, tutti anziosi nella ricerca, domandano che quella tal cosa voglia significare, come se n’è data una degnitá; ed ove ammirano gli stupendi effetti della calamita col ferro, in questa stessa etá di menti piú scorte e benanco erudite dalle filosofie, escono colá: che la calamita abbia una simpatia occulta col ferro, e sí fanno di tutta la natura un vasto corpo animato che senta passioni ed affetti, conforme nelle Degnitá anco si è divisato.

[378] Ma, siccome ora (per la natura delle nostre umane menti, troppo ritirata da’ sensi nel medesimo volgo con le tante astrazioni di quante sono piene le lingue con tanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l’arte dello scrivere, e quasi spiritualezzata con la pratica de’ numeri, ché volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono «Natura simpatetica» (che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente, perocché la lor mente è dentro il falso, ch’è nulla, né sono soccorsi giá dalla fantasia a poterne formare una falsa vastissima immagine); cosí ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi: onde dicemmo sopra ch’or appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi uomini che fondarono l’umanitá gentilesca.

[379] In tal guisa i primi poeti teologi si finsero la prima favola divina, la piú grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, ed in atto di fulminante; sí popolare, perturbante ed insegnativa, ch’essi stessi, che sel finsero, sel credettero e con ispaventose religioni, le quali appresso si mostreranno, il temettero, il riverirono e l’osservarono. E per quella propietá della mente umana che nelle Degnitá udimmo avvertita da Tacito, tali uomini tutto ciò che vedevano, immaginavano ed anco essi stessi facevano, credettero esser Giove, ed a tutto l’universo di cui potevan

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esser capaci ed a tutte le parti dell’universo diedero l’essere di sostanza animata. Ch’è la storia civile di quel motto:

... Iovis omnia plena,

che poi Platone prese per l’etere, che penetra ed empie tutto. Ma per gli poeti teologi, come quindi a poco vedremo, Giove non fu piú alto della cima de’ monti. Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove (onde poi da nuo, «cennare» fu detta «numen» la «divina volontá», con una troppo sublime idea e degna da spiegare la maestá divina), che Giove comandasse co’ cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la qual da’ greci ne fu detta «teologia», che vuol dire «scienza del parlar degli dèi». Cosí venne a Giove il temuto regno del fulmine, per lo qual egli è ’l re degli uomini e degli dèi; e vennero i due titoli: uno di «ottimo», in significato di «fortissimo» (come a rovescio appo i primi latini «fortus» significò ciò che agli ultimi significa «bonus»), e l’altro di «massimo», dal di lui vasto corpo quant’egli è ’l cielo. E da questo primo gran beneficio fatto al gener umano vennegli il titolo di «sotere» o di «salvadore», perché non gli fulminò (ch’è ’l primo degli tre princípi ch’abbiamo preso di questa Scienza); e vennegli quel di «statore» o di «fermatore», perché fermò que’ pochi giganti dal loro ferino divagamento, onde poi divennero i principi delle genti. Lo che i filologi latini troppo ristrinsero al fatto: perocché Giove, invocato da Romolo, avesse fermato i romani che nella battaglia co’ sabini si erano messi in fuga.

[380] Quindi [i] tanti Giovi che fanno maraviglia a’ filologi, perché ogni nazione gentile n’ebbe uno (de’ quali tutti, gli egizi, come si è sopra detto nelle Degnitá, per la loro boria dicevano il loro Giove Ammone essere lo piú antico), sono tante istorie fisiche conservateci dalle favole, che dimostrano essere stato universale il diluvio, come il promettemmo nelle Degnitá.

150 ―

[381] Cosí, per ciò che si è detto nelle Degnitá d’intorno a’ princípi de’ caratteri poetici, Giove nacque in poesia naturalmente carattere divino, ovvero un universale fantastico, a cui riducevano tutte le cose degli auspíci tutte le antiche nazioni gentili, che tutte perciò dovetter essere per natura poetiche; che incominciarono la sapienza poetica da questa poetica metafisica di contemplare Dio per l’attributo della sua provvedenza; e se ne dissero «poeti teologi», ovvero sappienti che s’intendevano del parlar degli dèi conceputo con gli auspíci di Giove, e ne furono detti propiamente «divini», in senso d’«indovinatori», da «divinari», che propiamente è «indovinare» o «predire». La quale scienza fu detta «musa», diffinitaci sopra da Omero essere la scienza del bene e del male, cioè la divinazione, sul cui divieto ordinò Iddio ad Adamo la sua vera religione, come nelle Degnitá si è pur detto. Dalla qual mistica teologia i poeti da’ greci furon chiamati «mystae», che Orazio con iscienza trasporta «interpetri degli dèi», che spiegavano i divini misteri degli auspíci e degli oracoli. Nella quale scienza ogni nazione gentile ebbe una sua sibilla, delle quali ce ne sono mentovate pur dodici; e le sibille e gli oracoli sono le cose piú antiche della gentilitá.

[382] Cosí con le cose tutte qui ragionate accorda quel [luogo d’oro] d’Eusebio riferito nelle Degnitá, ove ragiona de’ princípi dell’idolatria: che la prima gente, semplice e rozza, si finse gli dèi «ob terrorem praesentis potentiae». Cosí il timore fu quello che finse gli dèi nel mondo; ma, come si avvisò nelle Degnitá, non fatto da altri ad altri uomini, ma da essi a se stessi. Con tal principio dell’idolatria si è dimostrato altresí il principio della divinazione, che nacquero al mondo ad un parto; a’ quali due princípi va di séguito quello de’ sagrifizi, ch’essi facevano per «proccurare» o sia ben intender gli auspíci.

[383] Tal generazione della poesia ci è finalmente confermata da questa sua eterna propietá: che la di lei propia materia è l’impossibile credibile, quanto egli è impossibile ch’i corpi sieno menti (e fu creduto che ’l cielo tonante si fusse Giove);

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onde i poeti non altrove maggiormente si esercitano che nel cantare le maraviglie fatte dalle maghe per opera d’incantesimi. Lo che è da rifondersi in un senso nascosto c’hanno le nazioni dell’onnipotenza di Dio, dal quale nasce quell’altro per lo quale tutti i popoli sono naturalmente portati a far infiniti onori alla divinitá. E ’n cotal guisa i poeti fondarono le religioni a’ gentili.

[384] E per tutte le finora qui ragionate cose si rovescia tutto ciò che dell’origine della poesia si è detto prima da Platone, poi da Aristotile, infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri, Castelvetri; ritruovatosi che per difetto d’umano raziocinio nacque la poesia tanto sublime che, per filosofie le quali vennero appresso, per arti, e poetiche e critiche, anzi per queste istesse, non provenne altra pari nonché maggiore: ond’è il privilegio per lo qual Omero è ’l principe di tutti i sublimi poeti, che sono gli eroici, non meno per lo merito che per l’etá. Per la quale discoverta de’ princípi della poesia si è dileguata l’oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi, cotanto disiderata di scuoprirsi da Platone infin a Bacone da Verulamio, De sapientia veterum, la quale fu sapienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano, non giá sapienza riposta di sommi e rari filosofi. Onde, come si è incominciato quinci a fare da Giove, si truoveranno tanto importuni tutti i sensi mistici d’altissima filosofia dati dai dotti alle greche favole ed a’ geroglifici egizi, quanto naturali usciranno i sensi storici che quelle e questi naturalmente dovevano contenere.

152 ―

[Capitolo Secondo]
Corollari d’intorno agli aspetti principali
di questa scienza
i

[385] Dal detto fino qui si raccoglie che la provvedenza divina, appresa per quel senso umano che potevano sentire uomini crudi, selvaggi e fieri, che ne’ disperati soccorsi della natura anco essi disiderano una cosa alla natura superiore che gli salvasse (ch’è ’l primo principio sopra di cui noi sopra stabilimmo il metodo di questa Scienza), permise loro d’entrar nell’inganno di temere la falsa divinitá di Giove, perché poteva fulminargli; e sí, dentro i nembi di quelle prime tempeste e al barlume di que’ lampi, videro questa gran veritá: che la provvedenza divina sovraintenda alla salvezza di tutto il gener umano. Talché quindi questa Scienza incomincia, per tal principal aspetto, ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza, la quale cominciò dalla sapienza volgare de’ legislatori che fondarono le nazioni con contemplare Dio per l’attributo di provvedente, e si compiè con la sapienza riposta de’ filosofi che ’l dimostrano con ragioni nella loro teologia naturale.

ii

[386] Quindi incomincia ancora una filosofia dell’autoritá, ch’è altro principal aspetto c’ha questa Scienza, prendendo la voce «autoritá» nel primo suo significato di «propietá», nel qual senso sempre è usata questa voce dalla legge delle XII Tavole; onde restaron «autori» detti in civil ragione romana coloro da’ quali abbiamo cagion di dominio, che tanto certamente

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viene da αὐτός, «proprius» o «suus ipsius», che molti eruditi scrivono «autor» e «autoritas» non aspirati.

[387] E l’autoritá incominciò primieramente divina, con la quale la divinitá appropiò a sé i pochi giganti ch’abbiamo detti, con propiamente atterrargli nel fondo e ne’ nascondigli delle grotte per sotto i monti; che sono l’anella di ferro con le quali restarono i giganti, per lo spavento del cielo e di Giove, incatenati alle terre dov’essi, al punto del primo fulminare del cielo, dispersi per sopra i monti, si ritruovavano. Quali furono Tizio e Prometeo, incatenati ad un’alta rupe, a’ quali divorava il cuore un’aquila, cioè la religione degli auspíci di Giove; siccome gli «resi immobili per lo spavento» restarono con frase eroica detti a’ latini «terrore defixi», come appunto i pittori gli dipingono di mani e piedi incatenati con tali anella sotto de’ monti. Dalle quali anella si formò la gran catena, nella quale Dionigi Longino ammira la maggiore sublimitá di tutte le favole omeriche: la qual catena Giove, per appruovare ch’esso è ’l re degli uomini e degli dèi, propone che, se da una parte vi si attenessero tutti gli dèi e tutti gli uomini, esso solo dall’altra parte opposta gli strascinerebbesi tutti dietro. La qual catena se gli stoici vogliono che significhi la serie eterna delle cagioni con la quale il lor fato tenga cinto e legato il mondo, vedano ch’essi non vi restino avvolti, perché lo strascinamento degli uomini e degli dèi con sí fatta catena egli pende dall’arbitrio di esso Giove, ed essi vogliono Giove soggetto al fato.

[388] Sí fatta autoritá divina portò di séguito l’autoritá umana, con tutta la sua eleganza filosofica di propietá d’umana natura, che non può essere tolta all’uomo nemmen da Dio, senza distruggerlo: siccome in tal significato Terenzio disse «voluptates proprias deorum», che la felicitá di Dio non dipende da altri; ed Orazio disse «propriam virtutis laurum», che ’l trionfo della virtú non può togliersi dall’invidia; e Cesare disse «propriam victoriam», che con errore Dionigi Petavio nota non esser detto latino, perché, pur con troppa latina eleganza, significa una «vittoria che ’l nimico non poteva togliergli dalle mani». Cotal autoritá è il libero uso della volontá, essendo l’intelletto

154 ―
una potenza passiva soggetta alla veritá. Perché gli uomini da questo primo punto di tutte le cose umane incominciaron a celebrare la libertá dell’umano arbitrio di tener in freno i moti de’ corpi, per o quetargli affatto o dar loro migliore direzione (ch’è ’l conato propio degli agenti liberi, come abbiam detto sopra nel Metodo); onde que’ giganti si ristettero dal vezzo bestiale d’andar vagando per la gran selva della terra e s’avvezzarono ad un costume, tutto contrario, di stare nascosti e fermi lunga etá dentro le loro grotte.

[389] A sí fatta autoritá di natura umana seguí l’autoritá di diritto naturale, ché, con l’occupare e stare lungo tempo fermi nelle terre dove si erano nel tempo de’ primi fulmini per fortuna truovati, ne divennero signori per l’occupazione, con una lunga possessione, ch’è ’l fonte di tutti i domíni del mondo. Onde questi sono que’

pauci quos aequus amavit

Iupiter, che poi i filosofi trasportarono a coloro c’han sortito da Dio indoli buone per le scienze e per le virtú. Ma il senso istorico di tal motto è che tra que’ nascondigli, in que’ fondi essi divennero i principi delle genti dette «maggiori», delle quali Giove si novera il primo dio, come si è nelle Degnitá divisato; le quali, come si mostrerá appresso, furono case nobili antiche, diramate in molte famiglie, delle quali si composero i primi regni e le prime cittá. Di che restarono quelle bellissime frasi eroiche a’ latini: «condere gentes», «condere regna», «condere urbes»; «fundare gentes», «fundare regna», «fundare urbes».

[390] Questa filosofia dell’autoritá va di séguito alla teologia civile ragionata della provvedenza, perché, per le pruove teologiche di quella, questa, con le sue filosofiche, rischiara e distingue le filologiche (le quali tre spezie di pruove si sono tutte noverate nel Metodo), e d’intorno alle cose dell’oscurissima antichitá delle nazioni riduce a certezza l’umano arbitrio, ch’è di sua natura incertissimo, come nelle Degnitá si è avvisato. Ch’è tanto dire quanto riduce la filologia in forma di scienza.

155 ―

iii

[391] Terzo principal aspetto è una storia d’umane idee, che, come testé si è veduto, incominciarono da idee divine con la contemplazione del cielo fatta con gli occhi del corpo: siccome nella scienza augurale si disse da’ romani «contemplari» l’osservare le parti del cielo donde venissero gli augúri o si osservassero gli auspíci, le quali regioni, descritte dagli áuguri co’ loro litui, si dicevano «templa coeli», onde dovettero venir a’ greci i primi θεωρήματα e μαθήματα, «divine o sublimi cose da contemplarsi», che terminarono nelle cose astratte metafisiche e mattematiche. Ch’è la storia civile di quel motto:

A Iove principium musae;

siccome da’ fulmini di Giove testé abbiam veduto incominciare la prima musa, che Omero ci diffiní «scienza del bene e del male»; dove poi venne troppo agiato a’ filosofi d’intrudervi quel placito: che «’l principio della sapienza sia la pietá». Talché la prima musa dovett’esser Urania, contemplatrice del cielo affin di prender gli augúri, che poi passò a significare l’astronomia, come si vedrá appresso. E come sopra si è partita la metafisica poetica in tutte le scienze subalterne, dalla stessa natura della lor madre, poetiche; cosí questa storia d’idee ne dará le rozze origini cosí delle scienze pratiche che costuman le nazioni, come delle scienze specolative, le quali, ora cólte, son celebrate da’ dotti.
iv

[392] Quarto aspetto è una critica filosofica, la qual nasce dalla istoria dell’idee anzidetta; e tal critica giudicherá il vero sopra gli autori delle nazioni medesime, nelle quali dee correre da assai piú di mille anni per potervi provenir gli scrittori, che sono il subbietto di questa critica filologica. Tal critica

156 ―
filosofica, quindi incominciando da Giove, ne dará una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi fatta naturalmente nelle menti degli autori della gentilitá, che furono per natura poeti teologi. E i dodici dèi delle genti dette «maggiori», l’idee de’ quali da costoro si fantasticarono di tempo in tempo a certe loro umane necessitá o utilitá, si stabiliscono per dodici minute epoche, alle quali si ridurranno i tempi ne’ quali nacquero le favole. Onde tal teogonia naturale ne dará una cronologia ragionata della storia poetica almeno un novecento anni innanzi di avere, dopo il tempo eroico, i suoi primi incominciamenti la storia volgare.

v

[393] Il quinto aspetto è una storia ideal eterna sopra la quale corrano in tempo le storie di tutte le nazioni, ch’ovunque da tempi selvaggi, feroci e fieri cominciano gli uomini ad addimesticarsi con le religioni, esse cominciano, procedono e finiscono con quelli gradi meditati in questo libro secondo, rincontrati nel libro quarto, ove tratteremo del corso che fanno le nazioni, e col ricorso delle cose umane, nel libro quinto.

vi

[394] Il sesto è un sistema del diritto natural delle genti, dal quale col cominciar delle genti, dalle quali ne incomincia la materia per una delle degnitá sopraposta, dovevano cominciar la dottrina ch’essi trattano gli tre suoi principi: Ugone Grozio, Giovanni Seldeno e Samuello Pufendorfio. I quali in ciò tutti e tre errarono di concerto: incominciandola dalla metá in giú, cioè dagli ultimi tempi delle nazioni ingentilite (e quindi degli uomini illuminati dalla ragion naturale tutta spiegata), dalle quali son usciti i filosofi, che s’alzarono a meditare una perfetta idea di giustizia.

[395] Primieramente Grozio, per lo stesso grand’affetto che porta alla veritá, prescinde dalla provvedenza divina e professa che ’l suo sistema regga precisa anco ogni cognizione di Dio. Onde

157 ―
tutte le riprensioni, ch’in un gran numero di materie fa contro i giureconsulti romani, loro non appartengono punto, siccome a quelli i quali, avendone posto per principio la provvedenza divina, intesero ragionare del diritto natural delle genti, non giá di quello de’ filosofi e de’ morali teologi.

[396] Dipoi il Seldeno la suppone, senza punto avvertire all’inospitalitá de’ primi popoli, né alla divisione che ’l popolo di Dio faceva, di tutto il mondo allor delle nazioni, tra ebrei e genti; — né a quello: che, perché gli ebrei avevano perduto di vista il loro diritto naturale nella schiavitú dell’Egitto, dovett’esso Dio riordinarlo loro con la Legge la qual diede a Mosè sopra il Sina; — né a quell’altro: che Iddio nella sua Legge vieta anco i pensieri meno che giusti, de’ quali niuno de’ legislatori mortali mai s’impacciò; — oltre all’origini bestiali, che qui si ragionano, di tutte le nazioni gentili. E se pretende d’averlo gli ebrei a’ gentili insegnato appresso, gli riesce impossibile a poterlo pruovare, per la confessione magnanima di Giuseffo assistita dalla grave riflessione di Lattanzio sopra arrecata, e dalla nimistá che pur sopra osservammo aver avuto gli ebrei con le genti, la qual ancor ora conservano dissipati tra tutte le nazioni.

[397] E finalmente Pufendorfio l’incomincia con un’ipotesi epicurea, che pone l’uomo gittato in questo mondo senza niun aiuto e cura di Dio. Di che essendone stato ripreso, quantunque con una particolar dissertazione se ne giustifichi, però senza il primo principio della provvedenza non può affatto aprir bocca a ragionare di diritto, come l’udimmo da Cicerone dirsi ad Attico, il qual era epicureo, dove gli ragionò Delle leggi.

[398] Per tutto ciò, noi da questo primo antichissimo punto di tutti i tempi incominciamo a ragionare di diritto, detto da’ latini «ius», contratto dall’antico «Ious»: dal momento che nacque in mente a’ principi delle genti l’idea di Giove. Nello che a maraviglia co’ latini convengono i greci, i quali per bella nostra ventura osserva Platone nel Cratilo che dapprima il gius dissero διαΐον, che tanto suona quanto «discurrens» o «permanans» (la qual origine filosofica vi è intrusa dallo stesso

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Platone, il quale con mitologia erudita prende Giove per l’etere che penetra e scorre tutto; ma l’origine istorica viene da esso Giove, che pur da’ greci fu detto Διός, onde vennero a’ latini «sub dio» egualmente e «sub Iove» per dir «a ciel aperto»), e che poi per leggiadria di favella avessero profferito δίκαιον. Laonde incominciamo a ragionare del diritto, che prima nacque divino, con la propietá con cui ne parlò la divinazione o sia scienza degli auspíci di Giove, che furono le cose divine con le quali le genti regolavano tutte le cose umane, ch’entrambe compiono alla giurisprudenza il di lei adeguato subbietto. E sí incominciamo a ragionare del diritto naturale dall’idea di essa provvedenza divina, con la quale nacque congenita l’idea di diritto; il quale, come dianzi se n’è meditata la guisa, si cominciò naturalmente ad osservare da’ principi delle genti propiamente dette e della spezie piú antica, le quali si appellarono «genti maggiori», delle quali Giove fu il primo dio.

vii

[399] Il settimo ed ultimo de’ principali aspetti c’ha questa Scienza è di princípi della storia universale. La quale da questo primo momento di tutte le cose umane della gentilitá incomincia con la prima etá del mondo che dicevano gli egizi scorsa loro dinanzi, che fu l’etá degli dèi, nella quale comincia il Cielo a regnar in terra e far agli uomini de’ grandi benefizi, come si ha nelle Degnitá, comincia l’etá dell’oro de’ greci, nella quale gli dèi praticavano in terra con gli uomini, come qui abbiam veduto aver incominciato a fare Giove. Cosí i greci poeti, da questa tal prima etá del mondo [incominciando], ci hanno nelle loro favole fedelmente narrato l’universale diluvio e i giganti essere stati in natura, e sí ci hanno con veritá narrato i princípi della storia universale profana. Ma, non potendo poscia i vegnenti entrare nelle fantasie de’ primi uomini che fondarono il gentilesimo, per le quali sembrava loro di vedere gli dèi; — e non intesasi la propietá di tal voce «atterrare»,

159 ―
ch’era «mandar sotterra»; — e perché i giganti, i quali vivevano nascosti nelle grotte sotto de’ monti, per le tradizioni appresso di genti sommamente credule furono alterati all’eccesso ed appresi ch’imponessero Olimpo, Pelio ed Ossa, gli uni sopra degli altri, per cacciare gli dèi (che i primi giganti empi non giá combatterono, ma non avevano appreso finché Giove non fulminasse) dal cielo, innalzato appresso dalle menti greche vieppiú spiegate ad una sformata altezza, il quale a’ primi giganti fu la cima de’ monti, come appresso dimostreremo (la qual favola dovette fingersi dopo Omero e da altri esser stata nell’Odissea appiccata ad Omero, al cui tempo bastava che crollasse l’Olimpo solo per farne cadere gli dèi, che Omero nell’Iliade sempre narra allogati sulla cima del monte Olimpo): — per tutte queste cagioni ha finora mancato il principio e, per avere finor mancato la cronologia ragionata della storia poetica, ha mancato ancora la perpetuitá della storia universale profana.
161 ―

[SEZIONE SECONDA] [Logica poetica]


[Capitolo Primo]
Della logica poetica

[400] Or — perché quella ch’è metafisica in quanto contempla le cose per tutti i generi dell’essere, la stessa è logica in quanto considera le cose per tutti i generi di significarle — siccome la poesia è stata sopra da noi considerata per una metafisica poetica, per la quale i poeti teologi immaginarono i corpi essere per lo piú divine sostanze, cosí la stessa poesia or si considera come logica poetica, per la qual le significa.

[401] «Logica» vien detta dalla voce λόγος, che prima e propiamente significò «favola», che si trasportò in italiano «favella» — e la favola da’ greci si disse anco μῦθος, onde vien a’ latini «mutus», — la quale ne’ tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d’oro dice Strabone essere stata innanzi della vocale o sia dell’articolata: onde λόγος significa e «idea» e «parola». E convenevolmente fu cosí dalla divina provvedenza ordinato in tali tempi religiosi, per quella eterna propietá: ch’alle religioni piú importa meditarsi che favellarne; onde tal prima lingua ne’ primi tempi mutoli delle nazioni, come si è detto nelle Degnitá, dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee. Per lo che λόγος o «verbum» significò anche «fatto» agli ebrei, ed a’ greci significò anche «cosa», come osserva Tommaso Gatachero,

162 ―
De instrumenti stylo. E pur μῦθος ci giunse diffinita «vera narratio», o sia «parlar vero», che fu il «parlar naturale» che Platone prima e dappoi Giamblico dissero essersi parlato una volta nel mondo. I quali, come vedemmo nelle Degnitá, perché ’l dissero indovinando, avvenne che Platone e spese vana fatiga d’andarlo truovando nel Cratilo, e ne fu attaccato da Aristotile e da Galeno. Perché cotal primo parlare, che fu de’ poeti teologi, non fu un parlare secondo la natura di esse cose (quale dovett’esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedette la divina onomathesia ovvero imposizione de’ nomi alle cose secondo la natura di ciascheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine.

[402] Cosí [i poeti teologi] Giove, Cibele o Berecintia, Nettunno, per cagione d’esempli, intesero e, dapprima mutoli additando, spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch’essi immaginarono animate divinitá, e perciò con veritá di sensi gli credevano dèi. Con le quali tre divinitá, per ciò ch’abbiam sopra detto de’ caratteri poetici, spiegavano tutte le cose appartenenti al cielo, alla terra, al mare; e cosí con l’altre significavano le spezie dell’altre cose a ciascheduna divinitá appartenenti, come tutti i fiori a Flora, tutte le frutte a Pomona. Lo che noi pur tuttavia facciamo, al contrario, delle cose dello spirito; come delle facultá della mente umana, delle passioni, delle virtú, de’ vizi, delle scienze, dell’arti, delle quali formiamo idee per lo piú di donne, ed a quelle riduciamo tutte le cagioni, tutte le propietá e ’nfine tutti gli effetti ch’a ciascuna appartengono: perché, ove vogliamo trarre fuori dall’intendimento cose spirituali, dobbiamo essere soccorsi dalla fantasia per poterle spiegare e, come pittori, fingerne umane immagini. Ma essi poeti teologi, non potendo far uso dell’intendimento, con uno piú sublime lavoro tutto contrario, diedero sensi e passioni, come testé si è veduto, a’ corpi, e vastissimi corpi quanti sono cielo, terra, mare; che poi, impicciolendosi cosí vaste fantasie e invigorendo l’astrazioni, furono presi per piccioli loro segni. E la metonimia spose in comparsa di dottrina l’ignoranza di queste

163 ―
finor seppolte origini di cose umane: e Giove ne divenne sí picciolo e sí leggieri ch’è portato a volo da un’aquila; corre Nettunno sopra un dilicato cocchio per mare; e Cibele è assisa sopra un lione.

[403] Quindi le mitologie devon essere state i propi parlari delle favole (ché tanto suona tal voce); talché, essendo le favole, come sopra si è dimostrato, generi fantastici, le mitologie devon essere state le loro propie allegorie. Il qual nome, come si è nelle Degnitá osservato, ci venne diffinito «diversiloquium», in quanto, con identitá non di proporzione ma, per dirla alla scolastica, di predicabilitá, esse significano le diverse spezie o i diversi individui compresi sotto essi generi. Tanto che devon avere una significazione univoca, comprendente una ragion comune alle loro spezie o individui (come d’Achille, un’idea di valore comune a tutti i forti; come d’Ulisse, un’idea di prudenza comune a tutti i saggi); talché si fatte allegorie debbon essere l’etimologie de’ parlari poetici, che ne dassero le loro origini tutte univoche, come quelle de’ parlari volgari lo sono piú spesso analoghe. E ce ne giunse pure la diffinizione d’essa voce «etimologia», che suona lo stesso che «veriloquium», siccome essa favola ci fu diffinita «vera narratio».

164 ―

[Capitolo Secondo]
Corollari d’intorno a’ tropi, mostri e trasformazioni
poetiche
i

[404] Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la piú luminosa e, perché piú luminosa, piú necessaria e piú spessa è la metafora, ch’allora è vieppiú lodata quando alle cose insensate ella dá senso e passione, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sí ne fecero le favole. Talché ogni metafora sí fatta vien ad essere una picciola favoletta. Quindi se ne dá questa critica d’intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzar le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch’in ogni lingua le voci ch’abbisognano all’arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini.

[405] Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni. Come capo, per cima o principio; fronte, spalle, avanti e dietro; occhi delle viti e quelli che si dicono lumi ingredienti delle case; bocca, ogni apertura; labro, orlo di vaso o d’altro; dente d’aratro, di rastello, di serra, di pettine; barbe, le radici; lingua di mare; fauce o foce di fiumi o monti; collo di terra; braccio di fiume; mano, per picciol numero; seno di mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; costiera di mare; cuore,

165 ―
per lo mezzo (ch’«umbilicus» dicesi da’ latini); gamba o piede di paesi, e piede per fine; pianta per base o sia fondamento; carne, ossa di frutte; vena d’acqua, pietra, miniera; sangue della vite, il vino; viscere della terra; ride il cielo, il mare; fischia il vento; mormora l’onda; geme un corpo sotto un gran peso; e i contadini del Lazio dicevano «sitire agros», «laborare fructus», «luxuriari segetes»; e i nostri contadini «andar in amore le piante», «andar in pazzia le viti», «lagrimare gli orni»; ed altre che si possono raccogliere innumerabili in tutte le lingue. Lo che tutto va di séguito a quella degnitá: che «l’uomo ignorante si fa regola dell’universo», siccome negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come la metafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit omnia», cosí questa metafisica fantasticata dimostra che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con piú di veritá detto questo che quello, perché l’uomo con l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose e, col transformarvisi, lo diventa.

ii

[406] Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovettero i primi poeti dar i nomi alle cose dall’idee piú particolari e sensibili; che sono i due fonti, questo della metonimia e quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autori per l’opere nacque perché gli autori erano piú nominati che l’opere. Quella de’ subbietti per le loro forme ed aggiunti nacque perché, come nelle Degnitá abbiamo detto, non sapevano astrarre le forme e la qualitá da’ subbietti. Certamente quella delle cagioni per gli di lor effetti sono tante picciole favole, con le quali le cagioni s’immaginarono esser donne vestite de’ lor effetti, come sono la Povertá brutta, la Vecchiezza trista, la Morte pallida.

166 ―

iii

[407] La sineddoche passò in trasporto poi con l’alzarsi i particolari agli universali o comporsi le parti con le altre con le quali facessero i lor intieri. Cosí «mortali» furono prima propiamente detti i soli uomini, che soli dovettero farsi sentire mortali. Il «capo», per l’«uomo» o per la «persona», ch’è tanto frequente in volgar latino, perché dentro le boscaglie vedevano di lontano il solo capo dell’uomo: la qual voce «uomo» è voce astratta, che comprende, come in un genere filosofico, il corpo e tutte le parti del corpo, la mente e tutte le facultá della mente, l’animo e tutti gli abiti dell’animo. Cosí dovette avvenire che «tignum» e «culmen» significarono con tutta propietá «travicello» e «paglia» nel tempo delle pagliare; poi, col lustro delle cittá, significarono tutta la materia e ’l compimento degli edifici. Cosí «tectum» per l’intiera «casa», perché a’ primi tempi bastava per casa un coverto. Cosí «puppis» per la «nave», che, alta, è la prima a vedersi da’ terrazzani; come a’ tempi barbari ritornati si disse una «vela» per una «nave». Cosí «mucro» per la «spada», perché questa è voce astratta e come in un genere comprende pomo, elsa, taglio e punta; ed essi sentirono la punta, che recava loro spavento. Cosí la materia per lo tutto formato, come il «ferro» per la «spada», perché non sapevano astrarre le forme dalla materia. Quel nastro di sineddoche e di metonimia:

Tertia messis erat

nacque senza dubbio da necessitá di natura, perché dovette correre assai piú di mille anni per nascere tralle nazioni questo vocabolo astronomico «anno»; siccome nel contado fiorentino tuttavia dicono «abbiamo tante volte mietuto» per dire «tanti anni». E quel gruppo di due sineddochi e d’una metonimia:
Post aliquot, mea regna videns, mirabor, aristas

167 ―
di troppo accusa l’infelicitá de’ primi tempi villerecci a spiegarsi, ne’ quali dicevano «tante spighe», che sono particolari piú delle messi, per dire «tanti anni», e, perch’era troppo infelice l’espressione, i gramatici v’hanno supposto troppo di arte.

iv

[408] L’ironia certamente non poté cominciare che da’ tempi della riflessione, perch’ella è formata dal falso in forza d’una riflessione che prende maschera di veritá. E qui esce un gran principio di cose umane, che conferma l’origine della poesia qui scoverta: che i primi uomini della gentilitá essendo stati semplicissimi quanto i fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole non poterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero necessariamente essere, quali sopra ci vennero diffinite, vere narrazioni.

v

[409] Per tutto ciò si è dimostro che tutti i tropi (che tutti si riducono a questi quattro), i quali si sono finora creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi [di] tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor origine aver avuto tutta la loro natia propietá. Ma poi che, col piú spiegarsi la mente umana, si ritruovarono le voci che significano forme astratte, o generi comprendenti le loro spezie, o componenti le parti co’ loro intieri, tai parlari delle prime nazioni sono divenuti trasporti. E quindi s’incomincian a convellere que’ due comuni errori de’ gramatici: che ’l parlare de’ prosatori è propio, impropio quel de’ poeti; e che prima fu il parlare da prosa, dopoi del verso.

vi

[410] I mostri e le trasformazioni poetiche provennero per necessitá di tal prima natura umana, qual abbiamo dimostrato nelle Degnitá che non potevan astrarre le forme o le propietá da’

168 ―
subbietti; onde con la lor logica dovettero comporre i subbietti per comporre esse forme, o distrugger un subbietto per dividere la di lui forma primiera dalla forma contraria introduttavi. Tal composizione d’idee fece i mostri poetici. Come in ragion romana, all’osservare di Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea, si dicon «mostri» i parti nati da meretrice, perc’hanno natura d’uomini, insieme, e propietá di bestie d’esser nati da’ vagabondi o sieno incerti concubiti; i quali truoveremo esser i mostri i quali la legge delle XII Tavole (nati da donna onesta senza la solennitá delle nozze) comandava che si gittassero in Tevere.

vii

[411] La distinzione dell’idee fece la metamorfosi. Come, fralle altre conservateci dalla giurisprudenza antica, anco i romani nelle loro frasi eroiche ne lasciarono quella «fundum fieri» per «autorem fieri», perché, come il fondo sostiene il podere o il suolo e ciò ch’è quivi seminato o piantato o edificato, cosí l’appruovatore sostiene l’atto, il quale senza la di lui appruovagione rovinerebbe, perché l’appruovatore, da semovente ch’egli è, prende forma contraria di cosa stabile.

169 ―

[Capitolo Terzo]
Corollari d’intorno al parlare per caratteri poetici
delle prime nazioni

[412] La favella poetica, com’abbiamo in forza di questa logica poetica meditato, scorse per cosí lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso; per quello che Giamblico ci disse sopra nelle Degnitá: che gli egizi tutti i loro ritruovati utili alla vita umana riferirono a Mercurio Trimegisto; il cui detto confermammo con quell’altra degnitá: ch’«i fanciulli con l’idee e nomi d’uomini, femmine, cose, c’hanno la prima volta vedute, apprendono ed appellano tutti gli uomini, femmine, cose appresso, c’hanno con le prime alcuna simiglianza o rapporto», e che questo era il naturale gran fonte de’ caratteri poetici, co’ quali naturalmente pensarono e parlarono i primi popoli. Alla qual natura di cose umane se avesse Giamblico riflettuto e vi avesse combinato tal costume ch’egli stesso riferisce degli antichi egizi, dicemmo nelle Degnitá che certamente esso ne’ misteri della sapienza volgare degli egizi non arebbe a forza intruso i sublimi misteri della sua sapienza platonica.

[413] Ora, per tale natura de’ fanciulli e per tal costume de’ primi egizi, diciamo che la favella poetica, in forza d’essi caratteri poetici, ne può dare molte ed importanti discoverte d’intorno all’antichitá.

i

[414] Che Solone dovett’esser alcuno uomo sappiente di sapienza volgare, il quale fusse capoparte di plebe ne’ primi tempi ch’Atene era repubblica aristocratica. Lo che la storia greca pur conservò ove narra che dapprima Atene fu occupata dagli

170 ―
ottimati — ch’è quello che noi in questi libri dimostreremo universalmente di tutte le repubbliche eroiche, nelle quali gli eroi, ovvero nobili, per una certa loro natura creduta di divina origine, per la quale dicevano essere loro propi gli dèi, e ’n conseguenza propi loro gli auspíci degli dèi, in forza de’ quali chiudevano dentro i lor ordini tutti i diritti pubblici e privati dell’eroiche cittá, ed a’ plebei, che credevano essere d’origine bestiale, e ’n conseguenza esser uomini senza dèi e perciò senza auspíci, concedevano i soli usi della natural libertá (ch’è un gran principio di cose che si ragioneranno per quasi tutta quest’opera) — e che tal Solone avesse ammonito i plebei ch’essi riflettessero a se medesimi e riconoscessero essere d’ugual natura umana co’ nobili, e ’n conseguenza che dovevan esser con quelli uguagliati in civil diritto. Se non, pure, tal Solone furon essi plebei ateniesi, per questo aspetto considerati.

[415] Perché anco i romani antichi arebbono dovuto aver un tal Solone fra loro; tra’ quali i plebei, nelle contese eroiche co’ nobili, come apertamente lo ci narra la storia romana antica, dicevano: i padri, de’ quali Romolo aveva composto il senato (da’ quali essi patrizi erano provenuti), «non esse caelo demissos», cioè che non avevano cotale divina origine ch’essi vantavano e che Giove era a tutti eguale. Ch’è la storia civile di quel motto

... Iupiter omnibus aequus,

dove poi intrusero i dotti quel placito: che le menti son tutte eguali e che prendono diversitá dalla diversa organizzazione de’ corpi e dalla diversa educazione civile. Con la quale riflessione i plebei romani incominciaron ad adeguare co’ patrizi la civil libertá, fino che affatto cangiarono la romana repubblica da aristocratica in popolare, come l’abbiamo divisato per ipotesi nelle Annotazioni alla Tavola cronologica, ove ragionammo in idea della legge Publilia, e ’l faremo vedere di fatto, nonché della romana, essere ciò avvenuto di tutte l’altre antiche repubbliche, e con ragioni ed autoritá dimostreremo che universalmente,

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da tal riflessione di Solone principiando, le plebi de’ popoli vi cangiarono le repubbliche da aristocratiche in popolari.

[416] Quindi Solone fu fatto autore di quel celebre motto «Nosce te ipsum», il quale, per la grande civile utilitá ch’aveva arrecato al popolo ateniese, fu iscritto per tutti i luoghi pubblici di quella cittá; e poi gli addottrinati il vollero detto per un grande avviso, quanto infatti lo è, d’intorno alle metafisiche ed alle morali cose, e funne tenuto Solone per sappiente di sapienza riposta e fatto principe de’ sette saggi di Grecia. In cotal guisa, perché da tal riflessione incominciarono in Atene tutti gli ordini e tutte le leggi che formano una repubblica democratica, perciò, per questa maniera di pensare per caratteri poetici de’ primi popoli, tali ordini e tali leggi, come dagli egizi tutti i ritruovati utili alla vita umana civile a Mercurio Trimegisto, furon tutti dagli ateniesi richiamati a Solone.

ii

[417] Cosí dovetter a Romolo esser attribuite tutte le leggi d’intorno agli ordini.

iii

[418] A Numa, tante d’intorno alle cose sagre ed alle divine cerimonie, nelle quali poi comparve ne’ tempi suoi piú pomposi la romana religione.

iv

[419] A Tullo Ostilio, tutte le leggi ed ordini della militar disciplina.

v

[420] A Servio Tullio, il censo, ch’è il fondamento delle repubbliche democratiche, ed altre leggi in gran numero d’intorno alla popolar libertá, talché da Tacito vien acclamato «praecipuus sanctor legum». Perché, come dimostreremo, il censo

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di Servio Tullio fu pianta delle repubbliche aristocratiche, col qual i plebei riportarono da’ nobili il dominio bonitario de’ campi, per cagion del quale si criarono poi i tribuni della plebe per difender loro questa parte di natural libertá, i quali poi, tratto tratto, fecero loro conseguire tutta la libertá civile. E cosí il censo di Servio Tullio, perché indi ne incominciarono l’occasioni e le mosse, diventò censo pianta della romana repubblica popolare, come si è ragionato nell’annotazione alla legge publilia per via d’ipotesi, e dentro si dimostrerá essere stato vero di fatto.

vi

[421] A Tarquinio Prisco, tutte l’insegne e divise, con le quali poscia a’ tempi piú luminosi di Roma risplendette la maestá dell’imperio romano.

vii

[422] Cosí dovettero affiggersi alle XII Tavole moltissime leggi che dentro dimostreremo essere state comandate ne’ tempi appresso; e (come si è appieno dimostrato ne’ Princípi del diritto universale), perché la legge del dominio quiritario da’ nobili accomunato a’ plebei fu la prima legge scritta in pubblica tavola (per la quale unicamente furono criati i decemviri), per cotal aspetto di popolar libertá tutte le leggi che uguagliarono la libertá e si scrissero dappoi in pubbliche tavole furono rapportate a’ decemviri. Siane pur qui una dimostrazione il lusso greco de’ funerali, che i decemviri non dovettero insegnarlo a’ romani col proibirlo, ma dopoché i romani l’avevano ricevuto; lo che non poté avvenire se non dopo le guerre co’ tarantini e con Pirro, nelle quali s’incominciarono a conoscer co’ greci. E quindi è che Cicerone osserva tal legge portata in latino con le stesse parole con le quali era stata conceputa in Atene.

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viii

[423] Cosí Dragone, autore delle leggi scritte col sangue nel tempo che la greca storia, come sopra si è detto, ci narra ch’Atene era occupata dagli ottimati. Che fu, come vedremo appresso, nel tempo dell’aristocrazie eroiche, nel quale la stessa greca storia racconta che gli Eraclidi erano sparsi per tutta la Grecia, anco nell’Attica, come sopra il proponemmo nella Tavola cronologica, i quali finalmente restarono nel Peloponneso e fermarono il loro regno in Isparta, la quale truoveremo essere stata certamente repubblica aristocratica. Cotal Dragone dovett’esser una di quelle serpi della Gorgone inchiovata allo scudo di Perseo, che si truoverá significare l’imperio delle leggi; il quale scudo con le spaventose pene insassiva coloro che ’l riguardavano, siccome nella storia sagra, perché tali leggi erano essi esemplari castighi, si dicono «leges sanguinis». E di tale scudo armossi Minerva, la quale fu detta Ἀθηνᾶ,/ come sará piú appieno spiegato appresso; e appo i chinesi, i quali tuttavia scrivono per geroglifici (che dee far maraviglia una tal maniera poetica di pensare e spiegarsi tra queste due e per tempi e per luoghi lontanissime nazioni), un dragone è l’insegna dell’imperio civile. Perché di tal Dragone non si ha altra cosa da tutta la greca storia.

ix

[424] Questa istessa discoverta de’ caratteri poetici ci conferma Esopo, ben posto innanzi a’ sette saggi di Grecia, come il promettemmo nelle Note alla Tavola cronologica di farlo in questo luogo vedere. Perché tal filologica veritá ci è confermata da questa storia d’umane idee: ch’i sette saggi furon ammirati dall’incominciar essi a dare precetti di morale o di civil dottrina per massime, come quel celebre di Solone (il quale ne fu il principe): «Nosce te ipsum», che sopra abbiam veduto essere prima stato un precetto di dottrina civile, poi trasportato

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alla metafisica e alla morale. Ma Esopo aveva innanzi dati tali avvisi per somiglianze, delle quali piú innanzi i poeti si eran serviti per ispiegarsi. E l’ordine dell’umane idee è d’osservare le cose simili, prima per ispiegarsi, dappoi per pruovare; e ciò, prima con l’esemplo che si contenta d’una sola, finalmente con l’induzione che ne ha bisogno di piú. Onde Socrate, padre di tutte le sètte de’ filosofi, introdusse la dialettica con l’induzione, che poi compiè Aristotile col sillogismo, che non regge senza un universale. Ma alle menti corte basta arrecarsi un luogo dal somigliante per essere persuase; come con una favola, alla fatta di quelle ch’aveva truovato Esopo, il buono Menenio Agrippa ridusse la plebe romana sollevata all’ubbidienza.

[425] Ch’Esopo sia stato un carattere poetico de’ soci ovvero famoli degli eroi, con uno spirito d’indovino lo ci discuopre il ben costumato Fedro in un prologo delle sue Favole:

Nunc fabularum cur sit inventum genus,
Brevi docebo. Servitus obnoxia,
Quia, quae volebat, non audebat dicere,
Affectus proprios in fabellas transtulit.
Aesopi illius semita feci viam
,

come la favola della societá lionina evidentemente lo ci conferma. Perché i plebei erano detti «soci» dell’eroiche cittá, come nelle Degnitá si è avvisato, e venivano a parte delle fatighe e pericoli nelle guerre, ma non delle prede e delle conquiste. Per ciò Esopo fu detto «servo», perché i plebei, come appresso sará dimostro, erano famoli degli eroi. E ci fu narrato brutto, perché la bellezza civile era stimata dal nascere da’ matrimoni solenni, che contraevano i soli eroi, com’anco appresso si mostrerá. Appunto come fu egli brutto Tersite, che dev’essere carattere de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana, ed è da Ulisse battuto con lo scettro di Agamennone; come gli antichi plebei romani a spalle nude erano battuti da’ nobili con le verghe, «regium in morem», al narrar

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di Sallustio appo sant’Agostino nella Cittá di Dio, finché la legge porzia allontanò le verghe dalle spalle romane.

[426] Tali avvisi, adunque, utili al viver civile libero, dovetter esser sensi che nudrivano le plebi dell’eroiche cittá, dettati dalla ragion naturale. De’ quali plebei per tal aspetto ne fu fatto carattere poetico Esopo, al quale poi furon attaccate le favole d’intorno alla morale filosofia; e ne fu fatto Esopo il primo morale filosofo nella stessa guisa che Solone fu fatto sappiente, ch’ordinò con le leggi la repubblica libera ateniese. E perch’Esopo diede tali avvisi per favole, fu fatto prevenire a Solone che gli diede per massime. Tali favole si dovettero prima concepire in versi eroici, come poi v’ha tradizione che furono concepute in versi giambici (co’ quali noi qui appresso truoveremo aver parlato le genti greche), in mezzo il verso eroico e la prosa, nella quale finalmente scritte ci sono giunte.

x

[427] In cotal guisa a’ primi autori della sapienza volgare furono rapportati i ritruovati appresso della sapienza riposta; e i Zoroasti in Oriente, i Trimegisti in Egitto, gli Orfei in Grecia, i Pittagori nell’Italia, di legislatori prima, furono poi finalmente creduti filosofi, come Confucio oggi lo è nella China. Perché certamente i pittagorici nella Magna Grecia, come dentro si mostrerá, si dissero in significato di «nobili», che, avendo attentato di ridurre tutte le loro repubbliche da popolari in aristocratiche, tutti furono spenti. E ’l Carme aureo di Pittagora sopra si è dimostrato esser un’impostura, come gli Oracoli di Zoroaste, il Pimandro del Trimegisto, gli Orfici o i versi d’Orfeo; né di Pittagora ad essi antichi venne scritto alcuno libro d’intorno a filosofia, e Filolao fu il primo pittagorico il qual ne scrisse, all’osservare dello Scheffero, De philosophia italica.

176 ―

[Capitolo Quarto]
Corollari d’intorno all’origini delle lingue e delle lettere; e, quivi dentro, l’origini de’ geroglifici, delle leggi, de’ nomi, dell’insegne gentilizie, delle medaglie, delle monete; e quindi della prima lingua e letteratura del diritto natural delle genti.

[428] Ora dalla teologia de’ poeti o sia dalla metafisica poetica, per mezzo della indi nata poetica logica, andiamo a scuoprire l’origine delle lingue e delle lettere. D’intorno alle quali sono tante l’oppenioni quanti sono i dotti che n’hanno scritto. Talché Gerardo Giovanni Vossio nella Gramatica dice: «De literarum inventione multi multa congerunt, et fuse et confuse, ut ab iis incertus magis abeas quam veneras dudum». Ed Ermanno Ugone, De origine scribendi, osserva: «Nulla alia res est, in qua plures magisque pugnantes sententiae reperiantur, atque haec tractatio de literarum et scriptionis origine. Quantae sententiarum pugnae! Quid credas? quid non credas?». Onde Bernardo da Melinckrot, De arte typographica, seguíto in ciò da Ingewaldo Elingio, De historia linguae graecae, per l’incomprendevolitá della guisa, disse essere ritruovato divino.

[429] Ma la difficultá della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò: ch’essi stimarono cose separate l’origini delle lettere dall’origini delle lingue, le quali erano per natura congionte. E ’l dovevan pur avvertire dalle voci «gramatica» e «caratteri». Dalla prima, ché «gramatica» si diffinisce «arte di parlare» e γράμματα sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi «arte di scrivere», qual Aristotile la diffiní e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si dimostrerá che tutte le nazioni prima parlarono scrivendo, come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi «caratteri» voglion dire «idee», «forme», «modelli», e certamente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoni

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articolati, come Giuseffo vigorosamente sostiene, contro Appione greco gramatico, che a’ tempi d’Omero non si erano ancor truovate le lettere dette «volgari». Oltracciò, se tali lettere fussero forme de’ suoni articolati e non segni a placito, dovrebbero appo tutte le nazioni esser uniformi, com’essi suoni articolati son uniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo il pensare delle prime nazioni per caratteri poetici né ’l parlare per favole né lo scrivere per geroglifici; che dovevan esser i princípi, che di lor natura han da esser certissimi, cosí della filosofia per l’umane idee, come della filologia per l’umane voci.

[430] In sí fatto ragionamento dovendo noi qui entrare, daremo un picciol saggio delle tante oppenioni che se ne sono avute, o incerte o leggieri o sconce o boriose o ridevoli, le quali, perocché sono tante e tali, si debbono trallasciare di riferirsi. Il saggio sia questo: che, perocché a’ tempi barbari ritornati la Scandinavia, ovvero Scanzia, per la boria delle nazioni fu detta «vagina gentium» e fu creduta la madre di tutte l’altre del mondo, per la boria de’ dotti furono d’oppenione Giovanni ed Olao Magni ch’i loro goti avessero conservate le lettere fin dal principio del mondo, divinamente ritruovate da Adamo; del qual sogno si risero tutti i dotti. Ma non pertanto si ristò di seguirgli e d’avanzargli Giovanni Goropio Becano, che la sua lingua cimbrica, la quale non molto si discosta dalla sassonica, fa egli venire dal paradiso terrestre e che sia la madre di tutte l’altre; della qual oppenione fecero le favole Giuseppe Giusto Scaligero, Giovanni Camerario, Cristoforo Brecmanno e Martino Scoockio. E pure tal boria piú gonfiò e ruppe in quella d’Olao Rudbechio nella sua opera intitolata Atlantica, che vuole le lettere greche esser nate dalle rune, e che queste sien le fenicie rivolte, le quali Cadmo rendette nell’ordine e nel suono simili all’ebraiche, e finalmente i greci l’avessero dirizzate e tornate col regolo e col compasso; e, perché il ritruovatore tra essi è detto Mercurουman, vuole che ’l Mercurio che ritruovò le lettere agli egizi sia stato goto. Cotanta licenza d’oppinare d’intorno all’origini delle lettere deve far accorto il

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leggitore a ricevere queste cose che noi ne diremo, non solo con indifferenza di vedere che arrechino in mezzo di nuovo, ma con attenzione di meditarvi e di prenderle, quali debbon essere, per princípi di tutto l’umano e divino sapere della gentilitá.

[431] Perché da questi princípi: di concepir i primi uomini della gentilitá l’idee delle cose per caratteri fantastici di sostanze animate, e, mutoli, di spiegarsi con atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee (quanto, per esemplo, lo hanno l’atto di tre volte falciare o tre spighe per significare «tre anni»), e sí spiegarsi con lingua che naturalmente significasse, che Platone e Giamblico dicevano essersi una volta parlata nel mondo (che deve essere stata l’antichissima lingua atlantica, la quale eruditi vogliono che spiegasse l’idee per la natura delle cose, o sia per le loro naturali propietá): da questi princípi, diciamo, tutti i filosofi e tutti i filologi dovevan incominciar a trattare dell’origini delle lingue e delle lettere. Delle quali due cose, per natura, com’abbiam detto, congionte, han trattato divisamente, onde loro è riuscita tanto difficile la ricerca dell’origini delle lettere, ch’involgeva egual difficultá quanto quella delle lingue, delle quali essi o nulla o assai poco han curato.

[432] Sul cominciarne adunque il ragionamento, poniamo per primo principio quella filologica degnitá: che gli egizi narravano, per tutta la scorsa del loro mondo innanzi, essersi parlate tre lingue, corrispondenti nel numero e nell’ordine alle tre etá scorse pur innanzi nel loro mondo: degli dèi, degli eroi e degli uomini; e dicevano la prima lingua essere stata geroglifica o sia sagra ovvero divina; la seconda, simbolica o per segni o sia per imprese eroiche; la terza pistolare per comunicare i lontani tra loro i presenti bisogni della lor vita. Delle quali tre lingue v’hanno due luoghi d’oro appo Omero nell’Iliade, per gli quali apertamente si veggono i greci convenir in ciò con gli egizi. De’ quali uno è dove narra che Nestore visse tre vite d’uomini diversilingui: talché Nestore dee essere stato un carattere eroico della cronologia stabilita per le tre lingue corrispondenti alle tre etá degli egizi; onde tanto dovette significare

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quel motto: «vivere gli anni di Nestore» quanto «vivere gli anni del mondo». L’altro è dove Enea racconta ad Achille che uomini diversilingui cominciaron ad abitar Ilio, dopoché Troia fu portata a’ lidi del mare e Pergamo ne divenne la ròcca. Con tal primo principio congiugniamo quella tradizione, pur degli egizi, che ’l loro Theut o Mercurio ritruovò e le leggi e le lettere.

[433] A queste veritá aggruppiamo quell’altre: ch’appo i greci i «nomi» significarono lo stesso che «caratteri», da’ quali i padri della Chiesa presero con promiscuo uso quelle due espressioni, ove ne ragionano de divinis characteribus e de divinis nominibus. E «nomen» e «definitio» significano la stessa cosa, ove in rettorica si dice «quaestio nominis», con la qual si cerca la diffinizione del fatto; e la nomenclatura de’ morbi è in medicina quella parte che diffinisce la natura di essi. Appo i romani i «nomi» significarono prima e propiamente «case diramate in molte famiglie». E che i primi greci avessero anch’essi avuto i «nomi» in sí fatto significato, il dimostrano i patronimici, che significano «nomi di padri», de’ quali tanto spesso fanno uso i poeti, e piú di tutti il primo di tutti Omero (appunto come i patrizi romani da un tribuno della plebe, appo Livio, son diffiniti «qui possunt nomine ciere patrem», «che possano usare il casato de’ loro padri»), i quali patronimici poi si sperderono nella libertá popolare di tutta la restante Grecia, e dagli Eraclidi si serbarono in Isparta, repubblica aristocratica. E in ragion romana «nomen» significa «diritto». Con somigliante suono appo i greci νόμος significa «legge» e da νόμος viene νόμισμα, come avverte Aristotile, che vuol dire «moneta»; ed etimologi vogliono che da νόμος/ venga detto a’ latini «numus». Appo i francesi «loy» significa «legge» ed «aloy» vuol dire «moneta»; e da’ barbari ritornati fu detto «canone» cosí la legge ecclesiastica come ciò che dall’enfiteuticario si paga al padrone del fondo datogli in enfiteusi. Per la quale uniformitá di pensare i latini forse dissero «ius» il diritto e ’l grasso delle vittime ch’era dovuto a Giove, che dapprima si disse Ious, donde poi derivarono

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i genitivi «Iovis» e «iuris» (lo che si è sopra accennato); come, appresso gli ebrei, delle tre parti che facevano dell’ostia pacifica, il grasso veniva in quella dovuta a Dio, che bruciavasi sull’altare. I latini dissero «praedia», quali dovettero dirsi prima i rustici che gli urbani, perocché, come appresso farem vedere, le prime terre colte furono le prime prede del mondo; onde il primo domare fu di terre sí fatte, le quali perciò in antica ragion romana si dissero «manucaptae» (dalle quali restò detto «manceps» l’obbligato all’erario in roba stabile); e nelle romane leggi restaron dette «iura praediorum» le servitú che si dicon «reali», che si costituiscono in robe stabili. E tali terre dette «manucaptae» dovettero dapprima essere e dirsi «mancipia», di che certamente dee intendersi la legge delle XII Tavole nel capo «Qui nexum faciet mancipiumque», cioè «chi fará la consegna del nodo, e con quella consegnerá il podere»; onde, con la stessa mente degli antichi latini, gl’italiani appellarono «poderi», perché acquistati con forza. E si convince da ciò che i barbari ritornati dissero «presas terrarum» i campi co’ loro termini; gli spagnuoli chiamano «prendas» l’imprese forti; gl’italiani appellano «imprese» l’armi gentilizie, e dicono «termini» in significazion di «parole» (che restò in dialettica scolastica), e l’armi gentilizie chiamano altresí «insegne», onde agli stessi viene il verbo «insegnare». Come Omero, al cui tempo non si erano ancor truovate le lettere dette «volgari», la lettera di Preto ad Euria contro Bellerofonte dice essere stata scritta «per σήματα», «per segni».

[434] Con queste cose tutte facciano il cumolo queste ultime tre incontrastate veritá: la prima, che, dimostrato le prime nazioni gentili tutte essere state mutole ne’ loro incominciamenti, dovettero spiegarsi per atti o corpi che avessero naturali rapporti alle loro idee; la seconda, che con segni dovettero assicurarsi de’ confini de’ loro poderi ed avere perpetue testimonianze de’ lor diritti; la terza, che tutte si sono truovate usare monete. Tutte queste veritá ne daranno qui le origini delle lingue e delle lettere e, quivi dentro, quelle de’ geroglifici, delle leggi,

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de’ nomi, dell’imprese gentilizie, delle medaglie, delle monete e della lingua e scrittura con la quale parlò e scrisse il primo diritto natural delle genti.

[435] E per istabilire di tutto ciò piú fermamente i princípi, è qui da convellersi quella falsa oppenione ch’i geroglifici furono ritruovati di filosofi per nascondervi dentro i loro misteri d’alta sapienza riposta, come han creduto degli egizi. Perché fu comune naturale necessitá di tutte le prime nazioni di parlare con geroglifici (di che sopra si è proposta una degnitá); come nell’Affrica l’abbiamo giá [veduto] degli egizi, a’ quali con Eliodoro, Delle cose dell’Etiopia, aggiugniamo gli etiopi, i quali si servirono per geroglifici degli strumenti di tutte l’arti fabbrili. Nell’Oriente lo stesso dovett’essere de’ caratteri magici de’ caldei. Nel settentrione dell’Asia abbiamo sopra veduto che Idantura, re degli sciti, ne’ tempi assai tardi (posta la loro sformata antichitá, nella quale avevano vinto essi egizi, che si vantavano essere gli antichissimi di tutte le nazioni), con cinque parole reali risponde a Dario il maggiore che gli aveva intimato la guerra; che furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d’aratro ed un arco da saettare. La ranocchia significava ch’esso era nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo l’está, le ranocchie, e sí esser figliuolo di quella terra. Il topo significava, esso, come topo, dov’era nato aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente. L’uccello significava aver ivi esso gli auspíci, cioè, come vedremo appresso, che non era ad altri soggetto ch’a Dio. L’aratro significava aver esso ridutte quelle terre a coltura, e sí averle dome e fatte sue con la forza. E finalmente l’arco da saettare significava ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi, da dover e poterla difendere. La qual spiegazione cosí naturale e necessaria si componga con le ridevoli ch’appresso san Cirillo lor dánno i consiglieri di Dario, e pruoverá ad evidenza generalmente che finora non si è saputo il propio e vero uso de’ geroglifici che celebrarono i primi popoli, col combinare le interpetrazioni de’ consiglieri di Dario date a’ geroglifici scitici con le lontane, raggirate e contorte c’han dato i dotti a’ geroglifici egizi. De’

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latini non ci lasciò la storia romana privi di qualche tradizione nella risposta eroica muta che Tarquinio Superbo manda al figliuolo in Gabi, col farsi vedere al messaggiero troncar capi di papaveri con la bacchetta che teneva tra mani; lo che è stato creduto fatto per superbia, ove bisognava tutta la confidenza. Nel settentrione d’Europa osserva Tacito, ove ne scrive i costumi, ch’i Germani antichi non sapevano «literarum secreta», cioè che non sapevano scriver i loro geroglifici; lo che dovette durare fin a’ tempi di Federico suevo, anzi fin a quelli di Ridolfo d’Austria, da che incominciarono a scriver diplomi in iscrittura volgar tedesca. Nel settentrione della Francia vi fu un parlar geroglifico, detto «rebus de Picardie», che dovett’essere, come nella Germania, un parlar con le cose, cioè co’ geroglifici d’Idantura. Fino nell’ultima Tule e nell’ultima di lei parte, in Iscozia, narra Ettore Boezio nella Storia della Scozia quella nazione anticamente aver scritto con geroglifici. Nell’Indie occidentali i messicani furono ritruovati scriver per geroglifici, e Giovanni di Laet nella sua Descrizione della Nuova India descrive i geroglifici degl’indiani essere diversi capi d’animali, piante, fiori, frutte, e per gli loro ceppi distinguere le famiglie; ch’è lo stesso uso appunto c’hanno l’armi gentilizie nel mondo nostro. Nell’Indie orientali i chinesi tuttavia scrivono per geroglifici.

[436] Cosí è sventata cotal boria de’ dotti che vennero appresso (che tanto non osò gonfiare quella de’ boriosissimi egizi): che gli altri sappienti del mondo avessero appreso da essi di nascondere la loro sapienza riposta sotto de’ geroglifici.

[437] Posti tali princípi di logica poetica e dileguata tal boria de’ dotti, ritorniamo alle tre lingue degli egizi. Nella prima delle quali, ch’è quella degli dèi, come si è avvisato nelle Degnitá, per gli greci vi conviene Omero, che in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi fa menzione d’una lingua piú antica della sua, la qual è certamente lingua eroica, e la chiama «lingua degli dèi». Tre luoghi sono nell’Iliade: il primo ove narra «Briareo» dirsi dagli dèi, «Egeone» dagli uomini; il secondo, ove racconta d’un uccello, che gli dèi chiamano χαλκίδα,/

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gli uomini κύμινδιν; il terzo, che ’l fiume di Troia gli dèi «Xanto», gli uomini chiamano «Scamandro». Nell’Odissea sono due: uno, che gli dèi chiamano πλαγκτάς πέτρας «Scilla e Cariddi» che dicon gli uomini; l’altro, ove Mercurio dá ad Ulisse un segreto contro le stregonerie di Circe, che dagli dèi è appellato μῶλυ ed è affatto niegato agli uomini di sapere. D’intorno a’ quali luoghi Platone dice molte cose, ma vanamente; talché poi Dion Crisostomo ne calogna Omero d’impostura, ch’esso intendesse la lingua degli dèi, ch’è naturalmente niegato agli uomini. Ma dubitiamo che non forse in questi luoghi d’Omero si debbano gli «dèi» intendere per gli «eroi», i quali, come poco appresso si mostrerá, si presero il nome di «dèi» sopra i plebei delle loro cittá, ch’essi chiamavan «uomini» (come a’ tempi barbari ritornati i vassalli si dissero «homines», che osserva con maraviglia Ottomano), e i grandi signori (come nella barbarie ricorsa) facevano gloria di avere maravigliosi segreti di medicina; e cosí queste non sien altro che differenze di parlari nobili e di parlari volgari. Però, senza alcun dubbio, per gli latini vi si adoperò Varrone, il quale, come nelle Degnitá si è avvisato, ebbe la diligenza di raccogliere trentamila [nomi di] dèi, che dovettero bastare per un copioso vocabolario divino, da spiegare le genti del Lazio tutte le lor bisogne umane, ch’in que’ tempi semplici e parchi dovetter esser pochissime, perch’erano le sole necessarie alla vita. Anco i greci ne numerarono trentamila, come nelle Degnitá pur si è detto, i quali d’ogni sasso, d’ogni fonte o ruscello, d’ogni pianta, d’ogni scoglio fecero deitadi, nel qual numero sono le driadi, l’amadriadi, l’oreadi, le napee; appunto come gli americani ogni cosa che supera la loro picciola capacitá fanno dèi. Talché le favole divine de’ latini e de’ greci dovetter essere i veri primi geroglifici, o caratteri sagri o divini, degli egizi.

[438] Il secondo parlare, che risponde all’etá degli eroi, dissero gli egizi essersi parlato per simboli, a’ quali sono da ridursi l’imprese eroiche, che dovetter essere le somiglianze mute che da Omero si dicono σήματα (i segni co’ quali scrivevan gli eroi); e ’n conseguenza dovetter essere metafore o immagini

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o simiglianze o comparazioni, che poi, con lingua articolata, fanno tutta la suppellettile della favella poetica. Perché certamente Omero, per una risoluta niegazione di Giuseffo ebreo che non ci sia venuto scrittore piú antico di lui, egli vien ad essere il primo autor della lingua greca, e, avendo noi da’ greci tutto ciò che di essa n’è giunto, fu il primo autore di tutta la gentilitá. Appo i latini le prime memorie della loro lingua son i frammenti de’ Carmi saliari, e ’l primo scrittore che ce n’è stato narrato è Livio Andronico poeta. E dal ricorso della barbarie d’Europa, essendovi rinnate altre lingue, la prima lingua degli spagnuoli fu quella che dicono «di romanzo» e, ’n conseguenza, di poesia eroica (perché i romanzieri furon i poeti eroici de’ tempi barbari ritornati); in Francia, il primo scrittore in volgar francese fu Arnaldo Daniel Pacca, il primo di tutti i provenzali poeti, che fiorí nell’undecimo secolo; e finalmente i primi scrittori in Italia furon i rimatori fiorentini e siciliani.

[439] Il parlare pistolare degli egizi, convenuto a spiegare le bisogne della presente comun vita tra gli lontani, dee esser nato dal volgo d’un popolo principe dell’Egitto, che dovett’esser quello di Tebe (il cui re, Ramse, come si è sopra detto, distese l’imperio sopra tutta quella gran nazione), perché per gli egizi corrisponda questa lingua all’etá degli «uomini», quali si dicevano le plebi de’ popoli eroici a differenza de’ lor eroi, come si è sopra detto. E dee concepirsi esser provenuto da libera loro convenzione, per questa eterna propietá: ch’è diritto de’ popoli il parlare e lo scriver volgare; onde Claudio imperadore avendo ritruovato tre altre lettere ch’abbisognavano alla lingua latina, il popolo romano non le volle ricevere, come gl’italiani non han ricevuto le ritruovate da Giorgio Trissino, che si sentono mancare all’italiana favella.

[440] Tali parlari pistolari, o sieno volgari, degli egizi si dovettero scrivere con lettere parimente volgari, le quali si truovano somiglianti alle volgari fenicie; ond’è necessario che gli uni l’avessero ricevute dagli altri. Coloro che oppinano gli egizi essere stati i primi ritruovatori di tutte le cose necessarie o utili all’umana societá, in conseguenza di ciò debbon dire

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che gli egizi l’avessero insegnate a’ fenici. Ma Clemente alessandrino, il quale dovett’esser informato meglio ch’ogni altro qualunque autore delle cose di Egitto, narra che Sancunazione o Sancuniate fenice (il quale nella Tavola cronologica sta allogato nell’etá degli eroi di Grecia) avesse scritto in lettere volgari la storia fenicia, e sí il propone come primo autore della gentilitá ch’abbia scritto in volgari caratteri; per lo qual luogo hassi a dire ch’i fenici, i quali certamente furono il primo popolo mercatante del mondo, per cagione di traffichi entrati in Egitto, v’abbiano portato le lettere loro volgari. Ma senza alcun uopo d’argomenti e di congetture, la volgare tradizione ci accerta ch’essi fenici portarono le lettere in Grecia; sulla qual tradizione riflette Cornelio Tacito che le vi portarono come ritruovate da sé le lettere ritruovate da altri, che intende le geroglifiche egizie. Ma, perché la volgar tradizione abbia alcun fondamento di vero (come abbiamo universalmente pruovato tutte doverlo avere), diciamo che vi portarono le geroglifiche ricevute da altri, che non poteron essere ch’i caratteri mattematici o figure geometriche ch’essi ricevute avevano da’ caldei (i quali senza contrasto furono i primi mattematici e spezialmente i primi astronomi delle nazioni; onde Zoroaste caldeo, detto cosí perché «osservatore degli astri», come vuole il Bocharto, fu il primo sappiente del gentilesimo), e se ne servirono per forme di numeri nelle loro mercatanzie, per cagion delle quali molto innanzi d’Omero praticavano nelle marine di Grecia. Lo che ad evidenza si pruova da essi poemi d’Omero, e spezialmente dall’Odissea, perché a’ tempi d’Omero Gioseffo vigorosamente sostiene contro Appione greco gramatico che le lettere volgari non si erano ancor truovate tra’ greci. I quali, con sommo pregio d’ingegno, nel quale certamente avvanzarono tutte le nazioni, trasportarono poi tai forme geometriche alle forme de’ suoni articolati diversi, e con somma bellezza ne formarono i volgari caratteri delle lettere; le quali poscia si presero da’ latini, ch’il medesimo Tacito osserva essere state somiglianti all’antichissime greche. Di che gravissima pruova è quella ch’i greci per lunga etá, e fin agli ultimi loro tempi i latini,
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usarono lettere maiuscole per scriver numeri; che dev’esser ciò che Demarato corintio e Carmenta, moglie d’Evandro arcade, abbiano insegnato le lettere alli latini, come spiegheremo appresso che furono colonie greche, oltramarine e mediterranee, dedotte anticamente nel Lazio.

[441] Né punto vale ciò che molti eruditi contendono: — le lettere volgari dagli ebrei esser venute a’ greci, perocché l’appellazione di esse lettere si osserva quasi la stessa appo degli uni e degli altri; — essendo piú ragionevole che gli ebrei avessero imitata tal appellazione da’ greci che questi da quelli. Perché dal tempo ch’Alessandro magno conquistò l’imperio dell’Oriente (che dopo la di lui morte si divisero i di lui capitani), tutti convengono che ’l sermon greco si sparse per tutto l’Oriente e l’Egitto; e convenendo ancor tutti che la gramatica s’introdusse assai tardi tra essi ebrei, necessaria cosa è ch’i letterati ebrei appellassero le lettere ebraiche con l’appellazione de’ greci. Oltrecché, essendo gli elementi semplicissimi per natura, dovettero dapprima i greci battere semplicissimi i suoni delle lettere, che per quest’aspetto si dovettero dire «elementi»; siccome seguitarono a batterle i latini colla stessa gravitá (con che conservarono le forme delle lettere simiglianti all’antichissime greche): laonde fa d’uopo dire che tal appellazione di lettere con voci composte fussesi tardi introdotta tra essi greci, e piú tardi da’ greci si fusse in Oriente portata agli ebrei.

[442] Per le quali cose ragionate si dilegua l’oppenion di coloro che vogliono Cecrope egizio aver portato le lettere volgari a’ greci. Perché l’altra di coloro che stimano che Cadmo fenice le vi abbia portato da Egitto perocché fondò in Grecia una cittá col nome di Tebe, capitale della maggior dinastia degli egizi, si solverá appresso co’ princípi della Geografia poetica; per gli quali truoverassi ch’i greci, portatisi in Egitto, per una qualche simiglianza colla loro Tebe natia avessero quella capitale d’Egitto cosí chiamata. E finalmente s’intende perché avveduti critici, come riferisce l’autor anonimo inglese nell’Incertezza delle scienze, giudicano che per la sua troppa antichitá cotal Sancuniate non mai sia stato nel mondo. Onde noi, per

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non tôrlo affatto dal mondo, stimiamo doversi porre a tempi piú bassi, e certamente dopo d’Omero; e per serbare maggior antichitá a’ fenici sopra de’ greci d’intorno all’invenzion delle lettere che si dicon «volgari» (con la giusta proporzione, però, di quanto i greci furono piú ingegnosi d’essi fenici), si ha a dire che Sancuniate sia stato alquanto innanzi d’Erodoto (il quale fu detto «padre della storia de’ greci», la quale scrisse con favella volgare), per quello che Sancuniate fu detto lo «storico della veritá», cioè scrittore del tempo istorico che Varrone dice nella sua divisione de’ tempi: del qual tempo, per la divisione delle tre lingue degli egizi, corrispondente alle tre etá del mondo scorse loro dinnanzi, essi parlarono con lingua pistolare, scritta con volgari caratteri.

[443] Or, siccome la lingua eroica ovvero poetica si fondò dagli eroi, cosí le lingue volgari sono state introdutte dal volgo, che noi dentro ritruoveremo essere state le plebi de’ popoli eroici. Le quali lingue propiamente da’ latini furono dette «vernaculae», che non potevan introdurre quelli «vernae» che i gramatici diffiniscono «servi nati in casa dagli schiavi che si facevano in guerra», i quali naturalmente apprendono le lingue de’ popoli dov’essi nascono. Ma dentro si truoverá ch’i primi e propiamente detti «vernae» furon i famoli degli eroi nello stato delle famiglie, da’ quali poi si compose il volgo delle prime plebi dell’eroiche cittá, e furono gli abbozzi degli schiavi, che finalmente dalle cittá si fecero con le guerre. E tutto ciò si conferma con le due lingue che dice Omero: una degli dèi, altra degli uomini, che noi qui sopra spiegammo «lingua eroica» e «lingua volgare», e quindi a poco lo spiegheremo vieppiú.

[444] Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi ch’elleno significassero a placito; perch’esse, per queste lor origini naturali, debbon aver significato naturalmente. Lo che è facile osservare nella lingua volgar latina (la qual è piú eroica della greca volgare, e perciò piú robusta quanto quella è piú dilicata), che quasi tutte le voci ha formate per trasporti di nature o per propietá naturali o per

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effetti sensibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni. Ma i gramatici, abbattutisi in gran numero di vocaboli che dánno idee confuse e indistinte di cose, non sappiendone le origini, che le dovettero dapprima formare luminose e distinte, per dar pace alla loro ignoranza, stabilirono universalmente la massima che le voci umane articolate significano a placito, e vi trassero Aristotile con Galeno ed altri filosofi, e gli armarono contro Platone e Giamblico, come abbiam detto.

[445] Ma pur rimane la grandissima difficultá: come, quanti sono i popoli, tante sono le lingue volgari diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa gran veritá: che, come certamente i popoli per la diversitá de’ climi han sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanti costumi diversi; cosí dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la medesima diversitá delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilitá o necessitá della vita umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo piú diverse ed alle volte tra lor contrarie costumanze di nazioni; cosí e non altrimente son uscite in tante lingue, quant’esse sono, diverse. Lo che si conferma ad evidenza co’ proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza, spiegate con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnitá si è avvisato. Quindi le stesse origini eroiche, conservate in accorcio dentro i parlari volgari, han fatto ciò che reca tanta maraviglia a’ critici bibbici: ch’i nomi degli stessi re, nella storia sagra detti d’una maniera, si leggono d’un’altra nella profana; perché l’una per avventura [considerò] gli uomini per lo riguardo dell’aspetto, della potenza; l’altra per quello de’ costumi, dell’imprese o altro che fusse stato: come tuttavia osserviamo le cittá d’Ungheria altrimente appellarsi dagli ungheri, altrimente da’ greci, altrimente da’ tedeschi, altrimente da’ turchi. E la lingua tedesca, ch’è lingua eroica vivente, ella trasforma quasi tutti i nomi delle lingue straniere nelle sue propie natie; lo che dobbiam congetturare aver fatto i latini e i greci ove ragionano di tante cose barbare con bell’aria greca e latina.

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La qual dee essere la cagione dell’oscurezza che s’incontra nell’antica geografia e nella storia naturale de’ fossili, delle piante e degli animali. Perciò da noi in quest’opera la prima volta stampata si è meditata un’Idea d’un dizionario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue articolate diverse, riducendole tutte a certe unitá d’idee in sostanza, che, con varie modificazioni guardate da’ popoli, hanno da quelli avuto vari diversi vocaboli; del quale tuttavia facciamo uso nel ragionar questa Scienza. E ne diemmo un pienissimo saggio nel capo quarto, dove facemmo vedere i padri di famiglia, per quindeci aspetti diversi osservati nello stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel tempo che si dovettero formare le lingue (del qual tempo sono gravissimi gli argomenti d’intorno alle cose i quali si prendono dalle natie significazioni delle parole, come se n’è proposta una degnitá), essere stati appellati con altrettanti diversi vocaboli da quindeci nazioni antiche e moderne; il qual luogo è uno degli tre per gli quali non ci pentiamo di quel libro stampato. Il qual Dizionario ragiona per altra via l’argomento che tratta Tommaso Hayne nella dissertazione De linguarum cognatione e nell’altre De linguis in genere e Variarum linguarum harmonia. Da tutto lo che si raccoglie questo corollario: che quanto le lingue sono piú ricche di tali parlari eroici accorciati tanto sono piú belle, e per ciò piú belle perché son piú evidenti, e perché piú evidenti sono piú veraci e piú fide; e, al contrario, quanto sono piú affollate di voci di tali nascoste origini sono meno dilettevoli, perché oscure e confuse, e perciò piú soggette ad inganni ed errori. Lo che dev’essere delle lingue formate col mescolamento di molte barbare, delle quali non ci è venuta la storia delle loro origini e de’ loro trasporti.

[446] Ora, per entrare nella difficilissima guisa della formazione di tutte e tre queste spezie e di lingue e di lettere, è da stabilirsi questo principio: che, come dallo stesso tempo cominciarono gli dèi, gli eroi e gli uomini (perch’eran pur uomini quelli che fantasticaron gli dèi e credevano la loro natura eroica mescolata di quella degli dèi e di quella degli uomini), cosí

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nello stesso tempo cominciarono tali tre lingue (intendendo sempre andar loro del pari le lettere); però con queste tre grandissime differenze: che la lingua degli dèi fu quasi tutta muta, pochissima articolata; la lingua degli eroi, mescolata egualmente e di articolata e di muta, e ’n conseguenza di parlari volgari e di caratteri eroici co’ quali scrivevano gli eroi, che σήματα dice Omero; la lingua degli uomini, quasi tutta articolata e pochissima muta, perocché non vi ha lingua volgare cotanto copiosa ove non sieno piú le cose che le sue voci. Quindi fu necessario che la lingua eroica nel suo principio fusse sommamente scomposta; ch’è un gran fonte dell’oscuritá delle favole. Di che sia esemplo insigne quella di Cadmo: egli uccide la gran serpe, ne semina i denti, da’ solchi nascono uomini armati, gitta una gran pietra tra loro, questi a morte combattono, e finalmente esso Cadmo si cangia in serpe. Cotanto fu ingegnoso quel Cadmo il qual portò le lettere a’ greci, di cui fu trammandata questa favola, che, come la spiegheremo appresso, contiene piú centinaia d’anni di storia poetica!

[447] In séguito del giá detto, nello stesso tempo che si formò il carattere divino di Giove, che fu il primo di tutt’i pensieri umani della gentilitá, incominciò parimente a formarsi la lingua articolata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli. Ed esso Giove fu da’ latini, dal fragor del tuono, detto dapprima «Ious»; dal fischio del fulmine da’ greci fu detto Ζεύς; dal suono che dá il fuoco ove brucia, dagli orientali dovett’essere detto «Ur», onde venne «Urim», la potenza del fuoco; dalla quale stessa origine dovett’a’ greci venir detto οὐρανός, il cielo, ed ai latini il verbo «uro», «bruciare»; a’ quali, dallo stesso fischio del fulmine, dovette venire «cel», uno dei monosillabi d’Ausonio, ma con pronunziarlo con la «ç» degli spagnuoli, perché costi l’argutezza del medesimo Ausonio, ove di Venere cosí bisquitta:

Nata salo, suscepta solo, patre edita caelo.

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Dentro le quali origini è da avvertirsi che, con la stessa sublimitá dell’invenzione della favola di Giove, qual abbiamo sopra osservato, incomincia egualmente sublime la locuzion poetica con l’onomatopea, la quale certamente Dionigi Longino pone tra’ fonti del sublime, e l’avvertisce, appo Omero, nel suono che diede l’occhio di Polifemo, quando vi si ficcò la trave infuocata da Ulisse, che fece σίζ'.

[448] Seguitarono a formarsi le voci umane con l’interiezioni, che sono voci articolate all’émpito di passioni violente, che ’n tutte le lingue son monosillabe. Onde non è fuor del verisimile che, da’ primi fulmini incominciata a destarsi negli uomini la maraviglia, nascesse la prima interiezione da quella di Giove, formata con la voce «pa!», e che poi restò raddoppiata «pape!», interiezione di maraviglia, onde poi nacque a Giove il titolo di «padre degli uomini e degli dèi», e quindi appresso che tutti gli dèi se ne dicessero «padri», e «madri» tutte le dèe; di che restaron ai latini le voci «Iupiter», «Diespiter», «Marspiter», «Iuno genitrix». La quale certamente le favole narranci essere stata sterile; ed osservammo, sopra, tanti altri dèi e dèe nel cielo non contrarre tra essolor matrimonio (perché Venere fu detta «concubina», non giá «moglie» di Marte), e nulla di meno tutti appellavansi «padri» (di che vi hanno alcuni versi di Lucilio, riferiti nelle Note al Diritto universale). E si dissero «padri» nel senso nel quale «patrare» dovette significare dapprima il fare, ch’è propio di Dio, come vi conviene anco la lingua santa ch’in narrando la criazione del mondo, dice che nel settimo giorno Iddio riposò «ab opere quod patrarat». Quindi dev’essere stato detto «impetrare», che si disse quasi «impatrare», che nella scienza augurale si diceva «impetrire», ch’era «riportare il buon augurio», della cui origine dicono tante inezie i latini gramatici. Lo che pruova che la prima interpetrazione fu delle leggi divine ordinate con gli auspíci, cosí detta quasi «interpatratio».

[449] Or sí fatto divino titolo, per la natural ambizione dell’umana superbia, avendosi arrogato gli uomini potenti nello stato delle famiglie, essi si appellarono «padri» (lo che forse diede

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motivo alla volgar tradizione ch’i primi uomini potenti della terra si fecero adorare per dèi); ma, per la pietá dovuta ai numi, quelli i numi dissero «dèi», ed appresso anco, presosi gli uomini potenti delle prime cittá il nome di «dèi», per la stessa pietá i numi dissero «dèi immortali», a differenza dei «dèi mortali», ch’eran tali uomini. Ma in ciò si può avvertire la goffagine di tai giganti, qual i viaggiatori narrano de los patacones. Della quale vi ha un bel vestigio in latinitá, lasciatoci nell’antiche voci «pipulum» e «pipare» nel significato di «querela» e di «querelarsi», che dovette venire dall’interiezione di lamento «pi, pi»; nel qual sentimento vogliono che «pipulum» appresso Plauto sia lo stesso che «obvagulatio» delle XII Tavole, la qual voce deve venir da «vagire», ch’è propio il piagnere de’ fanciulli. Talché è necessario dall’interiezione di spavento esser nata a’ greci la voce παιάν, incominciata da παί; di che vi ha appo essi un’aurea tradizione antichissima: ch’i greci, spaventati dal gran serpente detto Pitone, invocarono in loro soccorso Apollo con quelle voci: ἰὼ παιαν, che prima tre volte batterono tarde, essendo ilxml:languiditi dallo spavento, e poi, per lo giubilo perch’avevalo Apollo ucciso, gli acclamarono altrettante volte battendole preste, col dividere l’ω in due ο, e ’l dittongo αι in due sillabe. Onde nacque naturalmente il verso eroico prima spondaico e poi divenne dattilico, e ne restò quell’eterna propietá ch’egli in tutte l’altre sedi cede il luogo al dattilo, fuorché nell’ultima. E naturalmente nacque il canto, misurato dal verso eroico, agl’impeti di passioni violentissime, siccome tuttavia osserviamo nelle grandi passioni gli uomini dar nel canto e, sopra tutti, i sommamente afflitti ed allegri, come si è detto nelle Degnitá. Lo che qui detto quindi a poco recherá molto uso ove ragioneremo dell’origini del canto e de’ versi.

[450] S’innoltrarono a formar i pronomi, imperocché l’interiezioni sfogano le passioni propie, lo che si fa anco da soli, ma i pronomi servono per comunicare le nostre idee con altrui d’intorno a quelle cose che co’ nomi propi o noi non sappiamo appellare o altri non sappia intendere. E i pronomi, pur quasi

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tutti, in tutte le lingue la maggior parte son monosillabi; il primo de’ quali, o almeno tra’ primi, dovett’esser quello di che n’è rimasto quel luogo d’oro d’Ennio:

Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Iovem,>

ov’è detto «hoc» invece di «caelum», e ne restò in volgar latino
Luciscit hoc iam>

invece di «albescit caelum». E gli articoli dalla lor nascita hanno questa eterna propietá: d’andare innanzi a’ nomi a’ quali son attaccati.

[451] Dopo si formarono le particelle, delle quali sono gran parte le preposizioni, che pure quasi in tutte le lingue son monosillabe; che conservano col nome questa eterna propietá: di andar innanzi a’ nomi che le domandano ed a’ verbi co’ quali vanno a comporsi.

[452] Tratto tratto s’andarono formando i nomi; de’ quali nell’Origini della lingua latina, ritruovate in quest’opera la prima volta stampata, si novera una gran quantitá nati dentro del Lazio, dalla vita d’essi latini selvaggia, per la contadinesca, infin alla prima civile, formati tutti monosillabi, che non han nulla di origini forestiere, nemmeno greche, a riserba di quattro voci: βοῦς, σῦς, μῦς, σῆψ, ch’a’ latini significa «siepe» e a’ greci «serpe». Il qual luogo è l’altro degli tre che stimiamo esser compiuti in quel libro, perch’egli può dar l’esemplo a’ dotti dell’altre lingue di doverne indagare l’origini con grandissimo frutto della repubblica letteraria; come certamente la lingua tedesca, ch’è lingua madre (perocché non vi entrarono mai a comandare nazioni straniere), ha monosillabe tutte le sue radici. Ed esser nati i nomi prima de’ verbi ci è appruovato da questa eterna propietá: che non regge orazione se non comincia da nome ch’espresso o taciuto la regga.

[453] Finalmente gli autori delle lingue si formarono i verbi, come osserviamo i fanciulli spiegar nomi, particelle, e tacer i verbi. Perché i nomi destano idee che lasciano fermi vestigi; le

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particelle, che significano esse modificazioni, fanno il medesimo; ma i verbi significano moti, i quali portano l’innanzi e ’l dopo, che sono misurati dall’indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi. Ed è un’osservazione fisica che di molto appruova ciò che diciamo, che tra noi vive un uomo onesto, tócco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e si è affatto dimenticato de’ verbi. E pur i verbi che sono generi di tutti gli altri — quali sono «sum» dell’essere, al quale si riducono tutte l’essenze, ch’è tanto dire tutte le cose metafisiche; «sto» della quiete, «eo» del moto, a’ quali si riducono tutte le cose fisiche; «do», «dico» e «facio», a’ quali si riducono tutte le cose agibili, sien o morali o famigliari o finalmente civili — dovetter incominciare dagl’imperativi; perché nello stato delle famiglie, povero in sommo grado di lingua, i padri soli dovettero favellare e dar gli ordini a’ figliuoli ed a’ famoli, e questi, sotto i terribili imperi famigliari, quali poco appresso vedremo, con cieco ossequio dovevano tacendo eseguirne i comandi. I quali imperativi sono tutti monosillabi, quali ci son rimasti «es», «sta», «i», «da», «dic», «fac».

[454] Questa generazione delle lingue è conforme a’ princípi cosí dell’universale natura, per gli quali gli elementi delle cose tutte sono indivisibili, de’ quali esse cose si compongono e ne’ quali vanno a risolversi, come a quelli della natura particolare umana, per quella degnitá ch’«i fanciulli, nati in questa copia di lingue e c’hanno mollissime le fibbre dell’istromento da articolare le voci, le incominciano monosillabe». Che molto piú si dee stimare de’ primi uomini delle genti, i quali l’avevano durissime, né avevano udito ancor voce umana. Di piú ella ne dá l’ordine con cui nacquero le parti dell’orazione, e ’n conseguenza le naturali cagioni della sintassi.

[455] Le quali cose tutte sembrano piú ragionevoli di quello che Giulio Cesare Scaligero e Francesco Sanzio ne han detto a proposito della lingua latina: come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d’Aristotile, coi cui princípi ne hanno amendue ragionato!

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[Capitolo Quinto]
Corollari d’intorno all’origini della locuzion poetica, degli episodi, del torno, del numero, del canto e del verso.

[456] In cotal guisa si formò la lingua poetica per le nazioni, composta di caratteri divini ed eroici, dappoi spiegati con parlari volgari, e finalmente scritti con volgari caratteri. E nacque tutta da povertá di lingua e necessitá di spiegarsi; lo che si dimostra con essi primi lumi della poetica locuzione, che sono l’ipotiposi, l’immagini, le somiglianze, le comparazioni, le metafore, le circoscrizioni, le frasi spieganti le cose per le loro naturali propietá, le descrizioni raccolte dagli effetti o piú minuti o piú risentiti, e finalmente per gli aggiunti enfatici ed anche oziosi.

[457] Gli episodi sono nati da essa grossezza delle menti eroiche, che non sapevano sceverare il propio delle cose che facesse al loro proposito, come vediamo usargli naturalmente gl’idioti e sopra tutti le donne.

[458] I torni nacquero dalla difficultá di dar i verbi al sermone, che, come abbiam veduto, furono gli ultimi a ritruovarsi; onde i greci, che furono piú ingegnosi, essi tornarono il parlare men de’ latini, e i latini meno di quel che fanno i tedeschi.

[459] Il numero prosaico fu inteso tardi dai scrittori — nella greca lingua da Gorgia leontino e nella latina da Cicerone, — perocché innanzi, al riferire di Cicerone medesimo, avevano renduto numerose l’orazioni con certe misure poetiche; lo che servirá molto quindi a poco, ove ragioneremo dell’origini del canto e de’ versi.

[460] Da tutto ciò sembra essersi dimostrato la locuzion poetica esser nata per necessitá di natura umana prima della prosaica; come per necessitá di natura umana nacquero, esse favole,

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universali fantastici, prima degli universali ragionati o sieno filosofici, i quali nacquero per mezzo di essi parlari prosaici. Perocché, essendo i poeti, innanzi, andati a formare la favella poetica con la composizione dell’idee particolari (come si è appieno qui dimostrato), da essa vennero poi i popoli a formare i parlari da prosa col contrarre in ciascheduna voce, come in un genere, le parti ch’aveva composte la favella poetica; e di quella frase poetica, per essemplo: «Mi bolle il sangue nel cuore» (ch’è parlare per propietá naturale, eterno ed universale a tutto il gener umano), del sangue, del ribollimento e del cuore fecero una sola voce, com’un genere, che da’ greci fu detto στόμαχος, da’ latini «ira», dagl’italiani «collera». Con egual passo, de’ geroglifici e delle lettere eroiche si fecero poche lettere volgari, come generi da conformarvi innumerabili voci articolate diverse, per lo che vi abbisognò fior d’ingegno. Co’ quali generi volgari, e di voci e di lettere, s’andarono a fare piú spedite le menti de’ popoli ed a formarsi astrattive; onde poi vi poterono provenir i filosofi, i quali formaron i generi intelligibili. Lo che qui ragionato è una particella della storia dell’idee. Tanto l’origini delle lettere, per truovarsi, si dovevano ad un fiato trattare con l’origini delle lingue!

[461] Del canto e del verso si sono proposte quelle degnitá: che, dimostrata l’origine degli uomini mutoli, dovettero dapprima, come fanno i mutoli, mandar fuori le vocali cantando; dipoi, come fanno gli scilinguati, dovettero pur cantando mandar fuori l’articolate di consonanti. Di tal primo canto de’ popoli fanno gran pruova i dittonghi ch’essi ci lasciarono nelle lingue, che dovettero dapprima esser assai piú in numero; siccome i greci e i francesi, che passarono anzi tempo dall’etá poetica alla volgare, ce n’han lasciato moltissimi, come nelle Degnitá si è osservato. E la cagion si è che le vocali sono facili a formarsi ma le consonanti difficili e perché si è dimostrato che tai primi uomini stupidi, per muoversi a profferire le voci, dovevano sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano con altissima voce. E la natura porta ch’ove uomo alzi assai la voce, egli dia ne’ dittonghi e nel

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canto, come nelle Degnitá si è accennato; onde poco sopra dimostrammo i primi uomini greci, nel tempo de’ loro dèi, aver formato il primo verso eroico spondaico col dittongo παί e pieno due volte piú di vocali che consonanti.

[462] Ancora tal primo canto de’ popoli nacque naturalmente dalla difficultá delle prime prononzie, la qual si dimostra come dalle cagioni cosí dagli effetti. Da quelle, perché tali uomini avevano formato di fibbre assai dure l’istrumento d’articolare le voci, e di voci essi ebbero pochissime; come al contrario i fanciulli, di fibbre mollissime, nati in questa somma copia di voci, si osservano con somma difficultá prononziare le consonanti (come nelle Degnitá s’è pur detto), e i chinesi, che non hanno piú che trecento voci articolate, che, variamente modificando, e nel suono e nel tempo, corrispondono, con la lingua volgare a’ loro cenventimila geroglifici, parlan essi cantando. Per gli effetti, si dimostra dagli accorciamenti delle voci, i quali s’osservano innumerabili nella poesia italiana (e nell’Origini della lingua latina n’abbiamo dimostro un gran numero, che dovettero nascere accorciate e poi essersi col tempo distese); ed al contrario da’ ridondamenti, perocché gli scilinguati da alcuna sillaba, alla quale sono piú disposti di profferire cantando, prendon essi compenso di profferir quelle che loro riescono di difficil prononzia (come pure nelle Degnitá sta proposto); onde appo noi nella mia etá fu un eccellente musico di tenore con tal vizio di lingua: ch’ove non poteva profferir le parole, dava in un soavissimo canto e cosí le prononziava. Cosí certamente gli arabi cominciano quasi tutte le voci da «al»; ed affermano gli unni fussero stati cosí detti ché le cominciassero tutte da «un». Finalmente si dimostra che le lingue incominciaron dal canto per ciò che testé abbiam detto: ch’innanzi di Gorgia e di Cicerone i greci e i latini prosatori usarono certi numeri quasi poetici, come a’ tempi barbari ritornati fecero i Padri della Chiesa latina (truoverassi il medesimo della greca), talché le loro prose sembrano cantilene.

[463] Il primo verso (come abbiamo poco fa dimostrato di fatto che nacque) dovette nascere convenevole alla lingua ed all’etá

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degli eroi, qual fu il verso eroico, il piú grande di tutti gli altri e propio dell’eroica poesia; e nacque da passioni violentissime di spavento e di giubilo, come la poesia eroica non tratta che passioni perturbatissime. Però non nacque spondaico per lo gran timor del Pitone, come la volgar tradizione racconta; la qual perturbazione affretta l’idee e le voci piú tosto che le ritarda, onde appo i latini «solicitus» e «festinans» significano «timoroso». Ma per la tardezza delle menti e difficultá delle lingue degli autori delle nazioni nacque prima, come abbiam dimostro, spondaico, di che si mantiene in possesso, ché nell’ultima sede non lascia mai lo spondeo; dappoi, faccendosi piú spedite e le menti e le lingue, v’ammise il dattilo; appresso, spedendosi entrambe vieppiú, nacque il giambico, il cui piede è detto «presto» da Orazio: come di tali origini si sono proposte due degnitá. Finalmente, fattesi quelle speditissime, venne la prosa, la quale, come testé si è veduto, parla quasi per generi intelligibili; ed alla prosa il verso giambico s’appressa tanto, che spesso innavedutamente cadeva a’ prosatori scrivendo. Cosí il canto s’andò ne’ versi affrettando co’ medesimi passi co’ quali si spedirono nelle nazioni e le lingue e l’idee, come anco nelle Degnitá si è avvisato.

[464] Tal filosofia ci è confermata dalla storia. La quale la piú antica cosa che narra sono gli oracoli e le sibille, come nelle Degnitá si è proposto; onde, per significare una cosa esser antichissima, vi era il detto: «quella essere piú vecchia della sibilla»; e le sibille furono sparse per tutte le prime nazioni, delle quali ci sono pervenute pur dodici. Ed è volgar tradizione che le sibille cantarono in verso eroico, e gli oracoli per tutte le nazioni pur in verso eroico davano le risposte; onde tal verso da’ greci fu detto «pizio» dal loro famoso oracolo d’Apollo pizio (il qual dovette cosí appellarsi dall’ucciso serpente detto Pitone, onde noi sopra abbiam detto esser nato il primo verso spondaico), e da’ latini fu detto «verso saturnio», come ne accerta Festo; che dovette in Italia nascere nell’etá di Saturno, che risponde all’etá dell’oro de’ greci, nella quale Apollo, come gli altri dèi, praticava in terra con gli uomini. Ed Ennio,

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appo il medesimo Festo, dice che con tal verso i fauni rendevano i fati ovvero gli oracoli nell’Italia (che certamente tra’ greci, com’or si è detto, si rendevano in versi esametri); ma poi «versi saturni» restaron detti i giambici senari, forse perché cosí poi naturalmente si parlava in tai versi saturni giambici, come innanzi si era naturalmente parlato in versi saturni eroici.

[465] Quantunque oggi dotti di lingua santa sien divisi in oppenioni diverse d’intorno alla poesia degli ebrei, s’ella è composta di metri o veramente di ritmi, però Gioseffo, Filone, Origene, Eusebio stanno a favore de’ metri, e (ciò che fa sommamente al nostro proposito) san Girolamo vuole che ’l libro di Giobbe, il qual è piú antico di quei di Mosè, fusse stato tessuto in verso eroico dal principio del terzo capo fin al principio del capo quarantesimosecondo.

[466] Gli arabi, ignoranti di lettera, come riferisce l’autor anonimo dell’Incertezza delle scienze, conservarono la loro lingua con tener a memoria i loro poemi, finattanto ch’innondarono le provincie orientali del greco imperio.

[467] Gli egizi scrivevano le memorie de’ lor difonti nelle siringi, o colonne, in verso, dette da «sir», che vuol dire «canzona»; onde vien detta «Sirena», deitá senza dubbio celebre per lo canto, nel qual Ovidio dice esser egualmente stata celebre che ’n bellezza la ninfa detta Siringa: per la qual origine si deve lo stesso dire ch’avessero dapprima parlato in versi i siri e gli assiri.

[468] Certamente i fondatori della greca umanitá furon i poeti teologi, e furon essi eroi, e cantarono in verso eroico.

[469] Vedemmo i primi autori della lingua latina essere stati i salii, che furon poeti sagri, da’ quali si hanno i frammenti de’ versi saliari, c’hanno un’aria di versi eroici, che sono le piú antiche memorie della latina favella. Gli antichi trionfanti romani lasciarono le memorie de’ loro trionfi pur in aria di verso eroico, come Lucio Emilio Regillo quella:

Duello magno dirimendo, regibus subiugandis,

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Acilio Glabrione quell’altra:

Fudit, fugat, prosternit maximas legiones,

ed altri altre. I frammenti della legge delle XII Tavole, se bene vi si rifletta, nella piú parte de’ suoi capi va[nno] a terminar in versi adoni, che sono ultimi ritagli di versi eroici; lo che Cicerone dovette imitare nelle sue Leggi, le quali cosí incominciano:
Deos caste adeunto. Pietatem adhibento.

Onde, al riferire del medesimo, dovette venire quel costume romano: ch’i fanciulli, per dirla con le di lui parole, «tanquam necessarium carmen», andavano cantando essa legge; non altrimenti che Eliano narra che facevano i fanciulli cretesi. Perché certamente Cicerone, famoso ritruovatore del numero prosaico appresso i latini, come Gorgia leontino lo era stato tra’ greci (lo che sopra si è riflettuto), doveva schifare nella prosa, e prosa di sí grave argomento, nonché versi cosí sonori, anche i giambici (i quali tanto la prosa somigliano), da’ quali si guardò scrivendo anco lettere famigliari. Onde di tal spezie di verso bisogna che sieno vere quelle volgari tradizioni: delle quali la prima è appresso Platone, la qual dice che le leggi degli egizi furono poemi della dea Iside; la seconda è appresso Plutarco, la qual narra che Ligurgo diede agli spartani in verso le leggi, a’ quali con una particolar legge aveva proibito saper di lettera; la terza è appo Massimo tirio, la qual racconta Giove aver dato a Minosse le leggi in verso; la quarta ed ultima è riferita da Suida, che Dragone dettò in verso le leggi agli ateniesi, il quale pur volgarmente ci vien narrato averle scritte col sangue.

[470] Ora, ritornando dalle leggi alle storie, riferisce Tacito ne’ Costumi de’ Germani antichi che da quelli si conservavano conceputi in versi i princípi della loro storia; e quivi Lipsio, nelle Annotazioni, riferisce il medesimo degli americani. Le quali

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autoritá di due nazioni, delle quali la prima non fu conosciuta da altri popoli che tardi assai da’ romani, la seconda fu scoverta due secoli fa da’ nostri europei, ne dánno un forte argomento di congetturare lo stesso di tutte l’altre barbare nazioni, cosí antiche come moderne; e, senza uopo di conghietture, de’ persiani tralle antiche, e de’ chinesi tralle nuovamente scoperte, si ha dagli autori che le prime loro storie scrissero in versi. E qui si facci questa importante riflessione: che, se i popoli si fondarono con le leggi, e le leggi appo tutti furono in versi dettate, e le prime cose de’ popoli pur in versi si conservarono; necessaria cosa è che tutti i primi popoli furono di poeti.

[471] Ora — ripigliando il proposto argomento d’intorno all’origini del verso — al riferire di Festo, ancora le guerre cartaginesi furono da Nevio innanzi di Ennio scritte in verso eroico; e Livio Andronico, il primo scrittor latino, scrisse la Romanide, ch’era un poema eroico il quale conteneva gli annali degli antichi romani. Ne’ tempi barbari ritornati essi storici latini furon poeti eroici, come Guntero, Guglielmo pugliese ed altri. Abbiam veduto i primi scrittori nelle novelle lingue d’Europa essere stati verseggiatori; e nella Silesia, provincia quasi tutta di contadini, nascon poeti. E generalmente, perocché cotal lingua troppo intiere conserva le sue origini eroiche, questa è la cagione, di cui ignaro, Adamo Rochembergio afferma che le voci composte de’ greci si possono felicemente rendere in lingua tedesca, spezialmente in poesia; e ’l Berneggero ne scrisse un catalogo, che poi si studiò d’arricchire Giorgio Cristoforo Peischero in Indice de graecae et germanicae linguae analogia. Nella qual parte, di comporre le intiere voci tra loro, la lingua latina antica ne lasciò pur ben molte, delle quali, come di lor ragione, seguitarono a servirsi i poeti: perché dovett’essere propietá comune di tutte le prime lingue, le quali, come si è dimostrato, prima si fornirono di nomi, dappoi di verbi, e sí, per inopia di verbi, avesser unito essi nomi. Che devon esser i princípi di ciò che scrisse il Morhofio in Disquisitionibus de germanica lingua et poësi. E questa sia una pruova dell’avviso

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che diemmo nelle Degnitá: che, «se i dotti della lingua tedesca attendano a truovarne l’origini per questi princípi, vi faranno delle discoverte maravigliose».

[472] Per le quali cose tutte qui ragionate sembra ad evidenza essersi confutato quel comun error de’ gramatici, i quali dicono la favella della prosa esser nata prima, e dopo quella del verso; e dentro l’origini della poesia, quali qui si sono scoverte, si son truovate l’origini delle lingue e l’origini delle lettere.

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[Capitolo Sesto]
Gli altri corollari li quali si sono da principio proposti
i

[473] Con tal primo nascere de’ caratteri e delle lingue nacque il gius, detto «ious» da’ latini, e dagli antichi greci διαΐον/ — che noi sopra spiegammo «celeste», detto da Διός; onde a’ latini vennero «sub dio» egualmente e «sub Iove» per dir «a ciel aperto» — e, come dice Platone nel Cratilo, poi per leggiadria di favella fu detto δίκαιον. Perché universalmente da tutte le nazioni gentili fu osservato il cielo con l’aspetto di Giove, per riceverne le leggi ne’ di lui divini avvisi o comandi, che credevan essere gli auspíci; lo che dimostra tutte le nazioni esser nate sulla persuasione della provvedenza divina.

[474] E ’ncominciandole a noverare, Giove a’ caldei fu ’l cielo, in quanto era creduto dagli aspetti e moti delle stelle avvisar l’avvenire, e ne furon dette «astronomia» e «astrologia» le scienze quella delle leggi e questa del parlare degli astri, ma nel senso d’«astrologia giudiziaria», come «chaldaei» per «astrolaghi giudiziari» restarono detti nelle leggi romane.

[475] A’persiani egli fu Giove ben anco il cielo, in quanto si credeva significare le cose occulte agli uomini. Della qual scienza i sappienti se ne dissero «maghi», e restonne appellata «magia» cosí la permessa, ch’è la naturale delle forze occulte maravigliose della natura, come la vietata delle sopranaturali, nel qual senso restò «mago» detto per «istregone». E i maghi adoperavano la verga (che fu il lituo degli áuguri appo i romani) e descrivevano i cerchi degli astronomi; della qual verga e cerchi poi si sono serviti i maghi nelle loro stregonerie. Ed a’ persiani il cielo fu il templo di Giove, con la qual religione Ciro rovinava i templi fabbricati per la Grecia.

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[476] Agli egizi pur Giove fu ’l cielo, in quanto si credeva influire nelle cose sublunari ed avvisar l’avvenire; onde credevano fissare gl’influssi celesti nel fondere a certi tempi l’immagini, ed ancor oggi conservano una volgar arte d’indovinare.

[477] A’greci fu anco Giove esso cielo, in quanto ne consideravano i teoremi e i matemi altre volte detti, che credevano cose divine o sublimi da contemplarsi con gli occhi del corpo e da osservarsi (in senso di «eseguirsi») come leggi di Giove; da’ quai matemi nelle leggi romane «mathematici» si dicono gli astrolaghi giudiziari.

[478] De’ romani è famoso il sopra qui riferito verso di Ennio:

Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Iovem,>

preso il pronome «hoc», come si è detto, in significato di «coelum»; ed a’ medesimi si dissero «templa coeli», che pur sopra si sono dette le regioni del cielo disegnate dagli áuguri per prender gli auspíci. E ne restò a’ latini «templum» per significare ogni luogo che da ogni parte ha libero e di nulla impedito il prospetto; ond’è «extemplo» in significato di «subito», e «neptunia templa» disse il mare, con maniera antica, Virgilio.

[479] De’ Germani antichi narra Tacito ch’adoravano i loro dèi entro luoghi sagri, che chiama «lucos et nemora», che dovetter essere selve rasate dentro il chiuso de’ boschi (del qual costume durò fatiga la Chiesa per dissavvezzargli, come si raccoglie da’ concili hanetense e bracarense nella Raccolta de’ decreti lasciataci dal Buchardo), ed ancor oggi se ne serbano in Lapponia e Livonia i vestigi.

[480] De’ peruani si è truovato Iddio dirsi assolutamente «il Sublime», i cui templi sono, a ciel aperto, poggi ove si sale da due lati per altissime scale, nella qual altezza ripongono tutta la loro magnificenza. Onde dappertutto la magnificenza de’ templi or è riposta in una loro sformatissima altezza. La cima de’ quali troppo a nostro proposito si truova appresso Pausania dirsi ἀετός, che vuol dir «aquila»; perché si sboscavano

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le selve per aver il prospetto di contemplare donde venivano gli auspíci dell’aquile, che volan alto piú di tutti gli uccelli. E forse quindi le cime ne furon dette «pinnae templorum», donde poi dovettero dirsi «pinnae murorum», perché sui confini di tali primi templi del mondo dopo s’alzarono le mura delle prime cittá, come appresso vedremo. E finalmente in architettura restaron dette «aquilae» i «merli» ch’or diciamo degli edifici.

[481] Ma gli ebrei adoravano il vero Altissimo, ch’è sopra il cielo, nel chiuso del tabernacolo; e Mosè, per dovunque stendeva il popolo di Dio le conquiste, ordinava che fussero bruciati i boschi sagri che dice Tacito, dentro i quali si chiudessero i «luci».

[482] Onde si raccoglie che dappertutto le prime leggi furono le divine di Giove. Dalla qual antichitá dev’essere provenuto nelle lingue di molte nazioni cristiane di prender «il cielo» per «Dio»; come noi italiani diciamo «voglia il cielo», «spero al cielo», nelle quali espressioni intendiamo «Dio». Lo stesso è usato dagli spagnuoli; e i francesi dicono «bleu» per l’«azzurro», e perché la voce «azzurro» è di cosa sensibile, dovetter intendere «bleu» per «lo cielo»; e quindi, come le nazioni gentili avevano inteso «il cielo» per «Giove», dovettero i francesi per «lo cielo» intendere «Dio» in quell’empia loro bestemmia «moure bleu!» per «muoia Iddio!», e tuttavia dicono «parbleu!», «per Dio!». E questo può esser un saggio del Vocabolario mentale proposto nelle Degnitá, del quale sopra si è ragionato.

ii

[483] La certezza de’ domíni fece gran parte della necessitá di ritruovar i «caratteri» e i «nomi» nella significazione natia di «case diramate in molte famiglie», che con la loro somma propietá si appellarono «genti». Cosí Mercurio Trimegisto, carattere poetico de’ primi fondatori degli egizi, quale l’abbiam dimostrato, ritruovò loro e le leggi e le lettere. Dal qual

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Mercurio, che fu altresí creduto dio delle mercatanzie, gl’italiani (la qual uniformitá di pensare e spiegarsi, fin a’ nostri dí conservata, dee recar maraviglia) dicono «mercare» il contrasegnare con lettere o con imprese i bestiami o altre robe da mercantare, per distinguere ed accertarne i padroni.

iii

[484] Queste sono le prime origini dell’imprese gentilizie e quindi delle medaglie. Dalle qual’imprese, ritruovate prima per private e poi per pubbliche necessitá, vennero per diletto l’imprese erudite, le quali, indovinando, dissero «eroiche», le quali bisogna animare co’ motti, perché hanno significazioni analoghe: ove l’imprese eroiche naturali lo erano per lo stesso difetto de’ motti e, sí, mutole parlavano; ond’erano in lor ragione l’imprese ottime, perché contenevano significazioni propie, quanto tre spighe o tre atti di falciare significavano naturalmente «tre anni». Dallo che venne «caratteri» e «nomi» convertirsi a vicenda tra loro, e «nomi» e «nature» significare lo stesso, come l’uno e l’altro sopra si è detto.

[485] Or, faccendoci da capo all’imprese gentilizie, ne’ tempi barbari ritornati le nazioni ritornarono a divenir mutole di favella volgare. Onde delle lingue italiana, francese, spagnuola o di altre nazioni di quelli tempi non ci è giunta niuna notizia affatto, e le lingue latina e greca si sapevano solamente da’ sacerdoti; talché da’ francesi si diceva «clerc» in significazione di «letterato», ed allo ’ncontro dagl’italiani, per un bel luogo di Dante, si diceva «laico» per dir «uomo che non sapeva di lettera». Anzi tra gli stessi sacerdoti regnò cotanta ignoranza, che si leggono scritture sottoscritte da’ vescovi col segno di croce, perché non sapevano scrivere i propi lor nomi; e i prelati dotti anco poco sapevano scrivere, come la diligenza del padre Mabillone nella sua opera De re diplomatica dá a veder intagliate in rame le sottoscrizioni de’ vescovi e arcivescovi agli atti de’ concili di que’ tempi barbari, le quali s’osservano scritte con lettere piú informi e brutte di quelle che scrivono gli piú

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indotti idioti oggidí. E pure tali prelati erano per lo piú i cancellieri de’ reami d’Europa, quali restarono tre arcivescovi cancellieri dell’Imperio per tre lingue (ciascheduno per ciascheduna): tedesca, francese ed italiana; e da essi, per tal maniera di scrivere lettere con tali forme irregolari, dev’essere stata detta la «scrittura cancellaresca». Da sí fatta scarsezza per una legge inghilese fu ordinato che un reo di morte il quale sapesse di lettera, come eccellente in arte, egli non dovesse morire; da che forse poi la voce «letterato» si stese a significar «erudito».

[486] Per la stessa inopia di scrittori, nelle case antiche non osserviamo parete ove non sia intagliata una qualche impresa. Altronde, da’ latini barbari fu detta «terrae presa» il podere co’ suoi confini, e dagl’italiani fu detto «podere» per la stessa idea onde da’ latini era stato detto «praedium»; perché le terre ridutte a coltura furono le prime prede del mondo, e furono i fondi detti «mancipia» dalla legge delle XII Tavole, e detti «praedes» e «mancipes» gli obbligati in roba stabile, principalmente all’erario, e «iura praediorum» le servitú che si dicon «reali». Altronde dagli spagnuoli fu detta «prenda» l’«impresa forte», perché le prime imprese forti del mondo furono di domare e ridurre a coltura le terre; che si truoverá essere la maggiore di tutte le fatighe d’Ercole. L’impresa, di nuovo, agl’italiani si disse «insegna» in concetto di «cosa significante» (onde agli stessi venne detto «insegnare»); e si dice anco «divisa», perché l’insegne si ritruovarono per segni della prima division delle terre, ch’erano state innanzi, nell’usarle, a tutto il gener umano comuni; onde i termini, prima reali, di tali campi, poi dagli scolastici si presero per termini vocali, o sia per voci significative, che sono gli estremi delle proposizioni. Qual uso appunto di termini hanno appo gli americani, come si è veduto sopra, i geroglifici, per distinguere tra essolor le famiglie.

[487] Da tutto ciò si conchiude che all’insegne la gran necessitá di significare ne’ tempi delle nazioni mutole dovette esser fatta dalla certezza de’ domíni. Le quali poi passarono in insegne

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pubbliche in pace; onde vennero le medaglie, le quali appresso, essendosi introdutte le guerre, si truovarono apparecchiate per l’insegne militari, le quali hanno il primiero uso de’ geroglifici, faccendosi per lo piú le guerre fra nazioni di voci articolate diverse e ’n conseguenza mute tra loro. Le quali cose tutte qui ragionate, a maraviglia ci si conferma esser vere da ciò: che, per uniformitá d’idee, appo gli egizi, gli antichi toscani, romani e gl’inghilesi, che l’usano per fregio della lor arma reale, si formò questo geroglifico, appo tutti uniforme: un’aquila in clima ad uno scettro, ch’appo queste nazioni, tra loro per immensi spazi di terra e mari divise, dovette egualmente significare ch’i reami ebbero i loro incominciamenti da’ primi regni divini di Giove in forza de’ di lui auspíci. Finalmente, essendosi introdutti i commerzi con danaio coniato, si ritruovarono le medaglie apparecchiate per l’uso delle monete, le quali, dall’uso di esse medaglie, furon dette «monetae» a «monendo» appresso i latini, come dall’insegne fu detto «insegnare» appresso gl’italiani. Cosí da νόμος venne νόμισμα,/ lo che ci disse Aristotile; e indi ancor forse venne detto a’ latini «numus», ch’i migliori scrivono con un «m»; e i francesi dicono «loy» la legge ed «aloy» la moneta; i quali parlari non possono altronde essere provenuti che dalla «legge» o «diritto», significato con geroglifico, ch’è l’uso appunto delle medaglie. Tutto lo che a maraviglia ci si conferma dalle voci «ducato», detto a «ducendo», ch’è propio de’ capitani; «soldo», ond’è detto «soldato»; e «scudo», arma di difesa, ch’innanzi significò il fondamento dell’armi gentilizie, che dapprima fu la terra colta di ciascun padre nel tempo delle famiglie, come appresso sará dimostro. Quindi devon aver luce le tante medaglie antiche, ove si vede o un altare, o un lituo, ch’era la verga degli áuguri con cui prendevan gli auspíci, come si è sopra detto, o un treppiedi, donde si rendevan gli oracoli, ond’è quel motto «dictum ex tripode», «detto d’oracolo».

[488] Della qual sorte di medaglie dovetter esser l’ale, ch’i greci nelle loro favole attaccarono a tutti i corpi significanti ragioni d’eroi fondate negli auspíci. Come Idantura, tra gli geroglifici

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reali co’ quali rispose a Dario, mandò un uccello; e i patrizi romani, in tutte le contese eroiche le quali ebbero con la plebe (come apertamente si legge sulla storia romana), per conservarsi i loro diritti eroici, opponevano quella ragione: «auspicia esse sua». Appunto come nella barbarie ricorsa si osservano l’imprese nobili caricate d’elmi con cimieri che si adornano di pennacchi, e nell’Indie occidentali non si adornano di penne ch’i soli nobili.

iv

[489] Cosí quello che fu detto «Ious», Giove, e, contratto, si disse «Ius», prima d’ogni altro dovette significare il grascio delle vittime dovuto a Giove, conforme a ciò che se n’è sopra detto. Siccome nella barbarie ricorsa «canone» si disse e la legge ecclesiastica e ciò che paga l’enfiteuticario al padrone diretto, perocché forse le prime enfiteusi s’introdussero dagli ecclesiastici, che, non potendo essi coltivargli, davano i fondi delle chiese a coltivar ad altrui. Con le quali due cose qui dette convengono le due dette sopra: una de’ greci, appo i quali νόμος significa la legge e νόμισμα la moneta; l’altra de’ francesi, i quali dicono «loy» la legge ed «aloy» la moneta. Alla stessa fatta e non altrimente, quel fu detto «Ious optimus» per «Giove fortissimo», che per la forza del fulmine diede principio all’autoritá divina nella primiera sua significazione, che fu di «dominio», come sopra abbiam detto, perocché ogni cosa fusse di Giove.

[490] Perché quel vero di metafisica ragionata d’intorno all’ubiquitá di Dio, ch’era stato appreso con falso senso di metafisica poetica:

... Iovis omnia plena,

produsse l’autoritá umana a quelli giganti ch’avevano occupato le prime terre vacue del mondo, nello stesso significato di «dominio», che ’n ragion romana restò certamente detto «ius optimum»; ma nella sua significazione nativa, assai diversa

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da quella nella quale poi restò a’ tempi ultimi. Perocché nacque in significazione nella quale, in un luogo d’oro dell’orazioni, Cicerone il diffinisce «dominio di roba stabile, non soggetto a peso, non sol privato, ma anche pubblico», detto «ottimo» — estimandosi il diritto della forza, conforme ne’ primi tempi del mondo si truoverá — nello stesso significato di «fortissimo», perocché non fusse infievolito da niuno peso straniero. Il qual dominio dovett’essere de’ padri nello stato delle famiglie, e ’n conseguenza il dominio naturale, che dovette nascere innanzi al civile; e, delle famiglie poi componendosi le cittá sopra tal dominio ottimo, che in greco si dice δίκαιον ἄριστον, elleno nacquero di forma aristocratica, come appresso si truoverá. Dalla stessa origine, appo i latini, dette repubbliche d’ottimati si dissero anco «repubbliche di pochi», perché le componevano que’

... pauci quos aequus amavit

Iupiter. E gli eroi nelle contese eroiche con le plebi sostenevano le loro ragioni eroiche con gli auspíci divini; e ne’ tempi muti le significavano con l’uccello d’Idantura, con le ale delle greche favole; e con lingua articolata finalmente i patrizi romani, dicendo «auspicia esse sua».

[491] Perocché Giove co’ fulmini, de’ quali sono i maggiori auspíci, aveva atterrato e mandato sotterra entro le grotte de’ monti i primi giganti, e con atterrargli aveva loro dato la buona fortuna di divenire signori de’ fondi di quelle terre ove nascosti si ritruovaron fermati, e ne provennero signori nelle prime repubbliche; per lo qual dominio ogniuno di essi si diceva «fundus fieri» invece di «fieri auctor». E delle loro private autoritá famigliari, dappoi unite, come appresso vedremo, se ne fece l’autoritá civile ovvero pubblica de’ loro senati eroici regnanti, spiegata in quella medaglia (che si osserva sí frequente tra quelle delle repubbliche greche appo il Golzio) che rappresenta tre cosce umane le quali s’uniscono nel centro e con le piante de’ piedi ne sostengono la circonferenza; che significa

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il dominio de’ fondi di ciascun orbe o territorio o distretto di ciascuna repubblica, ch’or si chiama «dominio eminente», ed è significato col geroglifico d’un pomo ch’oggi sostengono le corone delle civili potenze, come appresso si spiegherá. Significato fortissimo col «tre» appunto, [poiché i greci solevano usare i superlativi col numero del «tre»], come parlan ora i francesi; con la qual sorta di parlare fu detto il fulmine trisulco di Giove, che solca fortissimamente l’aria (onde forse l’idea di «solcare» fu prima di quello in aria, dipoi in terra, e per ultimo in acqua); fu detto il tridente di Nettunno, che, come vedremo, fu un uncino fortissimo da addentare o sia afferrare le navi; e Cerbero detto trifauce, cioè d’una vastissima gola.

[492] Le quali cose qui dette dell’imprese gentilizie sono da premettersi a ciò che de’ lor princípi si è ragionato in quest’opera la prima volta stampata; ch’è ’l terzo luogo di quel libro per lo quale non ci ’ncresce per altro d’esser uscito alla luce.

v

[493] In conseguenza di tutto ciò, da queste lettere e queste leggi che truovò Mercurio Trimegisto agli egizi, da questi «caratteri» e questi «nomi» de’ greci, da questi «nomi» che significano e «genti» e «diritti» a’ romani, gli tre principi della lor dottrina, Grozio, Seldeno, Pufendorfio, dovevan incominciar a parlare del diritto natural delle genti. E sí dovevano con intelligenza spiegarla co’ geroglifici e con le favole, che sono le medaglie de’ tempi ne’ quali si fondarono le nazioni gentili; e sí accertarne i costumi con una critica metafisica sopra essi autori delle nazioni, dalla quale doveva prendere i primi lumi questa critica filologica sopra degli scrittori, i quali non provennero che assai piú di mille anni dopo essersi le nazioni fondate.

212 ―

[Capitolo Settimo]
Ultimi corollari d’intorno alla logica degli addottrinati
i

[494] Per le cose ragionate finora in forza di questa logica poetica d’intorno all’origini delle lingue, si fa giustizia a’ primi di lor autori d’essere stati tenuti in tutti i tempi appresso per sappienti perocché diedero i nomi alle cose con naturalezza e propietá; onde sopra vedemmo ch’appo i greci e latini «nomen» e «natura» significarono una medesima cosa.

ii

[495] Ch’i primi autori dell’umanitá attesero ad una topica sensibile, con la quale univano le propietá o qualitá o rapporti, per cosí dire, concreti degl’individui o delle spezie, e ne formavano i generi loro poetici.

iii

[496] Talché questa prima etá del mondo si può dire con veritá occupata d’intorno alla prima operazione della mente umana.

iv

[497] E primieramente cominciò a dirozzare la topica, ch’è un’arte di ben regolare la prima operazione della nostra mente, insegnando i luoghi che si devono scorrer tutti per conoscer tutto quanto vi è nella cosa che si vuol bene ovvero tutta conoscere.

213 ―

v

[498] La provvedenza ben consigliò alle cose umane col promuovere nell’umane menti prima la topica che la critica, siccome prima è conoscere, poi giudicar delle cose. Perché la topica è la facultá di far le menti ingegnose, siccome la critica è di farle esatte; e in que’ primi tempi si avevano a ritruovare tutte le cose necessarie alla vita umana, e ’l ritruovare è propietá dell’ingegno. Ed in effetto, chiunque vi rifletta, avvertirá che non solo le cose necessarie alla vita, ma l’utili, le comode, le piacevoli ed infino alle superflue del lusso, si erano giá ritruovate nella Grecia innanzi di provenirvi i filosofi, come il farem vedere ove ragioneremo d’intorno all’etá d’Omero. Di che abbiamo sopra proposto una degnitá: ch’«i fanciulli vagliono potentemente nell’imitare», e «la poesia non è che imitazione», e «le arti non sono che imitazioni della natura, e ’n conseguenza poesie in un certo modo reali». Cosí i primi popoli, i quali furon i fanciulli del gener umano, fondarono prima il mondo dell’arti; poscia i filosofi, che vennero lunga etá appresso, e ’n conseguenza i vecchi delle nazioni, fondarono quel delle scienze: onde fu affatto compiuta l’umanitá.

vi

[499] Questa storia d’umane idee a maraviglia ci è confermata dalla storia di essa filosofia. Ché la prima maniera ch’usarono gli uomini di rozzamente filosofare fu l’αὐτοψία o l’evidenza de’ sensi, della quale si serví poi Epicuro, che, come filosofo de’ sensi, era contento della sola sposizione delle cose all’evidenza de’ sensi, ne’ quali, come abbiam veduto nell’Origini della poesia, furono vividissime le prime nazioni poetiche. Dipoi venne Esopo, o i morali filosofi che diremmo «volgari» (che, come abbiam sopra detto, cominciò innanzi de’ sette savi della Grecia), il quale ragionò con l’esemplo, e, perché durava ancora l’etá poetica, il prendeva da un qualche simile finto (con uno de’ quali

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il buono Menenio Agrippa ridusse la plebe romana sollevata all’ubbidienza); e tuttavia uno di sí fatti esempli, e molto piú un esemplo vero, persuade il volgo ignorante assai meglio ch’ogni invitto raziocinio per massime. Appresso venne Socrate e introdusse la dialettica, con l’induzione di piú cose certe ch’abbian rapporto alla cosa dubbia della quale si quistiona. Le medicine, per l’induzione dell’osservazioni, innanzi di Socrate avevano dato Ippocrate, principe di tutti i medici cosí per valore come per tempo, che meritò l’immortal elogio: «Nec fallit quenquam, nec falsus ab ullo est». Le mattematiche, per la via unitiva detta «sintetica», avevan a’ tempi di Platone fatto i loro maggiori progressi nella scuola italiana di Pittagora, come si può veder dal Timeo. Sicché, per questa via unitiva, a’ tempi di Socrate e di Platone sfolgorava Atene di tutte l’arti nelle quali può esser ammirato l’umano ingegno, cosí di poesia, d’eloquenza, di storia, come di musica, di fonderia, di pittura, di scoltura, d’architettura. Poi vennero Aristotile, che ’nsegnò il sillogismo, il qual è un metodo che piú tosto spiega gli universali ne’ loro particolari che unisce particolari per raccogliere universali; e Zenone col sorite, il quale risponde al metodo de’ moderni filosofanti, ch’assottiglia, non aguzza, gl’ingegni: e non fruttarono alcuna cosa piú di rimarco a pro del gener umano. Onde a gran ragione il Verulamio, gran filosofo egualmente e politico, propone, commenda ed illustra l’induzione nel suo Organo; ed è seguíto tuttavia dagl’inghilesi con gran frutto della sperimentale filosofia.

vii

[500] Da questa storia d’umane idee si convincono ad evidenza del loro comun errore tutti coloro i quali, occupati dalla falsa comune oppenione della somma sapienza ch’ebber gli antichi, han creduto Minosse, primo legislator delle genti, Teseo agli ateniesi, Ligurgo agli spartani, Romolo ed altri romani re aver ordinato leggi universali. Perché l’antichissime leggi si osservano concepute comandando o vietando ad un solo, le

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quali poi correvan per tutti appresso (tanto i primi popoli eran incapaci d’universali!); e pure non le concepivano senonsé fussero avvenuti i fatti che domandavanle. E la legge di Tullo Ostilio nell’accusa d’Orazio non è che la pena, la qual i duumviri per ciò criati dal re dettano contro l’inclito reo, e «lex horrendi carminis» è acclamata da Livio; talch’ella è una delle leggi che Dragone scrisse col sangue e «leges sanguinis» chiama la sagra storia. Perché la riflessione di Livio: che ’l re non volle esso pubblicarla per non esser autore di giudizio sí tristo ed ingrato al popolo, ella è affatto ridevole, quando esso re ne prescrive la formola della condennagione a’ duumviri, per la quale questi non potevano assolver Orazio, neppure ritruovato innocente. Dove Livio affatto non si fa intendere, perch’esso non intese che ne’ senati eroici, quali ritruoveremo essere stati aristocratici, gli re non avevano altra potestá che di criare i duumviri in qualitá di commessari, i quali giudicassero delle pubbliche accuse, e che i popoli delle cittá eroiche eran di soli nobili, a’ quali i rei condennati si richiamavano.

[501] Ora, per ritornar al proposito, cotal legge di Tullo in fatti è uno di quelli che si dissero «exempla» in senso di «castighi esemplari», e dovetter esser i primi esempli ch’usò l’umana ragione (lo che conviene con quello ch’udimmo da Aristotile sopra, nelle Degnitá: che «nelle repubbliche eroiche non vi erano leggi d’intorno a’ torti ed offese private»); e ’n cotal guisa, prima furono gli esempli reali, dipoi gli esempli ragionati de’ quali si servono la logica e la rettorica. Ma, poi che furono intesi gli universali intelligibili, si riconobbe quella essenziale propietá della legge: — che debba esser universale, — e si stabilí quella massima in giurisprudenza: che «legibus, non exemplis, est iudicandum».

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[SEZIONE TERZA] [Morale poetica]


[Capitolo Unico]
Della morale poetica, e qui dell’origini delle volgari
virtú insegnate dalla religione co’ matrimoni

[502] Siccome la metafisica de’ filosofi per mezzo dell’idea di Dio fa il primo suo lavoro, ch’è di chiarire la mente umana, ch’abbisogna alla logica perché con chiarezza e distinzione d’idee formi i suoi raziocini, con l’uso de’ quali ella scende a purgare il cuore dell’uomo con la morale; cosí la metafisica de’ poeti giganti, ch’avevano fatto guerra al cielo con l’ateismo, gli vinse col terrore di Giove, ch’appresero fulminante. E non meno che i corpi, egli atterrò le di loro menti, con fingersi tal idea sí spaventosa di Giove, la quale — se non co’ raziocini, de’ quali non erano ancor capaci; co’ sensi, quantunque falsi nella materia, veri però nella loro forma (che fu la logica conforme a sí fatte loro nature) — loro germogliò la morale poetica con fargli pii. Dalla qual natura di cose umane uscí quest’eterna propietá: che le menti, per far buon uso della cognizione di Dio, bisogna ch’atterrino se medesime, siccome al contrario la superbia delle menti le porta nell’ateismo, per cui gli atei divengono giganti di spirito che deono con Orazio dire:

Caelum ipsum petimus stultitia.

218 ―

[503] Sí fatti giganti pii certamente Platone riconosce nel Polifemo d’Omero. E noi l’avvaloriamo da ciò ch’esso Omero narra dello stesso gigante, ove gli fa dire ch’un augure, ch’era stato un tempo tra loro, gli aveva predetto la disgrazia ch’egli poi sofferse da Ulisse; perché gli áuguri non possono vivere certamente tra gli atei. Quivi la morale poetica incominciò dalla pietá, perch’era dalla provvedenza ordinata a fondare le nazioni, appo le quali tutte la pietá volgarmente è la madre di tutte le morali, iconomiche e civili virtú; e la religione unicamente è efficace a farci virtuosamente operare, perché la filosofia è piú tosto buona per ragionarne. E la pietá incominciò dalla religione, che propiamente è timore della divinitá. L’origine eroica della qual voce si conservò appo i latini per coloro che la voglion detta a «religando», cioè da quelle catene con le quali Tizio e Prometeo eran incatenati sull’alte rupi, a’ quali l’aquila, o sia la spaventosa religione degli auspíci di Giove, divorava il cuore e le viscere. E ne restò eterna propietá appo tutte le nazioni: che la pietá s’insinua a’ fanciulli col timore d’una qualche divinitá.

[504] Cominciò, qual dee, la moral virtú dal conato, col qual i giganti dalla spaventosa religione de’ fulmini furon incatenati per sotto i monti, e tennero in freno il vezzo bestiale d’andar errando da fiere per la gran selva della terra, e s’avvezzarono ad un costume, tutto contrario, di star in que’ fondi nascosti e fermi; onde poscia ne divennero gli autori delle nazioni e i signori delle prime repubbliche, come abbiamo accennato sopra e spiegheremo piú a lungo appresso. Ch’è uno de’ gran benefíci che la volgar tradizione ci conservò d’aver fatto il Cielo al gener umano, quando egli regnò in terra con la religion degli auspíci; onde a Giove fu dato il titolo di «statore» ovvero di «fermatore», come sopra si è detto. Col conato altresí incominciò in essi a spuntare la virtú dell’animo, contenendo la loro libidine bestiale di esercitarla in faccia al cielo, di cui avevano uno spavento grandissimo. E ciascuno di essi si diede a strascinare per sé una donna dentro le loro grotte e tenerlavi dentro in perpetua compagnia di lor vita: e sí usarono con

219 ―
esse la venere umana al coverto, nascostamente, cioè a dire con pudicizia; e sí incominciarono a sentir pudore, che Socrate diceva esser il «colore della virtú». Il quale, dopo quello della religione, è l’altro vincolo che conserva unite le nazioni, siccome l’audacia e l’empietá son quelle che le rovinano.

[505] In cotal guisa s’introdussero i matrimoni, che sono carnali congiugnimenti pudichi fatti col timore di qualche divinitá, che furono da noi posti per secondo principio di questa Scienza, e provennero da quello, che noi ne ponemmo per primo, della provvedenza divina. E uscirono con tre solennitá.

[506] La prima delle quali furono gli auspíci di Giove, presi da que’ fulmini onde i giganti indutti furono a celebrargli. Dalla qual sorte appo i romani restò il matrimonio diffinito «omnis vitae consortium», e ne furono il marito e la moglie detti «consortes», e tuttavia da noi le donzelle volgarmente si dicono «prender sorte» per «maritarsi». Da tal determinata guisa e da tal primo tempo del mondo restò quel diritto delle genti: che le mogli passino nella religion pubblica de’ lor mariti, perocché i mariti incominciarono a comunicare le loro prime umane idee con le loro donne dall’idea d’una loro divinitá, che gli sforzò a strascinarle dentro le loro grotte; e sí questa volgar metafisica incominciò anch’ella in Dio a conoscer la mente umana. E da questo primo punto di tutte le umane cose dovettero gli uomini gentili incominciar a lodare gli dèi, nel senso, con cui parlò il diritto romano antico, di «citare» e «nominatamente chiamare»; donde restò «laudare auctores», perché citassero in autori gli dèi di tutto ciò che facevan essi uomini: che dovetter esser le lodi ch’apparteneva agli uomini dar agli dèi.

[507] Da questa antichissima origine de’ matrimoni è nato che le donne entrino nelle famiglie e case degli uomini co’ quali son maritate; il qual costume natural delle genti si conservò da’ romani, appo i quali le mogli erano a luogo di figliuole de’ lor mariti e sorelle de’ lor figliuoli. E quindi ancora i matrimoni dovettero incominciare non solo con una sola donna, come fu serbato da’ romani (e Tacito ammira tal costume ne’

220 ―
germani antichi, che serbavano, come i romani, intiere le prime origini delle loro nazioni, e ne dánno luogo di congetturare lo stesso di tutte l’altre ne’ lor princípi), ma anco in perpetua compagnia di lor vita, come restò in costume a moltissimi popoli; onde appo i romani furono diffinite le nozze, per questa propietá, «individua vitae consuetudo», e appo gli stessi assai tardi s’introdusse il divorzio.

[508] Di sí fatti auspíci de’ fulmini osservati di Giove, la storia favolosa greca narra Ercole (carattere di fondatori di nazioni, come sopra vedemmo e piú appresso ne osserveremo), nato da Alcmena ad un tuono di Giove; altro grande eroe di Grecia Bacco, nato da Semele fulminata. Perché questo fu il primo motivo onde gli eroi si disser esser figliuoli di Giove; lo che con veritá di sensi dicevano, sull’oppenione, della quale vivevano persuasi, che facessero ogni cosa gli dèi, come sopra si è ragionato. E questo è quello che nella storia romana si legge: che, nelle contese eroiche, a’ patrizi, i quali dicevano «auspicia esse sua», la plebe rispondeva che i padri de’ quali Romolo aveva composto il senato, da’ quali essi patrizi traevan l’origine, «non esse caelo demissos»; che se non significa che quelli non eran eroi, cotal risposta non s’intende come possavi convenire. Quindi, per significare che i connubi o sia la ragione di contrarre nozze solenni, delle quali la maggior solennitá erano gli auspíci di Giove, ella era propia degli eroi, fecero Amor nobile alato e con benda agli occhi, per significarne la pudicizia (il quale si disse Ἔρως, col nome simile di essi eroi), ed alato Imeneo, figliuolo di Urania, detta, da οὐρανός,/ «caelum», «contemplatrice del cielo», affine di prender da quello gli auspíci; che dovette nascere la prima dell’altre muse, diffinita da Omero, come sopra osservammo, «scienza del bene e del male», ed anch’essa, come l’altre, descritta alata perché propia degli eroi, come si è sopra spiegato. D’intorno alla quale pur sopra spiegammo il senso istorico di quel motto:

A Iove principium musae:

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ond’ella come tutte l’altre furon credute figliuole di Giove (perché dalla religione nacquero l’arti dell’umanitá, delle quali è nume Apollo, che principalmente fu creduto dio della divinitá), e cantano con quel «canere» o «cantare» che significa «predire» a’ latini.

[509] La seconda solennitá è che le donne si velino, in segno di quella vergogna che fece i primi matrimoni nel mondo. Il qual costume è stato conservato da tutte le nazioni; e i latini ne diedero il nome alle medesime nozze, che sono dette «nuptiae» a «nubendo», che significa «cuoprire»; e da’ tempi barbari ritornati «vergini in capillo» si dissero le donzelle, a differenza delle donne, ch’ivan velate.

[510] La terza solennitá fu (la qual si serbò da’ romani) di prendersi le spose con una certa finta forza, dalla forza vera con la quale i giganti strascinarono le prime donne dentro le loro grotte. E dopo le prime terre occupate da’ giganti con ingombrarle coi corpi, le mogli solenni si dissero «manucaptae».

[511] I poeti teologi fecero de’ matrimoni solenni il secondo de’ divini caratteri dopo quello di Giove: Giunone, seconda divinitá delle genti dette «maggiori». La qual è di Giove sorella e moglie, perché i primi matrimoni giusti ovvero solenni (che dalla solennitá degli auspíci di Giove furono detti «giusti»), da fratelli e sorelle dovetter incominciare; — regina degli uomini e degli dèi, perché i regni poi nacquero da essi matrimoni legittimi; — tutta vestita, come s’osserva nelle statue, nelle medaglie, per significazion della pudicizia.

[512] Onde Venere eroica, in quanto nume anch’essa de’ matrimoni solenni, detta «pronuba», si cuopre le vergogne col cesto; il quale, dopo, i poeti effemminati ricamarono di tutti gl’incentivi della libidine. Ma poi, corrotta la severa istoria degli auspíci, come Giove con le donne, cosí Venere fu creduta giacer con gli uomini, e di Anchise aver fatto Enea, che fu generato con gli auspíci di questa Venere. Ed a questa Venere sono attribuiti i cigni, comuni a lei con Apollo, che cantano di quel «canere» o «cantare» che significa «divinari» o «predire»; in forma d’uno de’ quali Giove giace con Leda,

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per dire che Leda con tali auspíci di Giove concepisce dalle uova Castore, Polluce ed Elena.

[513] Ella è Giunone detta «giogale» da quel giogo ond’il matrimonio solenne fu detto «coniugium», e «coniuges» il marito e la moglie; — detta anco Lucina, ché porta i parti alla luce, non giá naturale, la qual è comune anco agli parti schiavi, ma civile, ond’i nobili son detti «illustri»; — è gelosa d’una gelosia politica, con la qual i romani fin al trecento e nove di Roma tennero i connubi chiusi alla plebe. Ma da’ greci fu detta Ἥρα, dalla quale debbono essere stati detti essi eroi, perché nascevano da nozze solenni, delle quali era nume Giunone, e perciò generati con Amor nobile (ché tanto Ἔρως significa), che fu lo stesso ch’Imeneo. E gli eroi si dovettero dire in sentimento di «signori delle famiglie», a differenza de’ famoli, i quali, come vedremo appresso, vi erano come schiavi; siccome in tal sentimento «heri» si dissero da’ latini, e indi «hereditas» detta l’ereditá, la quale con voce natia latina era stata detta «familia». Talché, da questa origine, «hereditas» dovette significare una «dispotica signoria», come da essa legge delle XII Tavole a’ padri di famiglia fu conservata una sovrana potestá di disponerne in testamento, nel capo «Uti paterfamilias super pecuniae tutelaeve rei suae legassit, ita ius esto». Il disponerne fu detto generalmente «legare», ch’è propio de’ sovrani; onde l’erede vien ad essere un legato, il quale nell’ereditá rappresenta il padre di famiglia difonto, e i figliuoli, non meno che gli schiavi, furono compresi ne’ motti «rei suae» e «pecuniae». Lo che tutto troppo gravemente n’appruova la monarchica potestá ch’avevano avuto i padri nello stato di natura sopra le loro famiglie, la qual poi essi si dovettero conservare (come vedremo appresso che si conservarono di fatto) in quello dell’eroiche cittá; le quali ne dovettero nascere aristocratiche, cioè repubbliche di signori, perché la ritennero anco dentro le repubbliche popolari. Le quali cose tutte appresso saranno pienamente da noi ragionate.

[514] La dea Giunone comanda delle grandi fatighe ad Ercole detto tebano, che fu l’Ercole greco (perché ogni nazione gentile

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antica n’ebbe uno che la fondò, come si è nelle Degnitá sopradetto), perché la pietá co’ matrimoni è la scuola dove s’imparano i primi rudimenti di tutte le grandi virtú; ed Ercole col favore di Giove, con gli cui auspíci era stato generato, tutte le supera; e ne fu detto Ἡρακλῆς, quasi Ἥρας κλέος, «gloria di Giunone», estimata la gloria, con giusta idea, qual Cicerone la diffinisce, «fama divolgata di meriti inverso il gener umano», quanta debbe essere stata avere gli Ercoli con le loro fatighe fondato le nazioni. Ma — oscuratesi col tempo queste severe significazioni, e con l’effemminarsi i costumi, e presa la sterilitá di Giunone per naturale, e le gelosie come di Giove adultero, ed Ercole per bastardo figliuolo di Giove — con nome tutto contrario alle cose, Ercole tutte le fatighe, col favore di Giove, a dispetto di Giunon superando, fu fatto di Giunone tutto l’obbrobrio, e Giunone funne tenuta mortal nimica della virtú. E quel geroglifico o favola di Giunone appiccata in aria con una fune al collo, con le mani pur con una fune legate, e con due pesanti sassi attaccati a’ piedi, che significavano tutta la santitá de’ matrimoni (in aria, per gli auspíci ch’abbisognavano alle nozze solenni, onde a Giunone fu data ministra l’Iride ed assegnato il pavone, che con la coda l’Iride rassomiglia; — con la fune al collo, per significare la forza fatta da’ giganti alle prime donne; — con la fune legate le mani, la quale poi appo tutte le nazioni s’ingentilí con l’anello, per dimostrare la suggezione delle mogli a’ mariti; — co’ pesanti sassi a’ piedi, per dinotare la stabilitá delle nozze, onde Virgilio chiama «coniugium stabile» il matrimonio solenne), essendo poi stato preso per crudele castigo di Giove adultero, con sí fatti sensi indegni che le diedero i tempi appresso de’ corrotti costumi, ha finora tanto travagliato i mitologi.

[515] Per queste cagioni appunto Platone, qual Maneto fece de’ geroglifici egizi, egli aveva fatto delle favole greche, osservandone da una parte la sconcezza di dèi con sí fatti costumi, e dall’altra parte l’acconcezza con le sue idee. E nella favola di Giove intruse l’idea del suo etere, che scorre e penetra tutto, per quel

... Iovis omnia plena,

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come pur sopra abbiam detto: ma il Giove de’ poeti teologi non fu piú alto de’ monti e della regione dell’aria dove s’ingenerano i fulmini. In quella di Giunone intruse l’idea dell’aria spirabile: ma Giunone di Giove non genera, e l’etere con l’aria produce tutto. (Tanto con tal motto i poeti teologi intesero quella veritá in fisica, ch’insegna l’universo empiersi d’etere; e quell’altra in metafisica, che dimostra l’ubiquitá ch’i teologi naturali dicon di Dio!). Sull’eroismo poetico innalzò il suo filosofico: che l’eroe fusse sopra all’uomo, nonché alla bestia (la bestia è schiava delle passioni; l’uomo, posto in mezzo, combatte con le passioni; l’eroe con piacere comanda alle passioni), e sí esser l’eroica mezza tralla divina natura ed umana. E truovò acconcio l’Amor nobile de’ poeti (che fu detto Ἔρως dalla stessa origine ond’è detto ἥρως l’eroe), finto alato e bendato, e l’Amor plebeo, senza benda e senz’ali, per ispiegar i due amori, divino e bestiale: quello bendato alle cose de’ sensi, questo alle cose de’ sensi intento; quello con l’ali s’innalza alla contemplazione delle cose intelligibili, questo senz’ali nelle sensibili si rovescia. E di Ganimede, per un’aquila rapito in cielo da Giove, ch’a’ poeti severi volle dire il contemplatore degli auspíci di Giove, fatto poi da’ tempi corrotti nefanda delizia di Giove, con bell’acconcezza egli fece il contemplativo di metafisica, il quale con la contemplazione dell’ente sommo, per la via ch’egli appella «unitiva», siesi unito con Giove.

[516] In cotal guisa la pietá e la religione fecero i primi uomini naturalmente prudenti, che si consigliavano con gli auspíci di Giove: — giusti, della prima giustizia verso di Giove, che, come abbiam veduto, diede il nome al «giusto», e inverso gli uomini, non impacciandosi niuno delle cose d’altrui, come de’ giganti, divisi per le spelonche della Sicilia, narra Polifemo ad Ulisse (la qual, giustizia in comparsa, era, in fatti, selvatichezza); — di piú, temperati, contenti d’una sola donna per tutta la loro vita. E, come vedremo appresso, gli fecero forti, industriosi e magnanimi, che furono le virtú dell’etá dell’oro: non giá quale la si finsero, dopo, i poeti effemminati,

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nella quale licesse ciò che piacesse; perché, in quella de’ poeti teologi, agli uomini, storditi ad ogni gusto di nauseante riflessione (come tuttavia osserviamo i costumi contadineschi), non piaceva se non ciò ch’era lecito, né piaceva se non ciò che giovava (la qual origine eroica han serbato i latini in quell’espressione con cui dicono «iuvat» per dir «è bello»); — né come la si finsero i filosofi, che gli uomini leggessero in petto di Giove le leggi eterne del giusto; perché dapprima leggerono nel cospetto del cielo le leggi lor dettate da’ fulmini. E in conchiusione le virtú di tal prima etá furono come quelle che tanto sopra, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica, udimmo lodar degli sciti, i quali ficcavano un coltello in terra e l’adoravan per dio (con che poi giustificavano gli ammazzamenti): cioè virtú per sensi, mescolate di religione ed immanitá; i quali costumi come tra loro si comportino si può tuttavia osservar nelle streghe, come nelle Degnitá si è osservato.

[517] Da tal prima morale della superstiziosa e fiera gentilitá venne quel costume di consagrare vittime umane agli dèi, come si ha dagli piú antichi fenici, appo i quali, quando loro sovrastava alcuna grande calamitá, come di guerra, fame, peste, gli re consagravano i loro propi figliuoli per placare l’ira celeste, come narra Filone biblio; e tal sacrifizio facevano di fanciulli ordinariamente a Saturno, al riferire di Quinto Curzio. Che, come racconta Giustino, fu conservato poi dai cartaginesi, gente senza dubbio colá pervenuta dalla Fenicia (come qui dentro si osserva), e fu da essi praticato infin agli ultimi loro tempi, come il conferma Ennio in quel verso:

Et poinei solitei sos sacruficare puellos,

i quali dopo la rotta ricevuta da Agatocle sagrificarono dugento nobili fanciulli a’ loro dèi per placarli. E co’ fenici e cartaginesi in tal costume empiamente pio convennero i greci col voto e sacrifizio che fece Agamennone della sua figliuola Ifigenia. Lo che non dee recar maraviglia a chiunque rifletta sulla

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ciclopica paterna potestá de’ primi padri del gentilesimo, la quale fu praticata dagli piú dotti delle nazioni, quali furon i greci, e dagli piú saggi, quali sono stati i romani, i quali entrambi, fin dentro i tempi della loro piú colta umanitá, ebbero l’arbitrio d’uccidere i loro figliuoli bambini di fresco nati. La qual riflessione certamente dee scemarci l’orrore che ’n questa nostra mansuetudine ci si è fatto finor sentire di Bruto, che decapita due suoi figliuoli ch’avevano congiurato di riporre nel regno romano il tiranno Tarquinio; e di Manlio, detto «l’imperioso», che mozza la testa al suo generoso figliuolo ch’aveva combattuto e vinto contro il suo ordine. Tali sagrifizi di vittime umane essere stati celebrati da’ Galli l’afferma Cesare; e Tacito negli Annali narra degl’inghilesi che, con la scienza divina de’ druidi (i quali la boria de’ dotti vuol essere stati ricchi di sapienza riposta), dall’entragne delle vittime umane indovinavano l’avvenire. La qual fiera ed immane religione da Augusto fu proibita ai romani i quali vivevano in Francia, e da Claudio fu interdetta a’ Galli medesimi, al narrare di Suetonio nella vita di questo cesare. Quindi i dotti delle lingue orientali vogliono ch’i fenici avessero sparso per le restanti parti del mondo i sagrifizi di Moloch (che ’l Morneo, il Drusio, il Seldeno dicono essere stato Saturno), co’ quali gli bruciavano un uomo vivo. Tal umanitá i fenici, che portarono ai greci le lettere, andavano insegnando per le prime nazioni della piú barbara gentilitá! D’un cui simile costume immanissimo dicono ch’Ercole avesse purgato il Lazio: di gittare nel Tevere uomini vivi sagrificati, ed avesse introdutto di gittarlivi fatti di giunco. Ma Tacito narra i sagrifizi di vittime umane essere stati solenni appo gli antichi Germani, i quali certamente per tutti i tempi de’ quali si ha memoria furono chiusi a tutte le nazioni straniere, talché i romani, con tutte le forze del mondo, non vi poterono penetrare. E gli spagnuoli gli ritruovarono in America, nascosta fin a due secoli fa a tutto il resto del mondo; ove que’ barbari si cibavano di carni umane (all’osservare di Lascoboto, De Francia nova), che dovevan essere d’uomini da essi consagrati ed uccisi (quali sagrifizi
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sono narrati da Oviedo, De historia indica). Talché, mentre i Germani antichi vedevano in terra gli dèi, gli americani altrettanto (come sopra da noi l’un e l’altro si è detto), e gli antichissimi sciti erano ricchi di tante auree virtú di quante l’abbiam testé uditi lodare dagli scrittori; in tali tempi medesimi celebravano tal inumanissima umanitá! Queste tutte furono quelle che da Plauto son dette «Saturni hostiae», nel cui tempo vogliono gli autori che fu l’etá dell’oro del Lazio. Tanto ella fu mansueta, benigna, discreta, comportevole e doverosa!

[518] Dallo che tutto ha a conchiudersi quanto sia stata finora vana la boria de’ dotti d’intorno all’innocenza del secol d’oro, osservata dalle prime nazioni gentili; che, ’n fatti, fu un fanatismo di superstizione, ch’i primi uomini, selvaggi, orgogliosi, fierissimi, del gentilesimo teneva in qualche ufizio con un forte spavento d’una da essi immaginata divinitá. Sulla qual superstizione riflettendo, Plutarco pone in problema: se fusse stato minor male cosí empiamente venerare gli dèi, o non creder affatto agli dèi. Ma egli non contrapone con giustizia tal fiera superstizione con l’ateismo; perché con quella sursero luminosissime nazioni, ma con l’ateismo non se ne fondò al mondo niuna, conforme sopra ne’ Princípi si è dimostrato.

[519] E ciò sia detto della morale divina de’ primi popoli del gener umano perduto: della morale eroica appresso ragioneremo a suo luogo.

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[SEZIONE QUARTA] [Iconomica poetica]


[Capitolo Primo]
Dell’iconomica poetica, e qui delle famiglie
che prima furono de’ figliuoli

[520] Sentirono gli eroi per umani sensi quelle due veritá che compiono tutta la dottrina iconomica, che le genti latine conservarono con queste due voci di «educere» e di «educare»; delle quali con signoreggiante eleganza la prima s’appartiene all’educazione dell’animo, e la seconda a quella del corpo. E la prima fu, con dotta metafora, trasportata da’ fisici al menar fuori le forme della materia; perciocché con tal educazione eroica s’incominciò a menar fuori in un certo modo la forma dell’anima umana, che ne’ vasti corpi de’ giganti era affatto seppellita dalla materia, e s’incominciò a menar fuori la forma di esso corpo umano di giusta corporatura dagli smisurati corpi lor giganteschi.

[521] E, per ciò che riguarda la prima parte, dovettero i padri eroi, come nelle Degnitá si è avvisato, essere, nello stato che dicesi «di natura», i sappienti in sapienza d’auspíci o sia sapienza volgare; e, ’n séguito di cotal sapienza, esser i sacerdoti, che, come piú degni, dovevano sagrificare per proccurare o sia ben intender gli auspíci; e finalmente gli re, che dovevano portar le leggi dagli dèi alle loro famiglie, nel propio significato di tal voce «legislatori», cioè «portatori di leggi»,

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come poi lo furono i primi re nelle cittá eroiche, che portavano le leggi da’ senati regnanti a’ popoli, come noi l’osservammo sopra, nelle due spezie dell’adunanze eroiche d’Omero, una detta βουλή e l’altra ἀγορά, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica. E come in quella gli eroi a voce ordinavano le leggi, in questa a voce le pubblicavano (perocché le lettere volgari non si erano ancor truovate); onde gli re eroici portavano le leggi da essi senati regnanti a’ popoli nelle persone de’ duumviri, i quali essi avevano per ciò criati che le dettassero, come Tullo Ostilio quella nell’accusa d’Orazio. Talché essi duumviri venivan ad essere leggi vive e parlanti; che è ciò che non intendendo Livio, non si fa intendere, come sopra osservammo, ove narra del giudizio d’Orazio.

[522] Cotal tradizione volgare sulla falsa oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi diede la tentazione a Platone di vanamente disiderare que’ tempi ne’ quali i filosofi regnavano o filosofavano i re. E certamente cotali padri, come nelle Degnitá si è avvisato, dovetter essere re monarchi famigliari, superiori a tutti nelle loro famiglie e solamente soggetti a Dio, forniti d’imperi armati di spaventose religioni e consegrati con immanissime pene, quanto dovetter essere quelli de’ polifemi, ne’ quali Platone riconosce i primi padri di famiglia del mondo. La qual tradizione, mal ricevuta, diede la grave occasione del comun errore a tutti i politici: di credere che la prima forma de’ governi civili fusse ella nel mondo stata monarchica; onde sono dati in quelli ingiusti princípi di rea politica: che i regni civili nacquero o da forza aperta o da froda, che poi scoppiò nella forza. Ma in que’ tempi, tutti orgoglio e fierezza per la fresca origine della libertá bestiale (di che abbiamo, pur sopra, posto una degnitá), nella somma semplicitá e rozzezza di cotal vita, ch’eran contenti de’ frutti spontanei della natura, dell’acqua delle fontane e di dormir nelle grotte; nella naturale egualitá dello stato, nel quale tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie; non si può affatto intendere né froda né forza, con la quale uno potesse assoggettir tutti gli altri ad una civil monarchia: la qual pruova si fará piú spiegata appresso.

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[523] Solamente ora sia lecito qui di riflettere quanto vi volle acciocché gli uomini del gentilesimo dalla ferina loro natia libertá, per lunga stagione di ciclopica famigliar disciplina, si ritruovassero addimesticati, negli Stati ch’avevano da venir appresso civili, ad ubbidire naturalmente alle leggi. Di che restò quell’eterna propietá: ch’ivi le repubbliche sono piú beate di quella ch’ideò Platone, ove i padri insegnano non altro che la religione, e da’ figliuoli vi sono ammirati come lor sappienti, riveriti come lor sacerdoti e vi sono temuti da re. Tanta forza divina e tale vi abbisognava per ridurre a’ doveri umani i quanto goffi altrettanto fieri giganti! La qual forza non potendo dir in astratto, la dissero in concreto con esso corpo d’una corda, che χορδά si dice in greco, ed in latino da prima si disse «fides», la qual, prima e propiamente, s’intese in quel motto «fides deorum», «forza degli dèi». Della qual poi, come la lira dovette cominciare dal monocordo, ne fecero la lira d’Orfeo, al suon della quale egli, cantando loro la forza degli dèi negli auspíci, ridusse le fiere greche all’umanitá, ed Anfione de’ sassi semoventi innalzò le mura di Tebe: cioè di que’ sassi che Deucalione e Pirra, innanzi al templo di Temi (cioè col timore della divina giustizia), co’ capi velati (con la pudicizia de’ matrimoni), posti innanzi i piedi (ch’innanzi erano stupidi, come a’ latini per «istupido» restò «lapis»), essi, col gittargli dietro le spalle (con introdurvi gli ordini famigliari per mezzo della disciplina iconomica), fecero divenir uomini, come questa favola fu sopra, nella Tavola cronologica, cosí spiegata.

[524] Per ciò ch’attiensi all’altra parte della disciplina iconomica, ch’è l’educazione de’ corpi, tai padri, con le spaventose religioni e co’ lor imperi ciclopici e con le lavande sagre, incominciaron ad edurre o menar fuori dalle corporature gigantesche de’ lor figliuoli la giusta forma corporea umana, in conformitá di ciò che sopra n’abbiamo detto. Ov’è da sommamente ammirare la provvedenza, la qual dispose che, finché poi succedesse l’educazione iconomica, gli uomini perduti provenissero giganti, acciocché nel loro ferino divagamento potessero con le robuste complessioni sopportare l’inclemenza del cielo e delle stagioni,

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e con le smisurate forze penetrare la gran selva della terra (che per lo recente diluvio doveva esser foltissima), per la quale (affinché si truovasse tutta popolata a suo tempo), fuggendo dalle fiere e seguitando le schive donne, e quindi sperduti, cercando pascolo ed acqua, si dispergessero; ma, dappoi che incominciarono con le loro donne a star fermi, prima nelle spelonche, poi ne’ tuguri, presso le fontane perenni (come or ora diremo), e ne’ campi, che, ridutti a coltura, davano loro il sostentamento della lor vita, per le cagioni ch’ora qui ragioniamo, degradassero alle giuste stature delle quali ora son gli uomini.

[525] Quivi, in esso nascere dell’iconomica, la compierono nella sua idea ottima, la qual è ch’i padri col travaglio e con l’industria lascino a’ figliuoli patrimonio, ov’abbiano e facile e comoda e sicura la sossistenza, anco mancassero gli stranieri commerzi, anco mancassero tutti i frutti civili, anco mancassero esse cittá, acciocché in tali casi ultimi almeno si conservino le famiglie, dalle quali sia speranza di risurger le nazioni; — che debbano lasciar loro patrimonio in luoghi di buon’aria, con propia acqua perenne, in siti naturalmente forti, ove, nella disperazione delle cittá, possan aver la ritirata, ed in campi di larghi fondi ove possano mantenere de’ poveri contadini, da essi, nella rovina delle cittá, rifuggiti, con le fatighe de’ quali vi si possano mantenere signori. Tali ordini la provvedenza (secondo il detto di Dione che noi riferimmo tralle Degnitá), non da tiranna con leggi, ma, da regina, qual è, delle cose umane, con costumanze pose allo stato delle famiglie. Perché si truovaron i forti piantate le loro terre sull’alture de’ monti, e quivi in aria ventilata e per questo sana; e in siti per natura anco forti, che furono le prime «arces» del mondo, che poi con le sue regole l’architettura militare fortificò (come in italiano si dissero «rocce» gli scoscesi e ripidi monti, onde poi «ròcche» se ne dissero le fortezze); e finalmente si truovarono presso alle fontane perenni, che per lo piú mettono capo ne’ monti, presso alle quali gli uccelli di rapina fanno i lor nidi (onde presso a tali fontane i cacciatori tendono loro le reti). I quali uccelli per ciò forse dagli antichi latini furono tutti chiamati «aquilae»,

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quasi «aquilegae» (come certamente «aquilex» ci restò detto il «ritruovatore o raccoglitore dell’acqua»), perocché senza dubbio gli uccelli, de’ quali osservò gli auspíci Romolo per prender il luogo alla nuova cittá, dalla storia ci si narrano essere stati avvoltoi, che poi divennero aquile e furon i numi di tutti i romani eserciti. Cosí gli uomini semplici e rozzi, seguendo l’aquile, le quali credevano esser uccelli di Giove perché volan alto nel cielo, ritruovarono le fontane perenni, e ne venerarono quest’altro gran beneficio che fece loro il Cielo quando regnava in terra. E dopo quello de’ fulmini, gli piú augusti auspíci furon osservati i voli dell’aquile, che Messala e Corvino dissero «auspíci maggiori» ovvero «pubblici», de’ quali intendevano i patrizi romani quando nelle contese eroiche replicavano alla plebe «auspicia esse sua». Tutto ciò, dalla provvedenza ordinato per dar principio all’uman genere gentilesco, Platone stimò essere stati scorti provvedimenti umani de’ primi fondatori delle cittá. Ma nella barbarie ricorsa, che dappertutto distruggeva le cittá, nella stessa guisa si salvarono le famiglie, onde provennero le novelle nazioni d’Europa; e ne restarono agl’italiani dette «castella» tutte le signorie che novellamente vi sursero, perché generalmente s’osserva le cittá piú antiche e quasi tutte le capitali de’ popoli essere poste sull’alto de’ monti, ed al contrario i villaggi sparsi per le pianure: onde debbono venire quelle frasi latine «summo loco», «illustri loco nati» per significar «nobili», e «imo loco», «obscuro loco nati» per dir «plebei», perché, come vedremo appresso, gli eroi abitavano le cittá, i famoli le campagne.

[526] Però, sopra tutt’altro, per le fontane perenni fu detto da’ politici che la comunanza dell’acqua fusse stata l’occasione che da presso vi si unissero le famiglie, e che quindi le prime comunanze si dicessero φρατρίαι da’ greci, siccome le prime terre vennero dette «pagi» a’ latini, come da’ greci dori fu la fonte chiamata παγά: ch’è l’acqua, prima delle due principali solennitá delle nozze. Le quali da’ romani si celebravano aqua et igni, perché i primi matrimoni naturalmente si contrassero tra uomini e donne ch’avevano l’acqua e il fuoco comune,

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e sí erano d’una stessa famiglia; onde, come sopra si è detto, da’ fratelli e sorelle dovettero incominciare. Del qual fuoco era dio il lare di ciascheduna casa; dalla qual origine vien detto «focus laris» il fuocolaio, dove il padre di famiglia sagrificava agli dèi della casa. I quali nella legge delle XII Tavole, al capo De parricidio, secondo la lezione di Giacomo Revardo, son detti «deivei parentum»; e nella sagra storia si legge sí frequente una simil espressione: «Deus parentum nostrorum», come piú spiegatamente: «Deus Abraham, Deus Isac, Deus Iacob». D’intorno a che è quella tralle leggi di Cicerone cosí conceputa: «Sacra familiaria perpetua manento»; ond’è la frase, sí spessa nelle leggi romane, con la quale un figliuol di famiglia si dice essere «in sacris paternis», e si dice «sacra patria» essa paterna potestá, le cui ragioni ne’ primi tempi, come si dimostra in quest’opera, erano tutte credute sagre. Cotal costume si ha a dire essere stato osservato da’ barbari i quali vennero appresso: perché in Firenze, a’ tempi di Giovanni Boccaccio (come l’attesta nella Geanologia degli dei), nel principio di ciascun anno il padre di famiglia, assiso nel focolaio a capo di un ceppo a cui s’appiccava il fuoco, gli dava l’incenso e vi spargeva del vino; lo che dalla nostra bassa plebe napoletana si osserva la sera della vigilia del santo Natale, che ’l padre di famiglia solennemente deve appiccare il fuoco ad un ceppo sí fatto nel fuocolaio; e per lo Reame di Napoli le famiglie dicono noverarsi per fuochi. Quindi, fondate le cittá, venne l’universal costume che i matrimoni si contraggono tra’ cittadini; e finalmente restò quello: che, ove si contraggono con istranieri, abbiano almen tra loro la religione comune.

[527] Ora, ritornando dal fuoco all’acqua, Stige, per cui giuravano i dèi, fu la sorgiva delle fontane: ove gli dèi debbon esser i nobili dell’eroiche cittá (come si è sopra detto), perché la comunanza di tal acqua aveva fatto loro i regni sopra degli uomini; onde fin al CCCIX di Roma i patrizi tennero i connubi incommunicati alla plebe, come se n’è detto alquanto sopra e piú appresso se ne dirá. Per tutto ciò nella storia sagra si leggono sovente o «pozzo del giuramento» o «giuramento del pozzo»:

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ond’esso nome serba questa tanto grande antichitá alla cittá di Pozzuoli, che fu detto «Puteoli» da piú piccioli pozzi uniti; ed è ragionevole congettura, fondata sul dizionario mentale ch’abbiamo detto, che tante cittá sparse per le antiche nazioni che si dicono nel numero del piú, da questa cosa, una in sostanza, si appellarono, con favella articolata, diversamente.

[528] Quivi si fantasticò la terza deitá maggiore, la qual fu Diana; che fu la prima umana necessitá, la quale si fece sentir a’ giganti fermati in certe terre e congionti in matrimonio con certe donne. Ci lasciarono i poeti teologi descritta la storia di queste cose con due favole di Diana. Delle quali una ce ne significa la pudicizia de’ matrimoni: ch’è quella di Diana, la quale, tutta tacita, al buio di densa notte, si giace con Endimione dormente; talch’è casta Diana di quella castitá onde una delle leggi di Cicerone comanda «Deos caste adeunto» (che si andasse a sagrificare, fatte le sagre lavande prima). L’altra ce ne narra la spaventosa religione de’ fonti, a’ quali restò il perpetuo aggiunto di «sagri»: ch’è quella d’Atteone, il quale, veduta Diana ignuda (la fontana viva), dalla dea spruzzato d’acqua (per dire che la dea gli gittò sopra il suo grande spavento), divenne cervo (lo piú timido degli animali) e fu sbranato da’ suoi cani (da’ rimorsi della propia coscienza per la religion violata); talché «lymphati» (propiamente «spruzzati d’acqua pura», ché tanto vuol dire «lympha») dovettero dapprima intendersi cotali Atteoni impazzati di superstizioso spavento. La qual istoria poetica serbarono i latini nella voce «latices» (che debbe venire a «latendo»), c’hanno l’aggiunto perpetuo di «puri», e significano l’acqua che sgorga dalla fontana. E tali «latices» de’ latini devon essere le ninfe compagne di Diana appo i greci, a’ quali «nymphae» significavano lo stesso che «lymphae»; e tali ninfe furon dette da’ tempi ch’apprendevano tutte le cose per sostanze animate e, per lo piú, umane, come sopra si è nella Metafisica ragionato.

[529] Appresso, i giganti pii, che furon i postati ne’ monti, dovettero risentirsi del putore che davano i cadaveri de’ lor trappassati, che marcivano loro da presso sopra la terra; onde si diedero

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a seppellirgli (de’ quali si sono truovati e tuttavia si ritruovano vasti teschi ed ossa per lo piú sopra l’alture de’ monti; ch’è un grand’argomento che de’ giganti empi, dispersi per le pianure e le valli dappertutto, i cadaveri marcendo inseppolti, furono i teschi e l’ossa o portati in mar da’ torrenti o macerati alfin dalle piogge), e sparsero i sepolcri di tanta religione, o sia divino spavento, che «religiosa loca» per eccellenza restaron detti a’ latini i luoghi ove fussero de’ sepolcri. E quivi cominciò l’universale credenza, che noi pruovammo sopra ne’ Princípi (de’ quali questo era il terzo che noi abbiamo preso di questa Scienza), cioè dell’immortalitá dell’anime umane, le quali si dissero «dii manes» e nella legge delle XII Tavole, al capo De parricidio, «deivei parentum» si appellano. Altronde essi dovettero, in segno di seppoltura, o sopra o presso a ciascun tumulo, che altro dapprima non poté essere propiamente che terra alquanto rilevata (come de’ Germani antichi, i quali ci dan luogo di congetturare lo stesso costume di tutte l’altre prime barbare nazioni, al riferire di Tacito, stimavano di non dover gravare i morti di molta terra; ond’è quella preghiera per gli difonti: «Sit tibi terra levis»); dovettero, diciamo, in segno di seppoltura ficcar un ceppo, detto da’ greci φύλαξ che significa «custode», perché credevano, i semplici, che cotal ceppo il guardasse; e «cippus» a’ latini restò a significare «sepolcro», ed agl’italiani «ceppo» significa «pianta d’albero geanologico». Onde dovette venir a’ greci φυλή, che significa «tribú»: e i romani descrivevano le loro geanologie disponendo le statue de’ lor antenati nelle sale delle loro case per fili, che dissero «stemmata» (che dev’aver origine da «temen», che vuol dir «filo»; ond’è «subtemen», «filato», che si stende sotto nel tessersi delle tele); i quali fili geanologici poi da’ giureconsulti si dissero «lineae», e quindi «stemmata» restarono in questi tempi a significare «insegne gentilizie». Talch’è forte congettura che le prime terre con tali seppelliti sieno stati i primi scudi delle famiglie; onde dev’intendersi il motto della madre spartana, che consegna lo scudo al figliuolo che va alla guerra, dicendo: «aut cum hoc, aut in hoc», volendo dire «ritorna o con questo
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o sopra una bara»; siccome oggi in Napoli tuttavia la bara si chiama «scudo». E perché tai sepolcri erano nel fondo de’ campi, che prima furon da semina, quindi gli scudi nella scienza del blasone son diffiniti il «fondamento del campo», che poi fu detto «dell’armi».

[530] Da sí fatta origine dee esser venuto detto «filius», il quale, distinto col nome o casato del padre, significò «nobile»; appunto come il patrizio romano udimmo sopra diffinito «qui potest nomine ciere patrem»: del qual «nome» de’ romani vedemmo sopra esser a livello il patronimico, il quale sí spesso usarono i primi greci, onde da Omero si dicono «filii Achivorum» gli eroi, siccome nella sagra storia «filii Israël» sono significati i nobili del popolo ebreo. Talché è necessario che, se le tribú dapprima furono de’ nobili, dapprima di soli nobili si composero le cittá, come appresso dimostreremo.

[531] Cosí con essi sepolcri de’ loro seppelliti i giganti dimostravano la signoria delle loro terre; lo che restò in ragion romana di seppellire il morto in un luogo propio, per farlo religioso. E dicevano con veritá quelle frasi eroiche: «noi siamo figliuoli di questa terra», «siamo nati da queste roveri»; come i capi delle famiglie da’ latini si dissero «stirpes» e «stipites», e la discendenza di ciascheduno fu chiamata «propago»; ed esse famiglie dagl’italiani furon appellate «legnaggi»; e le nobilissime case d’Europa e quasi tutte le sovrane prendono i cognomi dalle terre da esse signoreggiate. Onde, tanto in greco quanto in latino, egualmente, «figliuol della Terra» significò lo stesso che «nobile»: ed a’ latini «ingenui» significano «nobili», quasi «indegeniti» e piú speditamente «ingeniti»; come certamente «indigenae» restaron a significare i natii d’una terra, e «dii indigetes» si dissero i dèi natii, che debbon essere stati i nobili dell’eroiche cittá, che si appellarono «dèi», come sopra si è detto, de’ quali dèi fu gran madre la Terra. Onde da principio «ingenuus» e «patricius» significarono «nobile», perché le prime cittá furono de’ soli nobili; e questi «ingenui» devon essere stati gli aborigini, detti quasi «senza origini» ovvero «da sé nati», a’ quali rispondono a livello gli αὐτόχθονες/

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che dicono i greci. E gli aborigini furon giganti, e «giganti» propiamente significano «figliuoli della Terra»; e cosí la Terra ci fu fedelmente narrata dalle favole essere stata madre de’ giganti e dei dèi.

[532] Le quali cose tutte sopra si sono da noi ragionate, e qui, ch’era luogo loro propio, si son ripetute per dimostrare che Livio mal attaccò cotal frase eroica a Romolo e a’ padri, di lui compagni, ove ai ricorsi nell’asilo aperto nel luco gli fa dire «esser essi figliuoli di quella terra», e’ n bocca loro fa divenire sfacciata bugia quella che ne’ fondatori de’ primi popoli era stata un’eroica veritá: tra perché Romolo era conosciuto reale d’Alba, e perché tal madre era stata loro pur troppo iniqua a produrre de’ soli uomini, tanto ch’ebbero bisogno di rapir le sabine per aver donne. Onde hassi a dire che, per la maniera di pensare de’ primi popoli per caratteri poetici, a Romolo, guardato come fondatore di cittá, furon attaccate le propietá de’ fondatori delle cittá prime del Lazio, in mezzo a un gran numero delle quali Romolo fondò Roma. Col qual errore va di concerto la diffinizione che lo stesso Livio dá dell’asilo: che fusse stato «vetus urbes condentium consilium»; che ne’ primi fondatori delle cittá, ch’erano semplici, non giá consiglio, ma fu natura che serviva alla provvedenza.

[533] Quivi si fantasticò la quarta divinitá delle genti dette «maggiori», che fu Apollo, appreso per dio della luce civile; onde gli eroi si dissero κλειτοί («chiari») da’ greci, da κλέος («gloria»), e si chiamarono «inclyti» da’ latini, da «cluer», che significa «splendore d’armi», ed in conseguenza da quella luce alla quale Giunone Lucina portava i nobili parti. Talché, dopo Urania — che sopra abbiam veduto esser la musa ch’Omero diffinisce «scienza del bene e del male», o sia la divinazione, come si è sopra detto, per la quale Apollo è dio della sapienza poetica ovvero della divinitá — quivi dovette fantasticarsi la seconda delle muse, che dev’essere stata Clio, la quale narra la storia eroica; e la prima storia sí fatta dovette incominciare dalle geanologie di essi eroi, siccome la sagra storia comincia dalle discendenze de’ patriarchi. A sí fatta storia dá Apollo il principio

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da ciò: che perseguita Dafne, donzella vagabonda che va errando per le selve (nella vita nefaria); e questa con l’aiuto ch’implorò degli dèi (de’ quali bisognavano gli auspíci ne’ matrimoni solenni), fermandosi, diventa lauro (pianta che sempre verdeggia nella certa e conosciuta sua prole, in quella stessa significazione ch’i latini «stipites» dissero i ceppi delle famiglie; e la barbarie ricorsa ci riportò le stesse frasi eroiche, ove dicono «alberi» le discendenze delle medesime, e i fondatori chiamano «ceppi» e «pedali», e le discendenze de’ provenuti dicono «rami», ed esse famiglie dicon «legnaggi»). Cosí il seguire d’Apollo fu propio di nume, il fuggire di Dafne propio di fiera; ma poi, sconosciuto il parlare di tal istoria severa, avvenne che ’l seguire d’Apollo fu d’impudico, il fuggire di Dafne fu di donna.

[534] Di piú Apollo è fratello di Diana, perché con le fontane perenni ebbero l’agio di fondarsi le prime genti sopra de’ monti; ond’egli ha la sua sede sopra il monte Parnaso, dove abitano le muse (che sono l’arti dell’umanitá), e presso il fonte Ippocrene, delle cui acque bevono i cigni, uccelli canori di quel «canere» o «cantare» che significa «predire» a’ latini; con gli auspíci d’un de’ quali, come si è sopra detto, Leda concepisce le due uova, e da uno partorisce Elena e dall’altro Castore e Polluce ad un parto.

[535] Ed Apollo e Diana sono figliuoli di Latona, detta da quel «latere» o «nascondersi» onde si disse «condere gentes», «condere regna», «condere urbes», e particolarmente in Italia fu detto «Latium». E Latona gli partorí presso l’acque delle fontane perenni, ch’abbiamo detto; al cui parto gli uomini diventaron ranocchie, le quali nelle piogge d’está nascono dalla terra, la qual fu detta «madre de’ giganti», che sono propiamente della Terra figliuoli. Una delle quali ranocchie è quella che a Dario manda Idantura; e devon essere le tre ranocchie e non rospi nell’arme reale di Francia, che poi si cangiarono in gigli d’oro, dipinte col superlativo del «tre», che restò ad essi francesi per significare una ranocchia grandissima, cioè un grandissimo figliuolo, e quindi signor della terra.

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[536] Entrambi son cacciatori, che con alberi spiantati, uno de’ quali è la clava d’Ercole, uccidono fiere, prima per difendere sé e le loro famiglie (non essendo loro piú lecito, come a’ vagabondi della vita eslege, di camparne fuggendo), di poi per nudrirsene essi con le loro famiglie. Come Virgilio di tali carni fa cibare gli eroi, e i Germani antichi, al riferire di Tacito, per tal fine con le loro mogli ivano cacciando le fiere.

[537] Ed è Apollo dio fondatore dell’umanitá e delle di lei arti, che testé abbiam detto esser le muse, le quali arti da’ latini si dicono «liberales» in significato di «nobili», una delle quali è quella di cavalcare: onde il Pegaso vola sopra il monte Parnaso, il quale è armato d’ali, perch’è in ragione de’ nobili; e nella barbarie ricorsa, perch’essi soli potevano armare a cavallo, i nobili dagli spagnuoli se ne dissero «cavalieri». Essa umanitá ebbe incominciamento dall’«humare», «seppellire» (il perché le seppolture furono da noi prese per terzo principio di questa Scienza); onde gli ateniesi, che furono gli umanissimi di tutte le nazioni, al riferire di Cicerone, furon i primi a seppellire i lor morti.

[538] Finalmente Apollo è sempre giovine (siccome la vita di Dafne sempre verdeggia, cangiata in lauro), perché Apollo, coi «nomi» delle prosapie, eterna gli uomini nelle loro famiglie. Egli porta la chioma in segno di nobiltá; e ne restò costume a moltissime nazioni di portar chioma i nobili, e si legge tralle pene de’ nobili appo i persiani e gli americani di spiccare uno o piú capelli dalla lor chioma, e forse quindi dissero la «Gallia comata» da’ nobili che fondaron tal nazione, come certamente appo tutte le nazioni agli schiavi si rade il capo.

[539] Ma — stando essi eroi fermi dentro circoscritte terre, ed essendo cresciute in numero le lor famiglie, né bastando loro i frutti spontanei della natura, e temendo per averne copia d’uscire da’ confini che si avevano essi medesimi circoscritti per quelle catene della religione ond’i giganti erano incatenati per sotto i monti, ed avendo la medesima religione insinuato loro di dar fuoco alle selve per aver il prospetto del cielo, onde venissero loro gli auspíci, — si diedero con molta, lunga,

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dura fatiga a ridurre le terre a coltura e seminarvi il frumento, il quale, brustolito tra gli dumeti e spinai, avevano forse osservato utile per lo nutrimento umano. E qui, con bellissimo naturale necessario trasporto, le spighe del frumento chiamarono «poma d’oro», portando innanzi l’idea delle poma, che sono frutte della natura che si raccogliono l’está, alle spighe, che pur d’está si raccogliono dall’industria.

[540] Da tal fatiga, che fu la piú grande e piú gloriosa di tutte, spiccò altamente il carattere d’Ercole, che ne fa tanta gloria a Giunone, che comandolla per nutrir le famiglie. E, con altrettanto belle quanto necessarie metafore, fantasticarono la terra per l’aspetto d’un gran dragone, tutto armato di squame e spine (ch’erano i di lei dumeti e spinai), finto alato (perché i terreni erano in ragion degli eroi), sempre vegghiante (cioè sempre folta), che custodiva le poma d’oro negli Orti esperidi, e dall’umidore dell’acque del diluvio fu poi il dragone creduto nascere in acqua. Per un altro aspetto fantasticarono un’idra (che pur viene detta da ὕδωρ, «acqua»), che, recisa ne’ suoi capi, sempre in altri ripullulava; cangiante di tre colori: di nero (bruciata), di verde (in erbe), d’oro (in mature biade); de’ quali tre colori la serpe ha distinta la spoglia, e invecchiando la rinnovella. Finalmente, per l’aspetto della ferocia ad esser domata, fu finta un animale fortissimo (onde poi al fortissimo degli animali fu dato nome «lione»), ch’è ’l lione nemeo, che i filologi pur vogliono essere stato uno sformato serpente. E tutti vomitan fuoco, che fu il fuoco ch’Ercole diede alle selve.

[541] Queste furono tre storie diverse in tre diverse parti di Grecia, significanti una stessa cosa in sostanza. Come in altra fu quell’altra pur d’Ercole, che bambino uccide le serpi in culla (cioè nel tempo dell’eroismo bambino). In altra Bellerofonte uccide il mostro detto Chimera, con la coda di serpe, col petto di capra (per significar la terra selvosa) e col capo di lione, che pur vomita fiamme. In Tebe è Cadmo ch’uccide pur la gran serpe e ne semina i denti (con bella metafora chiamando «denti della serpe» i legni curvi piú duri, co’ quali, innanzi

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di truovarsi l’uso del ferro, si dovette arare la terra); e Cadmo divien esso anco serpe (che gli antichi romani arebbero detto che Cadmo «fundus factus est»), come alquanto si è spiegato sopra e sará spiegato molto piú appresso, ove vedremo le serpi nel capo di Medusa e nella verga di Mercurio aver significato «dominio di terreni»; e ne restò ὠφέλεια (da ὄφις, «serpe») detto il terratico, che fu pur detto «decima d’Ercole». Nel qual senso appo Omero si legge che l’indovino Calcante la serpe, la qual si divora gli otto passarini e la madre altresí, interpetra la terra troiana ch’a capo di nove anni verrebbe in dominio de’ greci; e i greci, mentre combattono co’ troiani, una serpe uccisa in aria da un’aquila, che cade in mezzo alla lor battaglia, prendono per buon augurio, in conformitá della scienza dell’indovino Calcante. Perciò Proserpina, che fu la stessa che Cerere, si vede ne’ marmi rapita in un carro tratto da serpi; e le serpi si osservano sí spesse nelle medaglie delle greche repubbliche.

[542] Quindi per lo dizionario mentale (ed è cosa degna di riflettervi) gli re americani, al cantare di Fracastoro la sua Sifilide, furono ritruovati, invece di scettro, portar una spoglia secca di serpe. E i chinesi caricano di un dragone la lor arme reale e portano un dragone per insegna dell’imperio civile, che dev’essere stato Dragone ch’agli ateniesi scrisse le leggi col sangue; e noi sopra dicemmo tal Dragone essere una delle serpi della Gorgone, che Perseo inchiovò al suo scudo, che fu quello poi di Minerva, dea degli ateniesi, col cui aspetto insassiva il popolo riguardante, che truoverassi essere stato geroglifico dell’imperio civile d’Atene. E la Scrittura sagra, in Ezechiello, dá al re di Egitto il titolo di «gran dragone» che giace in mezzo a’ suoi fiumi, appunto come sopra si è detto i dragoni nascer in acqua e l’idra aver dall’acqua preso tal nome. L’imperador del Giappone ne ha fatto un ordine di cavalieri, che portano per divisa un dragone. E de’ tempi barbari ritornati narrano le storie che per la sua gran nobiltá fu chiamata al ducato di Melano la casa Visconti, la quale carica lo scudo d’uno dragone che divora un fanciullo; ch’è appunto il Pitone,

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il quale divorava gli uomini greci e fu ucciso da Apollo, ch’abbiamo ritruovato dio della nobiltá: nella qual impresa dee far maraviglia l’uniformitá del pensar eroico degli uomini di questa barbarie seconda con quella degli antichissimi della prima. Questi adunque devon essere i due dragoni alati, che sospendono la collana delle pietre focaie, ch’accesero il fuoco che essi vomitano, e sono due tenenti del Toson d’oro, che ’l Chiflezio, il quale scrisse l’istoria di quell’insigne ordine, non poté intendere, onde il Pietrasanta confessa esserne oscura l’istoria.

[543] Come in altre parti di Grecia fu Ercole ch’uccise le serpi, il lione, l’idra, il dragone; in altra, Bellerofonte ch’ammazzò la Chimera: cosí in altra fu Bacco ch’addimestica tigri, che dovetter esser le terre vestite cosí di vari colori come le tigri han la pelle, e passonne poi il nome di «tigri» agli animali di tal fortissima spezie. Perché aver Bacco dome le tigri col vino è un’istoria fisica, che nulla apparteneva a sapersi dagli eroi contadini ch’avevano da fondare le nazioni; oltreché nommai Bacco ci fu narrato andar in Affrica o in Ircania a domarle in que’ tempi, ne’ quali, come dimostreremo nella Geografia poetica, non potevano saper i greci se nel mondo fusse l’Ircania e molto meno l’Affrica, nonché tigri nelle selve d’Ircania o ne’ deserti dell’Affrica.

[544] Di piú le spighe del frumento dissero «poma d’oro», che dovett’essere il primo oro del mondo, nel tempo che l’oro metallo era in zolle, né se ne sapeva ancor l’arte di ridurlo purgato in massa, nonché di dargli lustro e splendore; né, quando si beveva l’acqua dalle fontane, se ne poteva punto pregiare l’uso. Il quale poi, dalla somiglianza del colore e sommo pregio di cotal cibo in que’ tempi, per trasporto fu detto «oro»; onde dovette Plauto dire «thesaurum auri», per distinguerlo dal «granaio». Perché certamente Giobbe, tralle grandezze dalle quali egli era caduto, novera quella: ch’esso mangiava pan di frumento; siccome ne’ contadi delle nostre piú rimote provincie si ha, a luogo di quello che sono nelle cittá le «pozioni gemmate», gli ammalati cibarsi di pan di grano, e si dice «l’infermo si ciba di pan di grano» per significare lui essere nell’ultimo di sua vita.

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[545] Appresso, spiegando piú l’idea di tal pregio e carezza, dovettero dire «d’oro» le belle lane; onde appo Omero si lamenta Atreo che Tieste gli abbia le pecore d’oro rubato; e gli argonauti rubarono il vello d’oro da Ponto. Perciò lo stesso Omero appella i suoi re o eroi col perpetuo aggiunto di πολύ--/ μηλος, ch’interpetrano «ricchi di greggi»; siccome dagli antichi latini, con tal uniformitá d’idee, il patrimonio si disse «pecunia», ch’i latini gramatici vogliono esser detta a «pecude»; come appo i Germani antichi, al narrare di Tacito, i greggi e gli armenti «solae et gratissimae opes sunt»: il qual costume deve esser lo stesso degli antichi romani, da’ quali il patrimonio si diceva «pecunia», come l’attesta la legge delle XII Tavole, al capo De’ testamenti. E μῆλον significa e «pomo» e «pecora» ai greci, i quali, forse anche con l’aspetto di pregevole frutto, dissero μέλι il mèle; e gl’italiani dicono «meli» esse poma.

[546] Talché queste del frumento devon essere state le poma d’oro, le quali prima di tutt’altri Ercole riporta ovvero raccoglie da Esperia; e l’Ercole gallico con le catene di quest’oro, le quali gli escon di bocca, incatena gli uomini per gli orecchi, come appresso si truoverá esser un’istoria d’intorno alla coltivazione de’ campi. Quindi Ercole restò nume propizio a ritruovare tesori, de’ quali era dio Dite, ch’è ’l medesimo che Plutone, il quale rapisce nell’inferno Proserpina, che truoverassi la stessa che Cerere (cioè il frumento), e la porta nell’inferno narratoci da’ poeti, appo i quali il primo fu dov’era Stige, il secondo dov’erano i seppelliti, il terzo il profondo de’ solchi, come a suo luogo si mostrerá. Dal qual dio Dite son detti «dites» i ricchi; e i ricchi eran i nobili, ch’appo gli spagnuoli si dicono «ricos hombres», ed appo i nostri anticamente si dissero «benestanti»; ed appo i latini si disse «ditio» quella che noi diciamo «signoria d’uno Stato», perché i campi colti fanno la vera ricchezza agli Stati, onde da’ medesimi latini si disse «ager» il distretto d’una signoria, ed «ager», propiamente, è la terra che «aratro agitur». Cosí dev’esser vero che ’l Nilo fu detto χρυσορόης, «scorrente oro», perché allaga i larghi campi d’Egitto, dalle cui innondazioni vi proviene la grande

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abbondanza delle raccolte: cosí «fiumi d’oro» detti il Pattolo, il Gange, l’Idaspe, il Tago, perché fecondano le campagne di biade. Di queste poma d’oro certamente Virgilio, dottissimo dell’eroiche antichitá, portando innanzi il trasporto, fece il ramo d’oro che porta Enea nell’inferno; la qual favola qui appresso, ove sará suo piú pieno luogo, si spiegherá. Del rimanente, l’oro metallo non si tenne a’ tempi eroici in maggior pregio del ferro: come Tearco, re di Etiopia, agli ambasciadori di Cambise, i quali gli avevano presentato da parte del loro re molti vasi d’oro, rispose non riconoscerne esso alcun uso e molto meno necessitá, e ne fece un rifiuto naturalmente magnanimo; appunto come degli antichi Germani (ch’in tali tempi si truovarono essere questi antichissimi eroi i quali ora stiam ra– gionando) Tacito narra: Est videre apud illos argentea vasa legatis et principibus eorum muneri data, non alia vilitate quam quae humo finguntur. Perciò appo Omero nell’armarie degli eroi si conservano con indifferenza armi d’oro e di ferro, perché il primo mondo dovette abbondare di sí fatte miniere (siccome fu ritruovata nel suo scuoprimento l’America), e che poi dall’umana avarizia fussero esauste.

[547] Da tutto lo che esce questo gran corollario: che la divisione delle quattro etá del mondo, cioè d’oro, d’argento, di rame e di ferro, è ritruovato de’ poeti de’ tempi bassi; perché quest’oro poetico, che fu il frumento, diede appo i primi greci il nome all’etá dell’oro, la cui innocenza fu la somma selvatichezza de’ polifemi (ne’ quali riconosce i primi padri di famiglia, come altre volte si è sopra detto, Platone), che si stavano tutti divisi e soli per le loro grotte con le loro mogli e figliuoli, nulla impacciandosi gli uni delle cose degli altri, come appo Omero raccontava Polifemo ad Ulisse.

[548] In confermazione di tutto ciò che finora dell’oro poetico si è qui detto, giova arrecare due costumi, ch’ancor si celebrano, de’ quali non si possono spiegar le cagioni se non sopra questi princípi. Il primo è del pomo d’oro, che si pone in mano agli re tralle solennitá della lor coronazione; il quale dev’esser lo stesso che nelle lor imprese sostengono in cima alle loro

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corone reali. Il qual costume non può altronde aver l’origine che dalle poma d’oro, che diciamo qui, del frumento, che anco qui si truoveranno essere stato geroglifico del dominio ch’avevano gli eroi delle terre (che forse i sacerdoti egizi significarono col pomo, se non è uovo, in bocca del loro Cnefo, del quale appresso ragionerassi), e che tal geroglifico ci sia stato portato da’ barbari, i quali invasero tutte le nazioni soggette all’imperio romano. L’altro costume è delle monete d’oro, che tralle solennitá delle loro nozze gli re donano alle loro spose regine; che devono venire da quest’oro poetico del frumento che qui diciamo (tanto che esse monete d’oro significano appunto le nozze eroiche che celebrarono gli antichi romani «coëmptione et farre»), in conformitá degli eroi, che racconta Omero che con le doti essi comperavan le mogli. In una pioggia del qual oro dovette cangiarsi Giove con Danae, chiusa in una torre (che dovett’esser il granaio), per significare l’abbondanza di questa solennitá; con che si confá a maraviglia l’espression ebrea «et abundantia in turribus tuis». E ne fermano tal congettura i britanni antichi, appo i quali gli sposi, per solennitá delle nozze, alle spose rigalavano le focacce.

[549] Al nascere di queste cose umane, nelle greche fantasie si destarono tre altre deitadi delle genti maggiori, con quest’ordine d’idee, corrispondente all’ordine d’esse cose: prima Vulcano, appresso Saturno (detto a «satis», da’ seminati; onde l’etá di Saturno de’ latini risponde all’etá dell’oro de’ greci) e in terzo luogo fu Cibele o Berecintia, la terra colta. E perciò si pinge assisa sopra un lione (ch’è la terra selvosa, che ridussero a coltura gli eroi, come si è sopra spiegato); detta «gran madre degli dèi», e «madre» detta ancor «de’ giganti» (che, propiamente, cosí furon detti nel senso di «figliuoli della Terra», come sopra si è ragionato); talché è madre degli dèi (cioè de’ giganti, che nel tempo delle prime cittá s’arrogarono il nome di «dèi», come pur sopra si è detto), e l’è consegrato il pino (segno della stabilitá onde gli autori de’ popoli, stando fermi nelle prime terre, fondarono le cittá, dea delle quali è Cibele). Fu ella detta Vesta, dea delle divine

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cerimonie appresso i romani, perché le terre, in tal tempo arate, furono le prime are del mondo (come vedremo nella Geografia poetica), dove la dea Vesta, con fiera religione armata, guardava il fuoco e ’l farro, che fu il frumento degli antichi romani. Onde appo gli stessi si celebrarono le nozze «aqua et igni» e col farro, che si chiamavano «nuptiae confarreatae», che restarono poi a’ soli lor sacerdoti, perché le prime famiglie erano state tutte di sacerdoti (come si sono ritruovati i regni de’ bonzi nell’Indie orientali); e l’acqua e ’l fuoco e ’l farro furono gli elementi delle divine cerimonie romane. Sopra queste prime terre Vesta sagrificava a Giove gli empi dell’infame comunione, i quali violavano i primi altari (che abbiam sopra detto esser i primi campi del grano, come appresso si spiegherá); che furono le prime ostie, le prime vittime delle gentilesche religioni: detti «Saturni hostiae», come si è osservato sopra, da Plauto; detti «victimae» a «victis», dall’esser deboli, perché soli (ch’in tal sentimento di «debole» è pur rimasto a’ latini «victus»); e detti «hostes», perché furon tali empi, con giusta idea, riputati nimici di tutto il gener umano. E restonne a’ romani e le vittime e l’ostie impastarsi e la fronte e le corna di farro. Da tal dea Vesta i medesimi romani dissero «vergini vestali» quelle che guardavano il fuoco eterno, il quale, se per mala sorte spegnevasi, si doveva riaccender dal sole, perché dal sole, come vedremo appresso, Prometeo rubò il primo fuoco e portollo in terra tra’ greci, dal quale appiccato alle selve, incominciaron a coltivar i terreni. E per ciò Vesta è la dea delle divine cerimonie a’ romani, perché il primo «colere» che nacque nel mondo della gentilitá fu il coltivare la terra, e ’l primo culto fu ergere sí fatti altari, accendervi tal primo fuoco e farvi sopra sacrifici, come testé si è detto, degli uomini empi.

[550] Tal è la guisa con la quale si posero e si custodirono i termini ai campi. La qual divisione, come si è narrata troppo generalmente da Ermogeniano giureconsulto — che si è immaginata fatta per deliberata convenzione degli uomini, e riuscita con tanta giustizia e osservata con altrettanto di buona fede,

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in tempi che non vi era ancora forza pubblica d’armi, e ’n conseguenza niuno imperio civile di leggi, — non può affatto intendersi che con l’essere stata fatta tra uomini sommamente fieri ed osservanti d’una qualche spaventosa religione, che gli avesse fermi e circoscritti entro di certe terre, e con queste sanguinose cerimonie avessero consagrato le prime mura, che pur i filologi dicono essere state descritte da’ fondatori delle cittá con l’aratro, la cui curvatura, per le origini delle lingue che si sono sopra scoverte, dovette dirsi dapprima «urbs», ond’è l’antico «urbum», che vuol dire «curvo». Dalla quale stessa origine forse è «orbis»; talché dapprima «orbis terrae» dovett’essere ogni ricinto sí fatto, cosí basso che Remo passò con un salto e vi fu ucciso da Romolo, e gli storici latini narrano aver consegrato col suo sangue le prime mura di Roma. Talché tal ricinto dovett’essere una siepe (ed appo i greci «σῆψ»/ significa «serpe», nel suo significato eroico di «terra colta»); dalla quale origine deve venir detto «munire viam», lo che si fa con afforzare le siepi a’ campi; onde le mura son dette «moenia», quasi «munia», come «munire» certamente restò per «fortificare». Tali siepi dovetter esser piantate di quelle piante ch’i latini dissero «sagmina», cioè di sanginelli, sambuci, che finoggi ne ritengono e l’uso e ’l nome; e si conservò tal voce «sagmina» per significar l’erbe di che si adornavan gli altari, e dovettero cosí dirsi dal «sangue» degli ammazzati, che, come Remo, trascese l’avessero. Di che venne la santitá alle mura, come si è detto; ed agli araldi altresí, che, come vedremo appresso, si coronavano di sí fatt’erbe, come certamente gli antichi ambasciadori romani il facevano con quelle còlte dalla ròcca del Campidoglio; e finalmente alle leggi ch’essi araldi portavano o della guerra o della pace: ond’è detta «sanctio» quella parte della legge ch’impon la pena a’ di lei trasgressori. E quindi comincia quello che noi pruoviamo in quest’opera: che ’l diritto natural delle genti fu dalla divina provvedenza ordinato tra’ popoli privatamente, il quale, nel conoscersi tra di loro, riconobbero esser loro comune. Ché, perché gli araldi romani consagrati con sí fatt’erbe fussero inviolati
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tra gli altri popoli del Lazio, è necessario che quelli, senza saper nulla di questi, celebrassero lo stesso costume.

[551] Cosí i padri di famiglia apparecchiarono la sussistenza alle loro famiglie eroiche con la religione, la qual esse con la religione si dovessero conservare. Onde fu perpetuo costume de’ nobili d’esser religiosi, come osserva Giulio Scaligero nella Poetica: talché dee esser un gran segno che vada a finire una nazione, ove i nobili disprezzano la loro religione natia.

[552] Si è comunemente oppinato, e da’ filologi e da’ filosofi, che le famiglie nello stato che dicesi «di natura» sieno state non d’altri che di figliuoli; quando elleno furono famiglie anco de’ famoli, da’ quali principalmente furon dette «famiglie»: onde sopra tal monca iconomica stabilirono una falsa politica, come si è sopra accennato e pienamente appresso si mostrerá. Però noi da questa parte de’ famoli, ch’è propia della dottrina iconomica, incominceremo qui della politica a ragionare.

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[Capitolo Secondo]
Delle famiglie de’ famoli innanzi delle cittá, senza
le quali non potevano affatto nascere le cittá.

[553] Perché finalmente, a capo di lunga etá, de’ giganti empi, rimasti nell’infame comunione delle cose e delle donne, nelle risse ch’essa comunion produceva, come i giureconsulti pur dicono, gli scempi di Grozio, gli abbandonati di Pufendorfio, per salvarsi da’ violenti di Obbes (come le fiere, cacciate da intensissimo freddo, vanno talor a salvarsi dentro ai luoghi abitati), ricorsero alle are de’ forti; e quivi questi feroci, perché giá uniti in societá di famiglie, uccidevano i violenti ch’avevano violato le loro terre, e ricevevano in protezione i miseri da essolor rifuggiti. E oltre l’eroismo di natura, d’esser nati da Giove, o sia generati con gli auspíci di Giove, spiccò principalmente in essi l’eroismo della virtú, nel quale sopra tutti gli altri popoli della terra fu eccellente il romano, in usarne appunto queste due pratiche:

Parcere subiectis et debellare superbos.

[554] E qui si offre cosa degna di riflessione, per intendere quanto gli uomini dello stato ferino fossero stati feroci e indomiti dalla loro libertá bestiale a venire all’umana societá: che, per venir i primi alla prima di tutte, che fu quella de’ matrimoni, v’abbisognarono, per farglivi entrare, i pugnentissimi stimoli della libidine bestiale e, per tenerglivi dentro, v’abbisognarono i fortissimi freni di spaventose religioni, come sopra si è dimostrato. Da che provennero i matrimoni, i quali furono la prima amicizia che nacque al mondo; onde Omero, per significare che Giove e Giunone giacquero insieme, dice con eroica gravitá che tra loro «celebrarono l’amicizia», detta da’ greci φιλία/ dalla stessa origine ond’è φιλέω, «amo», e dond’è da’ latini

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detto «filius»; e φίλιος a’ greci ioni è l’«amico», e quindi a’ greci, con la mutazione d’una lettera vicina di suono, è φυλή/ la «tribú»; onde ancora vedemmo sopra «stemmata» essere stati detti i «fili geanologici», che da’ giureconsulti sono chiamati «lineae». Da questa natura di cose umane restò quest’eterna propietá: che la vera amicizia naturale egli è ’l matrimonio, nella quale naturalmente si comunicano tutti e tre i fini de’ beni, cioè l’onesto, l’utile e ’l dilettevole; onde il marito e la moglie corrono per natura la stessa sorte in tutte le prosperitá e avversitá della vita (appunto come per elezione è quello: «amicorum omnia sunt communia»), per lo che da Modestino fu il matrimonio diffinito «omnis vitae consortium».

[555] I secondi non vennero a questa seconda, ch’ebbe, per una certa eccellenza, il nome di «societá», come quindi a poco farem conoscere, che per l’ultime necessitá della vita. Ov’è degno pur di riflessione che, perché i primi vennero all’umana societá spinti dalla religione e da natural istinto di propagare la generazione degli uomini (l’una pia, l’altra propiamente detta gentil cagione), diedero principio ad un’amicizia nobile e signorile; e perché i secondi vi vennero per necessitá di salvare la vita, diedero principio alla «societá» che propiamente si dice, per comunicare principalmente l’utilitá, e, ’n conseguenza, vile e servile. Perciò tali rifuggiti furono dagli eroi ricevuti con la giusta legge di protezione, onde sostentassero la naturale lor vita con l’obbligo di servir essi da giornalieri agli eroi. Qui dalla «fama» di essi eroi (che principalmente s’acquista con praticar le due parti che testé dicemmo usare l’eroismo della virtú) e da tal mondano romore, ch’è la κλέος o «gloria» de’ greci, che vien detta «fama» a’ latini (come φήμη pur si dice da’ greci), i rifuggiti s’appellarono «famoli», da’ quali principalmente si dissero le «famiglie». Dalla qual fama certamente la sagra storia, narrando de’ giganti che furon innanzi il diluvio, gli diffinisce «viros famosos»: appunto come Virgilio ne descrisse la Fama starsi assisa sopra di un’alta torre (che sono le terre poste in alto de’ forti), che mette il capo entro il cielo (la cui altezza cominciò dalle cime

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de’ monti), alata (perch’era in ragion degli eroi; onde nel campo posto a Troia la Fama vola per mezzo alle schiere de’ greci eroi, non per mezzo alle caterve de’ lor plebei), [e] con la tromba (la qual dee essere la tromba di Clio, ch’è la storia eroica) celebra i nomi grandi (quanto lo furono di fondatori di nazioni).

[556] Or, in sí fatte famiglie innanzi delle cittá vivendo i famoli in condizione di schiavi (che furono gli abbozzi degli schiavi che poi si fecero nelle guerre, che nacquero dopo delle cittá; che sono quelli che da’ latini detti furono «vernae», da’ quali provennero le lingue da’ medesimi dette «vernaculae», come sopra si è ragionato), i figliuoli degli eroi, per distinguersi da quelli de’ famoli, si dissero «liberi», da’ quali infatti non si distinguevano punto: come de’ Germani antichi, i quali ci dánno ad intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari, Tacito narra che «dominum ac servum nullis educationis deliciis dignoscas»; come certamente tra’ romani antichi ebbero i padri delle famiglie una potestá sovrana sopra la vita e la morte de’ lor figliuoli ed un dominio dispotico sopra gli acquisti, onde infin a’ romani principi i figliuoli dagli schiavi di nulla si distinguevano ne’ peculi. Ma cotal voce «liberi» significò dapprima anco «nobili»; onde «artes liberales» sono «arti nobili», e «liberalis» restò a significare «gentile», e «liberalitas» «gentilezza», dalla stessa antica origine onde «gentes» erano state dette le «case nobili» da’ latini; perché, come vedremo appresso, le prime genti si composero di soli nobili, e i soli nobili furono liberi nelle prime cittá. Altronde i famoli furon detti «clientes», e dapprima «cluentes», dall’antico verbo «cluere», «risplendere di luce d’armi» (il quale splendore fu detto «cluer»), perché rifulgevano con lo splendore dell’armi ch’usavano i lor eroi, che dalla stessa origine si dissero dapprima «incluti» e dappoi «inclyti»: altrimente non erano ravvisati, come se non fusser tra gli uomini, com’appresso si spiegherá.

[557] E qui ebbero principio le clientele e i primi dirozzamenti de’ feudi, de’ quali abbiamo molto, appresso, da ragionare;

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delle quali clientele e clienti si leggono sulla storia antica sparse tutte le nazioni, come nelle Degnitá sta proposto. Ma Tucidide narra che nell’Egitto, anco a’ suoi tempi, le dinastie di Tane erano tutte divise tra padri di famiglie, principi pastori di famiglie sí fatte; ed Omero, quanti eroi canta, tanti chiama «re», e gli diffinisce «pastori de’ popoli», che dovetter esser innanzi di venire i pastori de’ greggi, come appresso dimostreremo. Tuttavia in Arabia, com’erano stati in Egitto, or ne sono in gran numero; e nell’Indie occidentali si truovò la maggior parte, in tale stato di natura, governarsi per famiglie sí fatte, affollate di tanto numero di schiavi, che diede da pensare all’imperador Carlo quinto, re delle Spagne, di porvi modo e misura. E con una di queste famiglie dovette Abramo far guerre co’ re gentili; i cui servi, co’ quai le fece, troppo al nostro proposito, dotti di lingua santa traducono «vernaculos», come poc’anzi «vernae» si sono da noi spiegati.

[558] Sul nascere di queste cose incominciò con veritá il famoso nodo erculeo, col quale i clienti si dissero «nexi» («annodati») alle terre che dovevano coltivare per gl’incliti; che passò poi in un nodo finto, come vedremo, nella legge delle XII Tavole, che dava la forma alla mancipazione civile, che solennizzava tutti gli atti legittimi de’ romani. Ora, perché non si può intendere spezie di societá né piú ristretta per parte di chi ha copia di beni, né, per chi ne ha bisogno, piú necessaria, quivi dovettero incominciare i primi soci nel mondo, che, come l’avvisammo nelle Degnitá, furon i soci degli eroi, ricevuti per la vita, come quelli ch’avevano arresa alla discrezion degli eroi la lor vita. Onde ad Antinoo, il capo de’ suoi soci, per una parola, quantunque dettagli a buon fine, perché non gli va all’umore, Ulisse vuol mozzare la testa; e ’l pio Enea uccide il socio Miseno, che gli bisognava per far un sacrifizio. Di che pure ci fu serbata una volgare tradizione; ma Virgilio, perché nella mansuetudine del popolo romano era troppo crudo ad udirsi di Enea, ch’esso celebra per la pietá, il saggio poeta finge che ucciso fu da Tritone, perché avesse osato con quello contendere in suon di tromba: ma nello stesso tempo ne dá

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troppo aperti motivi d’intenderlo, narrando la morte di Miseno tralle solennitá prescritte dalla Sibilla ad Enea, delle quali una era che gli bisognava innanzi seppellire Miseno per poter poi discendere nell’inferno; e apertamente dice che la Sibilla gliene aveva predetto la morte.

[559] Talché questi erano soci delle sole fatighe, ma non giá degli acquisti e molto meno della gloria, della quale rifulgevano solamente gli eroi, che se ne dicevano κλειτοί ovvero «chiari» da’ greci, e «inclyti» da’ latini (quali restarono le provincie dette «socie» da’ romani); ed Esopo se ne lamenta nella favola della societá leonina, come si è sopra detto. Perché certamente degli antichi Germani, i quali ci permettono fare una necessaria congettura di tutti gli altri popoli barbari, Tacito narra che di tali famoli o clienti o vassalli, quello: «suum principem defendere et tueri, sua quoque fortia facta gloriae eius adsignare, praecipuum iuramentum est»; ch’è una delle propietá piú risentite de’ nostri feudi. E quindi, e non altronde, dee essere provenuto che sotto la «persona» o «capo» (che, come vedremo appresso, significarono la stessa cosa che «maschera») e sotto il «nome» (ch’ora si direbbe «insegna») d’un padre di famiglia romano si contenevano, in ragione, tutti i figliuoli e tutti gli schiavi; e ne restò a’ romani dirsi «clypea» i mezzi busti, che rappresentavano l’immagini degli antenati, riposte ne’ tondi incavati dentro i pareti de’ lor cortili, e, con troppa acconcezza alle cose che qui si dicono dell’origini delle medaglie, dalla novella architettura si dicono «medaglioni». Talché dovette con veritá dirsi, ne’ tempi eroici cosí de’ greci, qual Omero il racconta, Aiace «torre de’ greci», che, solo, combatte con intere battaglie troiane; come de’ latini, ch’Orazio, solo, sul ponte sostiene un esercito di toscani: cioè Aiace, Orazio co’ lor vassalli. Appunto come nella storia barbara ritornata quaranta normanni eroi, i quali ritornavano da Terrasanta, discacciano un esercito di saraceni, che tenevano assediato Salerno. Onde bisogna dire che da queste prime antichissime protezioni, le quali gli eroi presero de’ rifuggiti alle loro terre, dovettero incominciar i feudi nel mondo, prima

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rustici personali, per gli quali tali vassalli debbon esser stati i primi «vades», ch’erano obbligati nella persona a seguir i loro eroi, ove gli menassero a coltivare i di loro campi (che poi restarono detti i rei, obbligati di seguir i lor attori in giudizio); onde, come «vas» a’ latini, βάς ai greci, cosí «was» e «wassus» restaron a’ feudisti barbari a significare «vassallo». Dappoi dovettero venire i feudi rustici reali, per gli quali i vassalli dovetter essere i primi «praedes» o «mancipes», gli obbligati in roba stabile; e «mancipes», propiamente, restaron detti tali obbligati all’erario, di che piú ragioneremo in appresso.

[560] Quindi devon altresí incominciare le prime colonie eroiche che noi diciamo «mediterranee», a differenza di altre, le quali vennero appresso, che furono le marittime. Le quali vedremo essere state drappelli di rifuggiti da mare, che si salvarono in altre terre (che nelle Degnitá si son accennate); perché il nome, propiamente, altro non suona che «moltitudine di giornalieri, che coltivano i campi (come tuttavia fanno) per lo vitto diurno». Delle quali due spezie di colonie son istorie quelle due favole: cioè, delle mediterranee, è ’l famoso Ercole gallico, il quale con catene d’oro poetico (cioè del frumento), che gli escono di bocca, incatena per gli orecchi moltitudine d’uomini e gli si mena, dove vuol, dietro; il quale è stato finora preso per simbolo dell’eloquenza: la qual favola nacque ne’ tempi che non sapevano ancora gli eroi articolar la favella, come si è appieno sopra dimostro. Delle colonie marittime è la favola della rete, con la quale Vulcano eroico strascina da mare Venere e Marte plebei (la qual distinzione sará qui appresso generalmente spiegata), e ’l Sole gli scuopre tutti nudi (cioè non vestiti della luce civile, della quale rifulgevan gli eroi, come si è testé detto), e gli dèi (cioè i nobili dell’eroiche cittá, quali si sono sopra spiegati) ne fanno scherno (come fecero i patrizi della povera plebe romana antica).

[561] E finalmente quindi ebbero gli asili la loro primiera origine. Onde Cadmo con l’asilo fonda Tebe, antichissima cittá della Grecia; — Teseo fonda Atene sull’altare degl’infelici, detti con giusta idea «infelici» gli empi vagabondi, ch’erano privi

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di tutti i divini ed umani beni ch’aveva produtto a’ pii l’umana societá; — Romolo fonda Roma con l’asilo aperto nel luco; se non, piú tosto, come fondatore di cittá nuova, esso co’ suoi compagni la fonda sulla pianta degli asili, ond’erano surte l’antiche cittá del Lazio, che generalmente Livio in tal proposito diffinisce «vetus urbes condentium consilium», e perciò male gli attacca, come abbiam veduto sopra, quel detto: ch’esso e i suoi compagni erano figliuoli di quella terra. Ma, per ciò che ’l detto di Livio fa al nostro proposito, egli ci dimostra che gli asili furono l’origini delle cittá, delle quali è propietá eterna che gli uomini vi vivono sicuri da violenza. In cotal guisa dalla moltitudine degli empi vagabondi, dappertutto riparati e salvi nelle terre de’ forti pii, venne a Giove il grazioso titolo d’«ospitale»: perocché sí fatti asili furono i primi «ospizi» del mondo, e sí fatti «ricevuti», come appresso vedremo, furono i primi «ospiti» ovvero «stranieri» delle prime cittá. E ne conservò la greca storia poetica, tralle molte fatighe d’Ercole, queste due: ch’egli andò per lo mondo spegnendo mostri, uomini nell’aspetto e bestie ne’ lor costumi, e che purgò le lordissime stalle d’Augia.

[562] Quivi le genti poetiche fantasticarono due altre maggiori divinitá, una di Marte, un’altra di Venere: quello, per un carattere degli eroi, che, prima e propiamente, combatterono «pro aris et focis». La qual sorta di combattere fu sempre eroica: combattere per la propia religione, a cui ricorre il gener umano ne’ disperati soccorsi della natura; onde le guerre di religione sono sanguinosissime, e gli uomini libertini, invecchiando, perché si sentono mancar i soccorsi della natura, divengon religiosi; onde noi sopra prendemmo la religione per primo principio di questa Scienza. Quivi Marte combatté in veri campi reali e dentro veri reali scudi, che, da «cluer», prima «clupei» e poi «clypei» si dissero da’ romani; siccome a’ tempi barbari ritornati i pascoli e le selve chiuse sono dette «difese». E tali scudi si caricavano di vere armi, le quali dapprima, che non v’erano armi ancora di ferro, furon aste d’alberi bruciate in punta e poi ritondate ed aguzzate alla cote

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per renderle atte a ferire; che sono l’«aste pure», o non armate di ferro, che si davano per premi militari a’ soldati romani i quali si erano eroicamente portati in guerra. Onde appo i greci son armate d’aste Minerva, Bellona, Pallade; ed appo i latini da «quiris», «asta», Giunone detta «quirina», e «quirino» Marte, e Romolo, perché valse vivo coll’asta, morto fu appellato «Quirino»; e ’l popolo romano, che armò di pili (come lo spartano, che fu il popolo eroico di Grecia, armò d’aste), fu detto, in adunanza, «quirites». Ma delle nazioni barbare la storia romana ci narra aver guerreggiato con le prime aste ch’ora diciamo, e le ci descrive «praeustas sudes», «aste bruciate in punta», come furono ritruovati armeggiare gli americani; e a’ tempi nostri i nobili con l’aste armeggiano ne’ tornei, le quali prima adoperarono nelle guerre. La qual sorta d’armadura fu ritruovata da una giusta idea di fortezza, d’allungar il braccio e col corpo tener lontana l’ingiuria dal corpo, siccome l’armi che piú s’appressano al corpo son piú da bestie.

[563] Sopra ritruovammo i fondi de’ campi ov’erano i seppelliti essere stati i primi scudi del mondo; onde nella scienza del blasone restò che lo scudo è ’l fondamento dell’armi. I colori de’ campi furono veri. Il nero, della terra bruciata, a cui Ercole diede il fuoco. Il verde, delle biade in erba. E con errore per metallo fu preso l’oro, che fu il frumento, che, biondeggiando nelle secche sue biade, fu il terzo color della terra, com’altra volta si è detto; siccome i romani, tra’ premi militari eroici, caricavano di frumento gli scudi di que’ soldati che si erano segnalati nelle battaglie, e «adorea» loro si disse la «gloria militare», da «ador», «grano brustolito», di che prima cibavansi, che gli antichi latini dissero «adur» da «uro», «bruciare»; talché forse il primo «adorare» de’ tempi religiosi fu brustolire frumento. L’azzurro fu il color del cielo, del quale eran essi luci coverti (il perch’i francesi dissero «bleu» per l’«azzurro», per lo «cielo» e per «Dio», come sopra si è detto). Il rosso era il sangue de’ ladroni empi, che gli eroi uccidevano, ritruovati dentro de’ loro campi.

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L’imprese nobili venuteci dalla barbarie ritornata si osservano caricate di tanti lioni neri, verdi, d’oro, azzurri e finalmente rossi, i quali, per ciò che sopra abbiam veduto de’ campi da semina, che poi passarono in campi d’armi, deono essere le terre colte, guardate con l’aspetto, che sopra si ragionò, del lione vinto da Ercole, e de’ lor colori, che si sono testé noverati: tante caricate di vari, che deon essere i solchi onde da’ denti della gran serpe, da esso uccisa, di che avevagli seminati, uscirono gli uomini armati di Cadmo; tante caricate di pali, che devon essere l’aste con le quali armeggiarono i primi eroi; e tante caricate alfin di rastelli, che sono stromenti certamente di villa. Per lo che tutto si ha a conchiudere che l’agricoltura, come ne’ tempi barbari primi, de’ quali ci accertano essi romani, cosí ne’ secondi fece la prima nobiltá delle nazioni.

[564] Gli scudi poi degli antichi furon coverti di cuoio, come si ha da’ poeti che di cuoio vestirono i vecchi eroi, cioè delle pelli delle fiere da essi cacciate ed uccise. Di che vi ha un bel luogo in Pausania, ove riferisce di Pelasgo (antichissimo eroe di Grecia, che diede il primo nome, che quella nazione portò, di «pelasgi»; talché Apollodoro, De origine deorum, il chiama αὐτόχθονα, «figliuol della Terra», che si diceva in una parola «gigante») ch’egli «ritruovò la veste di cuoio». E, con maravigliosa corrispondenza de’ tempi barbari secondi co’ primi, de’ grandi personaggi antichi parlando, Dante dice che vestivan «di cuoio e d’osso», e Boccaccio narra ch’ivan impacciati nel cuoio. Dallo che dovette venire che l’imprese gentilizie fussero di cuoio coverte, nelle quali la pelle del capo e de’ piedi, rivolta in cartocci, vi fa acconci finimenti. Furon gli scudi ritondi, perché le terre sboscate e colte furono i primi «orbes terrarum», come sopra si è detto; e ne restò la propietá a’ latini, con cui «clypeus» era tondo, a differenza di «scutum», ch’era angolare. Il perché ogni luco si disse nel senso di «occhio», come ancor oggi si dicon «occhi» l’aperture ond’entra il lume nelle case. La qual frase eroica vera, essendosi poi sconosciuta, quindi alterata e finalmente

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corrotta: ch’«ogni gigante aveva il suo luco», era giá divenuta falsa quando giunse ad Omero, e fu appreso ciascun gigante con un occhio in mezzo la fronte. Co’ quali giganti monocoli ci venne Vulcano, nelle prime fucine — che furono le selve, alle quali Vulcano aveva dato il fuoco e dove aveva fabbricato le prime armi, che furono, come abbiam detto, l’aste bruciate in punta, — stesa l’idea di tal’armi, fabbricar i fulmini a Giove; perché Vulcano aveva dato fuoco alle selve, per osservar a cielo aperto donde i fulmini fussero mandati da Giove.

[565] L’altra divinitá, che nacque tra queste antichissime cose umane, fu quella di Venere, la quale fu un carattere della bellezza civile; onde «honestas» restò a significare e «nobiltá» e «bellezza» e «virtú». Perché con quest’ordine dovettero nascere queste tre idee: che prima fussesi intesa la bellezza civile, ch’apparteneva agli eroi; — dopo, la naturale, che cade sotto gli umani sensi, però di uomini di menti scorte e comprendevoli, che sappiano discernere le parti e combinarne la convenevolezza nel tutto d’un corpo, nello che la bellezza essenzialmente consiste; onde i contadini e gli uomini della lorda plebe nulla o assai poco s’intendono di bellezza (lo che dimostra l’errore de’ filologi, i quali dicono che, in questi tempi scempi e balordi ch’ora qui ragioniamo, si eleggevano gli re dall’aspetto de’ loro corpi belli e ben fatti; perché tal tradizione è da intendersi della bellezza civile, ch’era la nobiltá d’essi eroi, come or ora diremo); — finalmente, s’intese la bellezza della virtú, la quale si appella «honestas» e s’intende sol da’ filosofi. Laonde della bellezza civile dovetter esser belli Apollo, Bacco, Ganimede, Bellerofonte, Teseo, con altri eroi, per gli quali forse fu immaginata Venere maschia.

[566] Dovette nascere l’idea della bellezza civile in mente de’ poeti teologi dal veder essi gli empi rifuggiti alle lor terre esser uomini d’aspetto e brutte bestie di costumi. Di tal bellezza, e non d’altra, vaghi furono gli spartani, gli eroi della Grecia, che gittavano dal monte Taigeta i parti brutti e deformi, cioè fatti da nobili femmine senza la solennitá delle nozze; che debbon

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esser i «mostri» che la legge delle XII Tavole comandava gittarsi in Tevere. Perché non è punto verisimile ch’i decemviri, in quella parsimonia di leggi propia delle prime repubbliche, avessero pensato a’ mostri naturali, che sono sí radi che le cose rade in natura si dicon «mostri»: quando, in questa copia di leggi della qual or travagliamo, i legislatori lasciano all’arbitrio de’ giudicanti le cause ch’avvengono rade volte. Talché questi dovetter esser i mostri detti, prima e propiamente, «civili» (d’un de’ quali intese Panfilo ove, venuto in falso sospetto che la donzella Filumena fusse gravida, dice:

... Aliquid monstri alunt);

e cosí restaron detti nelle leggi romane, le quali dovettero parlare con tutta propietá, come osserva Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea. Lo che sopra si è altra volta ad altro fine osservato.

[567] Laonde questo dee essere quello che, con quanto di buona fede, con altrettanta ignorazione delle romane antichitá ch’egli scrive, dice Livio: che, [se] comunicati fussero da’ nobili i connubi a’ plebei, ne nascerebbe la prole «secum ipsa discors», ch’è tanto dire quanto «mostro mescolato di due nature»: una, eroica, de’ nobili; altra, ferina, d’essi plebei, che «agitabant connubia more ferarum». Il qual motto prese Livio da alcuno antico scrittor d’annali, e l’usò senza scienza, perocché egli il rapporta in senso: «se i nobili imparentassero co’ plebei». Perché i plebei, in quel loro misero stato di quasi schiavi, nol potevano pretendere da’ nobili, ma domandarono la ragione di contrarre nozze solenni (ché tanto suona «connubium»), la qual ragione era solo de’ nobili. Ma, delle fiere, niuna spezie usa con altra di altra spezie. Talché è forza dire ch’egli fu un motto, col quale, in quella eroica contesa, i nobili volevano schernir i plebei, che, non avendo auspíci pubblici, i quali con la loro solennitá facevano le nozze giuste, niuno di loro aveva padre certo (come in ragion romana restonne quella diffinizione, ch’ognun sa, che «nuptiae demonstrant patrem»);

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talché, in sí fatta incertezza, i plebei si dicevan da’ nobili ch’usassero con le loro madri, con le loro figliuole, come fanno le fiere.

[568] Ma a Venere plebea furon attribuite le colombe, non giá per significare svisceratezze amorose, ma perché sono, qual’Orazio le diffinisce, «degeneres», uccelli vili, a petto dell’aquile (che lo stesso Orazio diffinisce «feroces»), e sí per significare ch’i plebei avevano auspíci privati o minori, a differenza di quelli dell’aquile e de’ fulmini, ch’eran de’ nobili e Varrone e Messala dissero «auspíci maggiori» ovvero «pubblici», de’ quali erano dipendenze tutte le ragioni eroiche de’ nobili, come la storia romana apertamente lo ci conferma. Ma a Venere eroica, qual fu la «pronuba», furon attribuiti i cigni, propi anco d’Apollo, il quale sopra vedemmo essere lo dio della nobiltá, con gli auspíci di uno de’ quali Leda concepisce di Giove l’uova, come si è sopra spiegato.

[569] Fu la Venere plebea ella descritta nuda, perocché la pronuba era col cesto coverta, come si è detto sopra. Quindi si veda quanto d’intorno a queste poetiche antichitá si sieno contorte l’idee! ché poi fu creduto finto per incentivo della libidine quello che fu ritruovato con veritá per significar il pudor naturale, o sia la puntualitá della buona fede con la quale si osservavano tra’ plebei le naturali obbligazioni; perocché, come quindi a poco vedremo nella Politica poetica, i plebei non ebbero niuna parte di cittadinanza nell’eroiche cittá, e sí non contraevano tra loro obbligazioni legate con alcun vincolo di legge civile, che lor facesse necessitá. Quindi furon a Venere attribuite le Grazie ancor nude; e appo i latini «caussa» e «gratia» significano una cosa stessa: talché le Grazie a’ poeti significar dovettero i «patti nudi», che producono la sola obbligazion naturale. E quindi i giureconsulti romani dissero «patti stipulati» quelli che poi furon detti «vestiti» dagli antichi interpetri: perché, intendendo quelli i patti nudi esser i patti non stipulati, non deve «stipulatio» venir detta da «stipes» (ché, per tal origine, si dovrebbe dire «stipatio»), con la sforzata ragione «perocché ella sostenga i patti»; ma dee venire da

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«stipula», detta da’ contadini del Lazio perocch’ella «vesta il frumento». Com’al contrario i «patti vestiti» in prima da’ feudisti furono detti dalla stessa origine onde son dette l’«investiture» de’ feudi, de’ quali certamente si ha «exfestucare» il «privare della degnitá». Per lo che ragionato, «gratia» e «caussa» s’intesero essere una cosa stessa da’ latini poeti d’intorno a’ contratti che si celebravano da’ plebei delle cittá eroiche. Come, introdutti poi i contratti «de iure naturali gentium», ch’Ulpiano dice «humanarum», «caussa» e «negocium» significarono una cosa medesima; perocché, in tali spezie di contratti, essi negozi quasi sempre sono «caussae» o «cavissae» o «cautele», che vagliono per stipulazioni le quali ne cautelino i patti.
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[Capitolo Terzo]
Corollari d’intorno a’ contratti che si compiono
col solo consenso

[570] Perché, per l’antichissimo diritto delle genti eroiche, le quali non curavano che le cose necessarie alla vita, e non raccogliendosi altri frutti che naturali, né intendendo ancora l’utilitá del danaio, ed essendo quasi tutti corpo, non potevano conoscere certamente i contratti che oggi dicono compiersi col solo consenso; ed essendo sommamente rozzi, de’ quali è propio l’essere sospettosi, perché la rozzezza nasce dall’ignoranza ed è propietá di natura umana che chi non sa sempre dubita: per tutto ciò non conoscevano buona fede, e di tutte l’obbligazioni si assicuravano con la mano o vera o finta: però questa accertata, nell’atto del negozio, con le stipulazioni solenni; ond’è quel celebre capo nella legge delle XII Tavole: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto». Dalla qual natura di cose umane civili escono queste veritá.

i

[571] Che quello che dicono, che l’antichissime vendite e compere furono permutazioni, ove fussero di robe stabili, elleno dovetter esser quelli che nella barbarie ricorsa furon detti «livelli»; de’ quali s’intese l’utilitá, perch’altri abbondasse di fondi i quali dassero copia di frutti, de’ quali altri avesse scarsezza, e cosí a vicenda.

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ii

[572] Le locazioni di case non potevano celebrarsi quand’erano picciole le cittá e l’abitazioni ristrette; talché si dovettero da’ padroni de’ suoli quelli darsi perch’altri vi fabbricasse: e sí non poteron esser altri che censi.

iii

[573] Le locazioni de’ terreni dovetter esser enfiteusi, che da’ latini furono dette «clientelae»; ond’i gramatici dissero, indovinando, che «clientes» fussero stati detti quasi «colentes».

iv

[574] Talché questa dev’esser la cagione onde, per la barbarie ricorsa, negli antichi archivi non si leggon altri contratti che censi di case o poderi, o in perpetuo o a tempo.

v

[575] Ch’è forse la ragione per che l’enfiteusi è contratto «de iure civili»; che, per questi princípi, si truoverá essere lo stesso che «de iure heroico romanorum», a cui Ulpiano oppone il «ius naturale gentium humanarum», che disse «umane» in rapporto al gius delle genti barbare che furon prima, non delle genti barbare ch’a’ suoi tempi erano fuori dell’imperio romano, il quale nulla importava a’ romani giureconsulti.

vi

[576] Le societá non erano conosciute, per quel costume ciclopico ch’ogni padre di famiglia curava solamente le cose sue e nulla impacciavasi di quelle d’altrui, come, sopra, Omero ci ha fatto udire nel racconto che fa Polifemo ad Ulisse.

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vii

[577] E per questa stessa ragione non erano conosciuti i mandati; onde restò quella regola di diritto civile antico: «Per extraneam personam acquiri nemini».

viii

[578] Ma, a quello dell’eroiche essendo poi succeduto il diritto delle genti umane che diffinisce Ulpiano, si fece tanto rivolgimento di cose, che la vendita e compera, la qual anticamente, se, nell’atto del contrarsi, non si stipulava la «dupla», non produceva l’evizione, oggi è la regina de’ contratti i quali si dicono «di buona fede», e naturalmente, anco non patteggiata, la deve.

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[Capitolo Quarto]
Canone mitologico

[579] Ora, ritornando agli tre caratteri di Vulcano, Marte e Venere, è qui d’avvertire (e tal avvertimento dee tenersi a luogo d’un importante canone di questa mitologia) che questi furono tre divini caratteri significanti essi eroi, a differenza di altrettanti che significarono plebei. Come Vulcano, che fende il capo a Giove con un colpo di scure, onde nasce Minerva, e, volendosi frapporre in una contesa tra Giove e Giunone, con un calcio da Giove è precipitato dal cielo e restonne zoppo. Marte, a cui Giove, in una forte riprensione che gli fa appo Omero, dice essere «lo piú vile di tutti i dèi», e Minerva, nella contesa degli dèi, appo lo stesso poeta, il ferisce con un colpo di sasso (che devon essere stati i plebei, che servivano agli eroi nelle guerre). E Venere (che deon essere state le mogli naturali di sí fatti plebei), che, con questo Marte plebeo, sono còlti entrambi nella rete da Vulcano eroico, e, scoverti ignudi dal Sole, sono presi a scherno dagli altri dèi. Quindi Venere fu poi con error creduta esser moglie di Vulcano: ma noi sopra vedemmo che ’n cielo non vi fu altro matrimonio che di Giove e Giunone, il quale pure fu sterile; e Marte fu detto non «adultero», ma «concubino» di Venere, perché tra’ plebei non si contraevano che matrimoni naturali, come appresso si mostrerá, che da’ latini furon detti «concubinati».

[580] Come questi tre caratteri qui, cosí altri saranno appresso, a’ luoghi loro, spiegati. Quali si truoveranno Tantalo plebeo, che non può afferrare le poma che s’alzano né toccare l’acqua che bassasi; Mida plebeo, il quale, perché tutto ciò che tocca è oro, si muore di fame; Lino plebeo, che contende con Apollo nel canto, e, vinto, è da quello ucciso.

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[581] Le quali favole, ovvero caratteri doppi, devon essere stati necessari nello stato eroico, ch’i plebei non avevano nomi e portavano i nomi de’ loro eroi, come si è sopra detto: oltre alla somma povertá de’ parlari, che dovett’essere ne’ primi tempi; quando, in questa copia di lingue, uno stesso vocabolo significa spesso diverse e, alcuna volta, due tra loro contrarie cose.

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[SEZIONE QUINTA] [Politica poetica]


[Capitolo Primo]
Della politica poetica, con la quale nacquero le prime
repubbliche al mondo di forma severissima aristocratica

[582] In cotal guisa si fondarono le famiglie di sí fatti famoli, ricevuti in fede o forza o protezione dagli eroi, che furon i primi soci del mondo, quali sopra abbiamo veduti. De’ quali le vite eran in balía de’ loro signori, e, ’n conseguenza delle vite, eran anco gli acquisti; quando essi eroi, con gl’imperi paterni ciclopici, sopra i loro propi figliuoli avevano il diritto della vita e della morte, e, ’n conseguenza di tal diritto sopra le persone, avevan anco il diritto dispotico sopra tutti i di lor acquisti. Lo che intese Aristotile ove diffiní i figliuoli di famiglia esser «animati strumenti de’ loro padri»; e la legge delle XII Tavole, fin dentro la piú prosciolta libertá popolare, serbò a’ padri di famiglia romani entrambe queste due parti monarchiche: e di potestá sopra le persone e di dominio sopra gli acquisti. E, finché vennero gl’imperadori, i figliuoli, come gli schiavi, ebbero una sola spezie di peculio, che fu il profettizio; e i padri, ne’ primi tempi, dovettero avere la potestá di vendere veramente i figliuoli fin a tre volte; che poi, invigorendo la mansuetudine de’ tempi umani, il fecero con tre vendite finte, quando volevano liberare i figliuoli dalla paterna potestá. Ma

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i Galli e i celti si conservarono un’egual potestá sopra i figliuoli e gli schiavi; e ’l costume di vendere con veritá i padri i loro figliuoli fu ritruovato nell’Indie occidentali, e nell’Europa si pratica infin a quattro volte da’ moscoviti e da’ tartari. Tanto è vero che l’altre nazioni barbare non hanno la paterna potestá «talem qualem habent cives romani»! La qual aperta falsitá esce dal comune volgar errore, con cui i dottori hanno ricevuto tal motto: ma ciò fu da’ giureconsulti detto in rapporto delle nazioni vinte dal popolo romano; alle quali, come piú a lungo appresso dimostreremo, tolto tutto il diritto civile con la ragione delle vittorie, non restarono che naturali paterne potestá e, ’n lor conseguenza, naturali vincoli di sangue, che si dicono «cognazioni», e, dall’altra parte, naturali domíni, che son i bonitari, e, per tutto ciò, naturali obbligazioni, che si dicono «de iure naturali gentium», ch’Ulpiano ci specificò sopra con l’aggiunto «humanarum». Le quali ragioni tutte i popoli posti fuori dell’imperio dovettero avere civili, e appunto tali quali l’ebbero essi romani.

[583] Ma, ripigliando il ragionamento, con la morte de’ loro padri restando liberi i figliuoli di famiglia di tal monarchico imperio privato, anzi riassumendolo ciascun figliuolo intieramente per sé (onde ogni cittadino romano, libero dalla paterna potestá, in romana ragione egli è «padre di famiglia» appellato), e i famoli dovendo sempre vivere in tale stato servile, a capo di lunga etá naturalmente se ne dovettero attediare, per la degnitá da noi sopra posta: che «l’uomo soggetto naturalmente brama sottrarsi alla servitú». Talché costoro debbono essere stati Tantalo, che testé dicemmo plebeo, che non può addentare le poma (che devon essere le poma d’oro del frumento sopra spiegate, le quali s’alzano sulle terre de’ lor eroi), e (per ispiegarne l’ardente sete) non può prender un picciol sorso dell’acqua, che gli si appressa fin alle labbra e poi fugge; — Issione, che volta sempre la ruota; — e Sisifo, che spinge su il sasso, che gittò Cadmo (la terra dura, che, giunta al colmo, rovescia giú, come restò a’ latini «vertere terram» per «coltivarla» e «saxum volvere» per «far con ardore lunga e aspra

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fatiga»). Per tutto ciò i famoli dovettero ammutinarsi contro essi eroi. E questa è la «necessitá», che generalmente si congetturò nelle Degnitá esser stata fatta da’ famoli ai padri eroi nello stato delle famiglie, onde nacquero le repubbliche.

[584] Perché quivi, al grand’uopo, dovettero per natura esser portati gli eroi ad unirsi in ordini, per resistere alle moltitudini de’ famoli sollevati, dovendo loro far capo alcun padre piú di tutti feroce e di spirito piú presente; e tali se ne dissero i «re» dal verbo «regere», ch’è propiamente «sostenere» e «dirizzare». In cotal guisa, per dirla con la frase troppo ben intesa di Pomponio giureconsulto, «rebus ipsis dictantibus, regna condita», detto convenevolmente alla dottrina della romana ragione, che stabilisce «ius naturale gentium divina providentia constitutum». Ed ecco la generazione de’ regni eroici. E, perché i padri erano sovrani re delle lor famiglie, nell’ugualitá di sí fatto stato e, per la feroce natura de’ polifemi, niuno di tutti naturalmente dovendo ceder all’altro, uscirono da se medesimi i senati regnanti, o sia di tanti re delle lor famiglie; i quali, senza umano scorgimento o consiglio, si truovaron aver uniti i loro privati interessi a ciascun loro comune, il quale si disse «patria», che, sottointesovi «res», vuol dir «interesse di padri», e i nobili se ne dissero «patricii»: onde dovettero i soli nobili esser i cittadini delle prime patrie. Cosí può esser vera la tradizione che ce n’è giunta: che ne’ primi tempi si eleggevano gli re per natura; della quale vi sono due luoghi d’oro appo Tacito, De moribus Germanorum, i quali ci dánno luogo di congetturare essere stato lo stesso costume di tutti gli altri primi popoli barbari. Uno è quello: «Non casus, non fortuita conglobatio turmam aut cuneum facit, sed familiae et propinquitates». L’altro è: «Duces exemplo potius quam imperio; si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione praesunt».

[585] Tali essere stati i primi re in terra ci si dimostra da ciò: che tal i poeti eroi immaginarono essere Giove in cielo re degli uomini e degli dèi, per quell’aureo luogo di Omero dove Giove si scusa con Teti ch’esso non può far nulla contro a ciò che gli dèi avevano una volta determinato nel gran consiglio

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celeste; ch’è parlare di vero re aristocratico. Dove poi gli stoici ficcarono il loro dogma di Giove soggetto al fato; ma Giove e gli altri dèi tennero consiglio d’intorno a tai cose degli uomini, e sí le determinarono con libera volontá. Il qual luogo qui riferito ne spiega due altri del medesimo Omero, ne’ quali con errore i politici fondano ch’Omero avesse inteso la monarchia. Uno è di Agamennone, che riprende la contumacia d’Achille; l’altro è di Ulisse, che i greci, ammutinati di ritornar alle loro case, persuade di continuare l’assedio incominciato di Troia: dicendo entrambi che «uno è ’l re», perché l’un e l’altro è detto in guerra, nella quale uno è ’l general capitano, per quella massima avvertita da Tacito ove dice: «eam esse imperandi conditionem, ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur». Del rimanente, lo stesso Omero in quanti luoghi de’ due poemi mentova eroi dá loro il perpetuo aggiunto di «re». Col quale si confá a maraviglia un luogo d’oro del Genesi, ove quanti Mosè narra discendenti d’Esaú tanti ne appella «re», o dir vogliamo capitani, che la Volgata legge «duces»; e gli ambasciadori di Pirro gli riferiscono d’aver veduto in Roma un senato di tanti re. Perché invero non si può affatto intendere in natura civile niuna cagione, per la qual i padri, in tal cangiamento di stati, avessero dovuto altro mutare, da quello ch’avevano avuto nello stato giá di natura, che di assoggettire le loro sovrane potestá famigliari ad essi ordini loro regnanti. Perché la natura de’ forti, come abbiamo nelle Degnitá sopra posto, è di rimettere, degli acquisti fatti con virtú, quanto meno essi possono, e tanto quanto bisogna perché loro si conservin gli acquisti; onde si legge sí spesso sulla storia romana quell’eroico disdegno de’ forti, che mal soffre «virtute parta per flagitium amittere». Né, tra tutti i possibili umani, una volta che gli Stati civili non nacquero né da froda né da forza d’un solo (come abbiam sopra dimostro e si dimostrerá piú in appresso), come dalle potestá famigliari poté formarsi la civil potestá, e de’ domíni naturali paterni (che noi sopra accennammo essere stati ex iure optimo, in significato di «liberi d’ogni peso privato e pubblico») si
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fusse formato il dominio eminente di essi Stati civili, si può immaginare in altra guisa che questa.

[586] La quale, cosí meditata, ci si appruova a maraviglia con esse origini delle voci. Ché, perché sopra esso dominio ottimo ch’avevano i padri (detto da’ greci δίκαιον ἄριστον) si formarono, esse repubbliche, come altra volta si è detto sopra, da’ greci si dissero «aristocratiche», e da’ latini si chiamarono «repubbliche d’ottimati», dette da Opi, dea detta della potenza. Onde perciò forse Opi (dalla quale dev’essere stato detto «optimus», ch’è ἄριστος a’ greci, e quindi «optimus» a’ latini) funne detta moglie di Giove, cioè dell’ordine regnante di quelli eroi, i quali, come sopra si è detto, s’avevano arrogato il nome di «dèi» (perché Giunone per la ragion degli auspíci era moglie di Giove, preso per lo cielo che fulmina); de’ quali dèi, come si è detto sopra, fu madre Cibele, detta «madre» ancor «de’ giganti», propiamente detti in significazione di «nobili», e la quale, come vedremo appresso nella Cosmografia poetica, fu appresa per la regina delle cittá. Da Opi adunque si dissero gli «ottimati», perché tali repubbliche sono tutte ordinate a conservare la potenza de’ nobili, e, per conservarla, ritengono per eterne propietá quelle due principali custodie, delle quali una è degli ordini e l’altra è de’ confini. E dalla custodia degli ordini venne prima la custodia de’ parentadi, per la qual i romani fin al CCCIX di Roma tennero chiusi i connubi alla plebe; dipoi, la custodia de’ maestrati, onde tanto i patrizi contrastarono alla plebe la pretenzione del consolato; appresso, la custodia de’ sacerdozi e, per questa, la custodia alfin delle leggi, che tutte le prime nazioni guardarono con aspetto di cose sagre. Onde fin alla legge delle XII Tavole i nobili governarono Roma con costumanze, come nelle Degnitá ce n’accertò Dionigi d’Alicarnasso, e fino a cento anni dopo essa legge ne tennero chiusa l’interpetrazione dentro il collegio de’ pontefici, al narrar di Pomponio giureconsulto, perché fin a quel tempo entrati v’erano i soli nobili. L’altra principal custodia ella è de’ confini; onde i romani, fin a quella che fecero di Corinto, avevan osservato una giustizia incomparabile nelle

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guerre, per non agguerrire, ed una somma clemenza nelle vittorie, per non arricchir i plebei, come sopra se ne sono proposte due degnitá.

[587] Tutto questo grande ed importante tratto di storia poetica è contenuto in questa favola: che Saturno si vuol divorare Giove bambino, e i sacerdoti di Cibele glielo nascondono e col romore dell’armi non gliene fanno udire i vagiti; ove Saturno dev’essere carattere de’ famoli, che da giornalieri coltivano i campi de’ padri signori e, con un’ardente brama di desiderio, vogliono da’ padri campi per sostentarvisi. E cosí questo Saturno è padre di Giove, perché da questo Saturno, come da occasione, nacque il regno civile de’ padri, che, come dianzi si è detto, si spiegò col carattere di quel Giove del quale fu moglie Opi. Perché Giove, preso per lo dio degli auspíci, de’ quali gli piú solenni erano il fulmine e l’aquila (del qual Giove era moglie Giunone), egli è «padre degli dèi», cioè degli eroi, che si credevano figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano generati con gli auspíci di Giove da nozze solenni (delle quali è nume Giunone), e si presero il nome di «dèi», de’ quali è madre la Terra, ovvero Opi moglie di questo Giove, come tutto si è detto sopra. E ’l medesimo fu detto «re degli uomini», cioè de’ famoli nello stato delle famiglie e de’ plebei in quello dell’eroiche cittá. I quali due divini titoli, per ignorazione di quest’istoria poetica, si sono tra lor confusi, quasi Giove fusse anco padre degli uomini. I quali fin dentro a’ tempi della repubblica romana antica «non poterant nomine ciere patrem», come narra Livio, perché nascevano da’ matrimoni naturali, non da nozze solenni; onde restò in giurisprudenza quella regola: «Nuptiae demonstrant patrem».

[588] Siegue la favola ch’i sacerdoti di Cibele, o sieno d’Opi (perché i primi regni furono dappertutto di sacerdoti, come alquanto se n’è detto sopra e pienamente appresso si mostrerá) nascondono Giove (dal qual nascondimento i filologi latini, indovinando, dissero essere stato appellato «Latium», e la lingua latina ne conservò la storia in questa sua frase: «condere regna» — lo che altra volta si è detto, — perché i padri

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si chiusero in ordine contro i famoli ammutinati, dal qual segreto incominciarono a venir quelli ch’i politici dicono «arcana imperii»), e, col romore dell’armi non faccendo a Saturno udire i vagiti di Giove (testé nato all’union di quell’ordine), in cotal guisa il salvarono. Con la qual guisa si narra distintamente ciò che ’n confuso Platone disse: «le repubbliche esser nate sulla pianta dell’armi»; a cui dev’unirsi ciò ch’Aristotile ci disse sopra nelle Degnitá: che nelle repubbliche eroiche i nobili giuravano d’esser eterni nimici alla plebe; e ne restò propietá eterna, per la quale ora diciamo i servidori esser nimici pagati de’ lor padroni. La qual istoria i greci ci conservarono in questa etimologia, per la quale, appo essi, da πόλις,/ «cittá», πόλεμος è appellata la «guerra».

[589] Quivi le nazioni greche immaginarono la decima divinitá delle genti dette maggiori, che fu Minerva. E la si finsero nascere con questa fantasia, fiera ugualmente e goffa: che Vulcano con una scure fendette il capo di Giove, onde nacque Minerva; volendo essi dire che la moltitudine de’ famoli ch’esercitavan arti servili, che, come si è detto, venivano sotto il genere poetico di Vulcano plebeo, essi ruppero (in sentimento d’«infievolirono» o «scemarono») il regno di Giove (come restò a’ latini «minuere caput» per «fiaccare la testa», perché, non sappiendo dir in astratto «regno», in concreto dissero «capo»), che stato era, nello stato delle famiglie, monarchico, e cangiarono in aristocratico, in quello delle cittá. Talché non è vana la congettura che da tal «minuere» fusse stata da’ latini detta Minerva; e da questa lontanissima poetica antichitá restasse a’ medesimi, in romana ragione, «capitis deminutio» per significare «mutazione di stato», come Minerva mutò lo stato delle famiglie in quello delle cittá.

[590] In cotal favola i filosofi poi ficcarono il piú sublime delle loro meditazioni metafisiche: che l’idea eterna in Dio è generata da esso Dio, ove l’idee criate sono in noi produtte da Dio. Ma i poeti teologi contemplarono Minerva con l’idea di ordine civile, come restò per eccellenza a’ latini «ordo» per lo «senato» (lo che forse diede motivo a’ filosofi di crederla

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idea eterna di Dio, ch’altro non è che ordine eterno); e ne restò propietá eterna: che l’ordine de’ migliori è la sapienza delle cittá. Ma Minerva appo Omero è sempre distinta con gli aggiunti perpetui di «guerriera» e di «predatrice», e due volte sole ci ricordiamo di averlavi letto con quello di «consigliera»; e la civetta e l’oliva le furono consagrate, non giá perch’ella mediti la notte e legga e scriva al lume della lucerna, ma per significare la notte de’ nascondigli, co’ quali si fondò, com’abbiamo sopra detto, l’umanitá, e forse per piú propiamente significare che i senati eroici, che componevano le cittá, concepivano in segreto le leggi, e ne restò certamente agli areopagiti di dir i voti al buio nel senato d’Atene, che fu la cittá di Minerva, la qual fu detta Ἀθηνᾶ. Dal qual eroico costume appo i latini fu detto «condere leges», talché «legum conditores» furono propiamente i senati che comandavan le leggi, siccome «legum latores» coloro che da’ senati portavano le leggi alle plebi de’ popoli, come sopra, nell’accusa d’Orazio, si è detto. E tanto da’ poeti teologi fu considerata Minerva esser dea della sapienza, che nelle statue e nelle medaglie si osserva armata; e la stessa fu «Minerva» nella curia, «Pallade» nell’adunanze plebee (come, appo Omero, Pallade mena Telemaco nell’adunanza della plebe, ch’egli chiama «altro popolo», ove vuol partire per andar truovando Ulisse, suo padre), ed è «Bellona», per ultimo, nelle guerre.

[591] Talché è da dirsi che, con l’errore che Minerva fusse stata intesa da’ poeti teologi per la sapienza, vada di concerto quell’altro che «curia» fusse stata detta a «curanda republica», in que’ tempi che le nazioni erano stordite e stupide. La qual dovette a’ greci antichissimi venir detta κυρία da χείρ, la «mano», e indi «curia» similmente a’ latini, per uno di questi due grandi rottami d’antichitá, che (come si è detto nella Tavola cronologica e nelle ivi scritte Annotazioni) per buona nostra ventura Dionigi Petavio truova gittati dentro la storia greca innanzi l’etá degli eroi di Grecia, e ’n conseguenza in questa, da noi qui seguíta, etá degli dèi degli egizi.

[592] Uno è che gli Eraclidi, ovvero discendenti d’Ercole, erano

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stati sparsi per tutta Grecia, anco nell’Attica, ove fu Atene, e che poi si ritirarono nel Peloponneso, ove fu Sparta, repubblica o regno aristocratico di due re della razza d’Ercole, detti Eraclidi, ovvero nobili, che amministravano le leggi e le guerre sotto la custodia degli efori. I quali erano custodi della libertá non giá popolare ma signorile, che fecero strozzare il re Agide, perché aveva attentato di portar al popolo una legge di conto nuovo, la quale Livio diffinisce «facem ad accendendum adversus optimates plebem», ed un’altra testamentaria, la quale divolgava i retaggi fuori dell’ordine de’ nobili, tra’ quali soli innanzi si erano conservati con le successioni legittime, perché essi soli avevano dovuto avere suitá, agnazioni, gentilitá; della qual fatta erano state in Roma innanzi della legge delle XII Tavole, come appresso sará dimostro. Onde, come i Cassi, i Capitolini, i Gracchi ed altri principali cittadini, per volere, con qualche legge sí fatta, d’un poco sollevare la povera oppressa plebe romana, furono dal senato dichiarati ed uccisi come rubelli; cosí Agide fu fatto strozzare dagli efori. Tanto gli efori di Sparta, per Polibio, furono custodi della libertá popolare di Lacedemone! Laonde Atene, cosí appellata da Minerva, la qual si disse Ἀθηνᾶ, dovette essere, ne’ primi suoi tempi, di stato aristocratica; e la storia greca l’hacci narrato fedelmente piú sopra, ove ci disse che Dragone regnò in Atene nel tempo ch’era occupata dagli ottimati, e cel conferma Tucidide, narrando che, finch’ella fu governata da’ severissimi areopagiti, che Giovenale traduce «giudici di Marte», in senso di «giudici armati» (che, da Ἄρης, «Marte», e πηγή, ond’è «pagus» a’ latini, meglio arebbe trasportato «popolo di Marte», come fu detto il romano; perché, nel loro nascimento, i popoli si composero di soli nobili, che soli avevano il diritto dell’armi), ella sfolgorò delle piú belle eroiche virtú e fece dell’eccellentissime imprese (appunto come Roma, nel tempo nel quale, come appresso vedremo, ella fu repubblica aristocratica); dal quale stato Pericle ed Aristide (appunto come Sestio e Canuleo, tribuni della plebe, incominciarono a fare di Roma) la rovesciarono nella libertá popolare.
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[593] L’altro gran rottame egli è ch’i greci, usciti di Grecia, osservaron i cureti, ovvero sacerdoti di Cibele, sparsi in Saturnia (o sia l’antica Italia), in Creta ed in Asia; talché dovettero dappertutto nelle prime nazioni barbare celebrarsi regni di cureti, corrispondenti a’ regni degli Eraclidi, sparsi per l’antichissima Grecia. I quali cureti furon que’ sacerdoti armati, che col battere dell’armi attutarono i vagiti di Giove bambino, che Saturno volevasi divorare; la qual favola è stata testé spiegata.

[594] Per tutto lo che ragionato, da questo antichissimo punto di tempo e con questa guisa nacquero i primi comizi curiati, che sono gli piú antichi che si leggono sulla storia romana; i quali si dovettero tener sotto l’armi, e restarono poi per trattare le cose sagre, perché con tal aspetto ne’ primi tempi si guardarono tutte le cose profane. Delle quali adunanze si maraviglia Livio ch’a’ tempi d’Annibale, che vi passa per mezzo, si tenevano nelle Gallie. Ma Tacito ne’ Costumi de’ Germani ci narra quello: che si tenevano anco da’ sacerdoti, ove comandavano le pene in mezzo dell’armi, come se ivi fussero presenti i lor dèi (e con giusto senso: si armavano le adunanze eroiche per comandare le pene, perché il sommo imperio delle leggi va di séguito al sommo imperio dell’armi); e generalmente narra che armati trattavano tutti i loro pubblici affari e presiedendovi i sacerdoti, com’or si è detto. Laonde tra gli antichi Germani, i quali ci dánno luogo d’intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari, si rincontra il regno de’ sacerdoti egizi; si rincontrano i regni de’ cureti ovvero de’ sacerdoti armati, che, come abbiam veduto, i greci osservarono in Saturnia (o sia l’antica Italia), in Creta ed in Asia; si rincontrano i quiriti dell’antichissimo Lazio.

[595] Per le quali cose ragionate, il «diritto de’ quiriti» dee essere stato il diritto naturale delle genti eroiche d’Italia, che, per distinguersi da quello degli altri popoli, si disse «ius quiritium romanorum»; non giá per patto convenuto tra’ sabini e romani, che si fussero detti «quiriti» da Cure, capital cittá de’ sabini, perché, cosí, dovrebbon essere stati detti «cureti»,

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che osservarono i greci in Saturnia. Ma, se tal cittá de’ sabini si disse Cere (lo che vogliono i latini gramatici), deono (qui vedasi che contorcimento d’idee!) piú tosto esser i «ceriti», ch’erano cittadini romani condennati da’ censori a portar i pesi senza aver alcuna parte degli onori civili; appunto come furono le plebi, che poi si composero de’ famoli nel nascere, come or or vedremo, dell’eroiche cittá, nel corpo delle quali dovettero venir i sabini, in que’ tempi barbari che le cittá vinte si smantellavano (lo che i romani non risparmiarono ad essa Alba, lor madre), e gli arresi si disperdevano per le pianure, obbligati a coltivar i campi per gli popoli vincitori: che furono le prime provincie, cosí dette quasi «prope victae» (onde Marcio, da Corioli ch’aveva vinto, fu detto Coriolano); per l’opposto onde furon dette le «provincie ultime», perché fussero «procul victae». Ed in tali campagne si menarono le prime colonie mediterranee, che con tutta propietá si dissero «coloniae deductae», cioè drappelli di contadini giornalieri menati, da su, giú; che poi nelle colonie ultime significarono tutto il contrario, ché, da’ luoghi bassi e gravi di Roma, ove dovevan abitar i plebei poveri, erano questi menati in luoghi alti e forti delle provincie, per tenerle in dovere, a far essi i signori e cangiarvi i signori de’ campi in poveri giornalieri. In cotal guisa, al riferire di Livio, che ne vide solamente gli effetti, cresce Roma con le rovine di Alba, e i sabini portano in Roma a’ generi, in dote delle loro rapite figliuole, le ricchezze di Cere, come sopra ciò vanamente riflette Floro. E queste sono le colonie innanzi a quelle che vennero dopo l’agrarie de’ Gracchi, le quali lo stesso Livio riferisce che la plebe romana, nelle contese eroiche che esercita con la nobiltá, o sdegna o piú con esse si aizza, perché non erano della fatta dell’ultime; e perché di nulla sollevavano la plebe romana, e Livio truova pure con quelle seguir le contese, vi fa tali sue vane riflessioni.

[596] Finalmente che Minerva significato avesse ordini aristocratici armati, ci si appruova da Omero ove, nella contesa, narra che Minerva con un colpo di sasso ferisce Marte, che noi sopra

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vedemmo carattere de’ plebei che servivano agli eroi nelle guerre; e ove riferisce che Minerva vuol congiurare contro Giove: che può convenir all’aristocrazie, ove i signori con occulti consigli opprimono i loro principi, ove n’affettano la tirannide. Del qual tempo e non d’altro si legge agli uccisori de’ tiranni essersi alzate le statue; ché, se gli supponiamo re monarchi, essi sarebbono stati rubelli.

[597] Cosí si composero le prime cittá di soli nobili, che vi comandavano. Ma però, bisognandovi che vi fussero anche color che servissero, gli eroi furono da un senso comune d’utilitá costretti di far contenta la moltitudine de’ sollevati clienti, e mandarono loro le prime ambasciarie, che per diritto delle genti si mandano da’ sovrani. E le mandarono con la prima legge agraria che nacque al mondo, con la quale, da forti, rillasciarono a’ clienti il men che potevano, che fu il dominio bonitario de’ campi ch’arebbon assegnato loro gli eroi; e cosí può esser vero che Cerere ritruovò e le biade e le leggi. Cotal legge fu dettata da questo diritto natural delle genti: ch’andando il dominio di séguito alla potestá, ed avendo i famoli la vita precaria da essi eroi, i quali l’avevano loro salvata ne’ lor asili, diritto era e ragione ch’avessero un dominio similmente precario, il qual essi godessero fintanto ch’agli eroi fusse piaciuto di mantenergli nel possesso de’ campi ch’avevano lor assegnati. Cosí convennero i famoli a comporre le prime plebi dell’eroiche cittá, senza avervi niuno privilegio di cittadini; appunto come un de’ quali dice Achille essere stato trattato da Agamennone, il quale gli aveva tolto a torto la sua Briseide, ove dice avergli fatto un oltraggio che non si sarebbe fatto ad un giornaliere che non ha niuno diritto di cittadino.

[598] Tali furon i plebei romani fin alla contesa de’ connubi. Imperciocché essi — per la seconda agraria, accordata loro da’ nobili con la legge delle XII Tavole, avendo riportato il dominio quiritario de’ campi, come si è dimostrato da molti anni fa ne’ Princípi del Diritto universale (il qual è uno de’ due luoghi per gli quali non c’incresce d’esser uscita alla luce quell’opera), e per diritto delle genti [non] essendo gli stranieri capaci

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di dominio civile, e cosí i plebei non essendo ancor cittadini, — come ivan morendo, non potevano lasciare i campi ab intestato a’ congionti, perché non avevano suitá, agnazioni, gentilitá, ch’erano dipendenze tutte delle nozze solenni; nemmeno disponerne in testamento, perché non erano cittadini: talché i campi lor assegnati ne ritornavano ai nobili, da’ quali avevan essi la cagion del dominio. Avvertiti di ciò, subito fra tre anni fecero la pretension de’ connubi, nella quale non pretesero, in quello stato di miseri schiavi quale la storia romana apertamente ci narra, d’imparentare co’ nobili, ch’in latino arebbe dovuto dirsi «pretendere connubia cum patribus>»; ma domandarono di contrarre nozze solenni, quali contraevano i padri, e sí pretesero «connubia patrum>», la solennitá maggior delle quali erano gli auspíci pubblici, che Varrone e Messala dissero «auspíci maggiori», quali i padri dicevano «auspicia esse sua». Talché i plebei con tal pretensione domandarono la cittadinanza romana, di cui erano natural principio le nozze, le quali perciò da Modestino giureconsulto son diffinite «omnis divini et humani iuris communicatio», che diffinizione piú propia non può assegnarsi di essa cittadinanza.
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[Capitolo Secondo]
Le repubbliche tutte son nate da certi princípi eterni
de’ feudi

[599] In cotal guisa, per la natura de’ forti di conservare gli acquisti e per l’altra de’ benefizi che si possono sperare nella vita civile, sopra le quali due nature di cose umane dicemmo nelle Degnitá esser fondati i princípi eterni de’ feudi, nacquero al mondo le repubbliche con tre spezie di domíni per tre spezie di feudi, che tre spezie di persone ebbero sopra tre spezie di cose.

[600] Il primo fu dominio bonitario di feudi rustici ovvero umani, che gli «uomini», i quali nelle leggi de’ feudi, al ritornare della barbarie, si maraviglia Ottomano dirsi i «vassalli», cioè i plebei, ebbero de’ frutti sopra i poderi de’ lor eroi.

[601] Il secondo fu dominio quiritario di feudi nobili, o sia eroici, ovvero armati, oggi detti «militari», ché gli eroi, in unirsi in ordini armati, si conservarono sovrani sopra i loro poderi; che, nello stato di natura, era stato il dominio ottimo che Cicerone, come altra volta si è detto, nell’orazione De aruspicum responsis riconosce d’alquante case ch’erano a’ suoi tempi restate in Roma, e ’l diffinisce «dominio di roba stabile, libera d’ogni peso reale, non solo privato, ma anche pubblico». Di che vi ha un luogo d’oro ne’ cinque libri sagri, ove Mosè narra ch’a’ tempi di Giuseffo i sacerdoti egizi non pagavano al re il tributo de’ loro campi; e noi abbiamo poco sopra dimostro che tutti i regni eroici furono di sacerdoti, e appresso dimostreremo che da prima i patrizi romani non pagaron all’erario il tributo nemmeno dei loro. I quali feudi sovrani privati, nel formarsi delle repubbliche eroiche, si assoggettirono naturalmente alla maggiore sovranitá di essi ordini eroici regnanti (ciascun comune de’ quali si disse «patria», sottointesovi «res», cioè

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«interesse di padri»), a doverla difendere e mantenere, perch’ella aveva conservato loro gl’imperi sovrani famigliari, e questi stessi tutti eguali tra lor medesimi; lo che unicamente fa la libertá signorile.

[602] Il terzo, con tutta la propietá detto «dominio civile», che esse cittá eroiche, compostesi sul principio di soli eroi, avevano de’ fondi, per certi feudi divini ch’essi padri di famiglia avevano innanzi ricevuto da essa divinitá provvedente, com’abbiamo sopra dimostro (onde si erano truovati sovrani nello stato delle famiglie, e si composero in ordini regnanti nello stato delle cittá); e sí divennero regni civili sovrani, soggetti al solo sommo sovrano Dio, in cui tutte le civili sovrane potestá riconoscono provvedenza. Lo che ben per sensi umani si professa dalle sovrane potenze, ch’a’ lor maestosi titoli aggiugnono quello «per la divina provvedenza» ovvero quello «per la grazia di Dio», dalla quale devono pubblicamente professare di aver ricevuto i regni; talché, se ne proibissero l’adorazione, esse anderebbero naturalmente a caderne, perché nazione di fatisti o casisti o d’atei non fu al mondo giammai, e ne vedemmo sopra tutte le nazioni del mondo, per quattro religioni primarie e non piú, credere in una divinitá provvedente. Perciò i plebei giuravano per gli eroi (di che sonci rimasti i giuramenti «mehercules!», «mecastor!», «aedepol!» e «mediusfidius!», «per lo dio Fidio!», che, come vedremo, fu l’Ercole de’ romani), altronde gli eroi giuravan per Giove: perché i plebei furono dapprima in forza degli eroi (come i nobili romani, fin al CCCCXIX di Roma, esercitarono la ragione del carcere privato sopra i plebei debitori); gli eroi, che formarono gli ordini loro regnanti, eran in forza di Giove, per la ragion degli auspíci: i quali se loro sembravano di permetterlo, davano i maestrati, comandavan le leggi ed esercitavano altri sovrani diritti; se parevano di vietarlo, se n’astenevano. Lo che tutto è quella «fides deorum et hominum», a cui s’appartengono quell’espressioni latine «implorare fidem», «implorar soccorso ed aiuto»; «recipere in fidem», «ricevere sotto la protezione o l’imperio»; e quella esclamazione «proh deûm

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atque hominum fidem imploro!», con la quale gli oppressi imploravano a lor favore la «forza degli dèi e degli uomini», che, con esso senso umano, gl’italiani voltarono «poter del mondo!». Perché questo potere, onde le somme civili potestá sono dette «potenze»; questa forza, questa fede, di cui i giuramenti testé osservati attestano l’ossequio de’ soggetti; e questa protezione, ch’i potenti debbono avere de’ deboli (nelle quali due cose consiste tutta l’essenza de’ feudi), è quella forza che sostiene e regge questo mondo civile. Il cui centro fu sentito, se non ragionato, da’ greci (come l’abbiamo sopra avvertito nelle medaglie delle loro repubbliche) e da’ latini (come l’abbiamo osservato nelle loro frasi eroiche) esser il fondo di ciascun orbe civile: com’oggi le sovranitá sulle loro corone sostengono un orbe ov’è innalberata la divinitá della croce, il quale orbe sopra abbiamo dimostrato esser il pomo d’oro, il quale significa il dominio alto che le sovranitá hanno delle terre da essoloro signoreggiate, e perciò tralle maggiori solennitá delle loro incoronazioni si pone nella loro sinistra mano. Laonde hassi a dire che le civili potestá sono signore della sostanza de’ popoli, la qual sostiene, contiene e mantiene tutto ciò che vi è sopra e s’appoggia. Per cagione d’una cui parte, «pro indiviso», per dirla alla scolastica, per una «distinzion di ragione», nelle romane leggi il patrimonio di ciascun padre di famiglia vien detto «patris» o «paterna substantia»; ch’è la profonda ragione per che le civili sovrane potestá possono disporre di tutto l’aggiunto a cotal subbietto, cosí nelle persone, come negli acquisti, opere e lavori, ed imporvi tributi e dazi, ov’abbian da esercitar esso dominio de’ fondi, ch’ora per un riguardo opposto (il quale significa in sostanza lo stesso) i teologi morali e gli scrittori de iure publico chiamano «dominio eminente», siccome le leggi, che tal dominio riguardano, dicono pur ora «fondamentali» de’ regni. Il qual dominio, perch’è di essi fondi, da’ sovrani naturalmente non si può esercitare che per conservare la sostanza de’ loro Stati, allo stare de’ quali stanno, al rovinare rovinano tutte le cose particolari de’ popoli.

[603] Che i romani avessero sentito, se non inteso, questa generazione

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di repubbliche sopra tali princípi eterni de’ feudi, ci si dimostra nella formola che ci han lasciato della revindicazione, cosí conceputa: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», nella qual attaccarono cotal azione civile al dominio del fondo, ch’è di essa cittá e proviene da essa forza, per cosí dire, centrale, per la qual ogni cittadino romano è certo signore di ciascun suo podere, con un dominio «pro indiviso» che uno scolastico direbbe, per una mera distinzion di ragione, e perciò detta «ex iure quiritium», i quali, per mille pruove fatte e da farsi, furono dapprima i romani armati d’aste in pubblica ragunanza, che facevan essa cittá. Tanto che questa è la profonda ragione ch’i fondi e tutti i beni (i quali tutti da essi fondi provengono), ove sono vacanti, ricadono al fisco: perché ogni patrimonio privato pro indiviso è patrimonio pubblico, onde, in mancanza de’ privati padroni, perdono la disegnazione di parte e restano con quella di tutto. Che dee essere la cagione di quella elegante frase legale: ch’i retaggi, particolarmente legittimi, si dicono «redire agli eredi», a’ quali in veritá, vengono una sol volta, perché da’ fondatori del diritto romano, ch’essi fondarono nel fondare della romana repubblica, tutti i patrimoni privati si ordinarono feudi, quali da’ feudisti si dicono «ex pacto et providentia», che tutti escono dal patrimonio pubblico e, per patto e provvedenza delle civili leggi, girano sotto certe solennitá da privati in privati, in difetto de’ quali debbano ritornare al lor principio, dond’essi eran usciti. Tutto lo che qui detto ad evidenza vien confermato dalla legge papia poppea d’intorno a’ caduci. La quale puniva i celibi con la giusta pena: ch’i cittadini i quali avevano traccurato di propagare co’ matrimoni il loro nome romano, s’avessero fatto testamenti, questi si rendessero inefficaci, ed altronde si stimassero non avere congionti che loro succedessero ab intestato, e sí, né per l’una né per l’altra via, avessero eredi, i quali conservassero i nomi loro; e i patrimoni ricadessero al fisco, con qualitá non di retaggi ma di peculi, e, per dirla con Tacito, andassero al popolo, «tamquam omnium parentem». Ove il profondo scrittore richiama la ragione delle pene
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caducarie fino dagli antichissimi tempi ch’i primi padri del gener umano occuparono le prime terre vacue, la qual occupazione è ’l fonte originario di tutti i domíni del mondo; i quali padri poi, unendosi in cittá, delle loro potestá paterne fecero la potestá civile, e de’ loro privati patrimoni fecero il patrimonio pubblico, il quale s’appella «erario»; e che i patrimoni de’ cittadini vadano di privato in privato con qualitá di retaggi, ma, ricadendo al fisco, riprendano l’antichissima prima qualitá di peculi.

[604] Qui, nella generazione delle loro repubbliche eroiche, fantasticarono i poeti eroi l’undecima divinitá maggiore, che fu Mercurio. Il quale porta a’ famoli ammutinati la legge nella verga divina (parola reale degli auspíci), ch’è la verga con cui Mercurio richiama l’anime dall’Orco, come narra Virgilio (richiama a vita socievole i clienti, che, usciti dalla protezione degli eroi, erano tornati a disperdersi nello stato eslege, ch’è l’Orco de’ poeti, il quale divoravasi il tutto degli uomini, come appresso si spiegherá). Tal verga ci vien descritta con una o due serpi avvoltevi (che dovetter esser spoglie di serpi, significanti il dominio bonitario che si rillasciava lor dagli eroi, e ’l dominio quiritario che questi si riserbavano), con due ali in capo alla verga (per significar il dominio eminente degli ordini) e con un cappello pur alato (per raffermarne l’alta ragione sovrana libera, come il cappello restò geroglifico di libertá); oltre di ciò, con l’ali a’ talloni (in significazione che ’l dominio de’ fondi era de’ senati regnanti), e tutto il rimanente si porta nudo (perché portava loro un dominio nudo di civile solennitá, e che tutto consisteva nel pudor degli eroi, appunto quali nude vedemmo sopra essere state finte Venere con le Grazie). Talché dall’uccello d’Idantura, col quale voleva dir a Dario ch’esso era sovrano signor della Scizia per gli auspíci che vi aveva, i greci ne spiccarono l’ali, per significare ragioni eroiche; e finalmente, con lingua articolata, i romani in astratto dissero «auspicia esse sua», per gli quali volevano dimostrar alla plebe ch’erano propie loro tutte le civili eroiche ragioni e diritti. Sicché questa verga alata di Mercurio

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de’ greci, toltane la serpe, è l’aquila sullo scettro degli egizi, de’ toscani, romani e, per ultimo, degl’inghilesi, che sopra abbiam detto. La qual da’ greci si chiamò κηρύκειον,/ perché portò tal legge agraria a’ famoli degli eroi, i quali da Omero sono κήρυκες appellati; portò l’agraria di Servio Tullio, con la quale ordinò il censo, per lo quale i contadini con tal qualitá dalle leggi romane sono detti «censiti»; portò in queste serpi il dominio bonitario de’ campi, per lo quale da ὠφέλεια/ (che viene da ὄφις, «serpe») fu detto il terratico, il quale, come sopra abbiam dimostrato, da’ plebei si pagava agli eroi; portò finalmente il famoso nodo erculeo, per lo quale gli uomini pagavano agli eroi la decima d’Ercole, e i romani debitori plebei fin alla legge petelia furono «nessi» o vassalli ligi de’ nobili: delle quali cose tutte abbiamo appresso molto da ragionare.

[605] Quindi ha a dirsi che questo Mercurio de’ greci fu il Theut o Mercurio che dá le leggi agli egizi, significato nel geroglifico dello Cnefo: descritto serpente, per dinotare la terra colta; col capo di sparviere o d’aquila, come gli sparvieri di Romolo poi divennero l’aquile de’ romani, con che intendevano gli auspíci eroici; stretto da un cinto, segno del nodo erculeo; con in mano uno scettro, che voleva dire il regno de’ sacerdoti egizi; con un cappello pur alato, che additava il loro alto dominio de’ fondi; e alfin con un uovo in bocca, che dava ad intendere l’orbe egiziaco, se non è forse il pomo d’oro, che sopra abbiamo dimostrato significare il dominio alto ch’i sacerdoti avevano delle terre d’Egitto. Dentro il qual geroglifico Maneto ficcò la generazione dell’universo mondano; e giunse tanto ad impazzare la boria de’ dotti, ch’Atanagio Kirchero nell’Obelisco panfilio dice significare la santissima Trinitá.

[606] Qui incominciarono i primi commerzi nel mondo, ond’ebbe il nome esso Mercurio, e poi funne tenuto dio delle mercatanzie; come da questa prima imbasciata fu lo stesso creduto dio degli ambasciadori, e, con veritá di sensi, fu detto dagli dèi (che noi sopra truovammo essersi appellati gli eroi delle prime cittá) esser mandato agli uomini (qual’Ottomano avverte con maraviglia essersi detti dalla ricorsa barbarie i vassalli); e le

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ali, che qui abbiam veduto significare ragioni eroiche, furono poi credute usarsi da Mercurio per volare da cielo in terra, e quinci rivolare da terra in cielo. Ma, per ritornar a’ commerzi, eglino incominciarono d’intorno a queste spezie di beni stabili; e la prima mercede fu, come dovett’essere, la piú semplice e naturale, qual è de’ frutti che si raccogliono dalla terra; la qual mercede, sia o di fatighe o di robe, si costuma tuttavia ne’ commerzi de’ contadini.

[607] Tutta questa istoria conservarono i greci nella voce νόμος,/ con la quale significano e «legge» e «pasco»; perché la prima legge fu quest’agraria, per la quale gli re eroici furono detti «pastori de’ popoli», come qui si è accennato e piú appresso si spiegherá.

[608] Cosí i plebei delle prime barbare nazioni (appunto come Tacito gli narra appresso i Germani antichi, ove, con errore, gli crede servi, perché, come si è dimostro, i soci eroici erano come servi) si dovettero dagli eroi sparger per le campagne, e ivi soggiornare con le lor case ne’ campi assegnati loro e, co’ frutti delle ville, contribuire quanto faceva d’uopo al sostentamento de’ lor signori. Con le quali condizioni si congiugna il giuramento che pur da Tacito udimmo sopra, di dover essi e guardargli e difendergli e servir alla loro gloria, e tal spezie di diritti si pensi di diffinirsi con un nome di legge: che si vedrá con evidenza che non può convenir loro altro nome che di questi i quali da noi si dicono «feudi».

[609] Di tal maniera si truovarono le prime cittá fondate sopra ordini di nobili e caterve di plebei, con due contrarie eterne propietá, le quali escono da questa natura di cose umane civili che si è qui da noi ragionata: de’ plebei di voler sempre mutar gli Stati, come sempre essi gli mutano; e de’ nobili, sempre di conservargli. Onde, nelle mosse de’ civili governi, se ne dicono «ottimati» tutti coloro che si adoperano per mantenere gli Stati, ch’ebbero tal nome da questa propietá di star fermi ed in piedi.

[610] Quivi nacquero le due divisioni: una di sappienti e di volgo, perocché gli eroi fondavano i loro regni nella sapienza

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degli auspíci, come si è detto nelle Degnitá e molto sopra si è ragionato. In séguito di questa divisione, restò al volgo l’aggiunto perpetuo di «profano»; perché gli eroi, ovvero i nobili, furono i sacerdoti dell’eroiche cittá, come certamente lo furono tra’ romani fin a cent’anni dopo la legge delle XII Tavole, come sopra si è detto; onde i primi popoli, con certa spezie di scomunica, toglievano la cittadinanza, qual fu tra’ romani l’interdetto dell’acqua e fuoco, come appresso si mostrerá. Perciò le prime plebi delle nazioni si tennero per istranieri, come or ora vedremo (e ne restò propietá eterna che non si dá la cittadinanza ad un uomo di diversa religione); e da tal «volgo» restaron detti «vulgo quaesiti» i figliuoli fatti nel chiasso, per ciò che sopra abbiam ragionato, che le plebi nelle prime cittá, perocché non vi avevano la comunanza delle cose sagre o divine, per molti secoli non contrassero matrimoni solenni.

[611] L’altra divisione fu di «civis» e «hostis». E «hostis» significò «ospite o straniero» e «nimico», perché le prime cittá si composero di eroi e di ricevuti a’ di lor asili (nel qual senso s’hanno a prendere tutti gli ospizi eroici); come, da’ tempi barbari ritornati, agl’italiani restò «oste» per «albergatore» e per gli «alloggiamenti di guerra», e «ostello» dicesi per «albergo». Cosí Paride fu ospite della real casa d’Argo, cioè nimico, che rapiva donzelle nobili argive, rappresentate col carattere d’Elena. Cosí Teseo fu ospite d’Arianna, Giasone di Medea, che poi abbandonano e non vi contraggono matrimoni: ch’erano riputate azioni eroiche, che, co’ sensi nostri presenti, sembrano, come lo sono, azioni d’uomini scellerati. Cosí hassi a difendere la pietá d’Enea, ch’abbandona Didone ch’aveva stuprato (oltre a’ grandissimi benefíci che n’avea ricevuti, e la magnanima profferta che quella gli aveva fatto del regno di Cartagine in dote delle sue nozze), per ubbidir a’ fati, i quali, benché fusse straniera anch’essa, gli avevano destinata Lavinia moglie in Italia. Il qual eroico costume serbò Omero nella persona d’Achille, il massimo degli eroi della Grecia, il quale rifiuta qualunque delle tre figliuole ch’Agamennone gli offre in moglie con la regal dote di sette terre ben popolate

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di bifolchi e pastori, rispondendo di voler prendere in moglie quella che nella sua padria gli darebbe Peleo, suo padre. Insomma, i plebei eran «ospiti» delle cittá eroiche, contro i quali udimmo piú volte Aristotile che «gli eroi giuravano d’esser eterni nimici». Questa stessa divisione ci è dimostrata con quelli estremi di «civis» e «peregrinus», preso il «peregrino» con la sua natia propietá d’«uomo che divaga per la campagna», detta «ager» in significazione di «territorio» o «distretto» (come «ager neapolitanus», «ager nolanus»), detto cosí quasi «peragrinus», perocché gli stranieri che viaggiano per lo mondo non divagano per gli campi, ma tengon dritto per le vie pubbliche.

[612] Tali origini ragionate degli ospiti eroici dánno un gran lume alla storia greca ove narra de’ sami, sibariti, trezeni, anfiboliti, calcidoni, gnidi e scii, che dagli stranieri vi furono cangiate le repubbliche da aristocratiche in popolari; e dánno l’ultimo lustro a ciò ch’abbiamo pubblicato molti anni fa con le stampe, ne’ Princípi del Diritto universale, d’intorno alla favola delle leggi delle XII Tavole venute da Atene in Roma; ch’è un de’ due luoghi per gli quali stimiamo non esser inutile affatto quell’opera. Ché nel capo De forti sanate nexo soluto, che noi pruovammo essere stato il subbietto di tutta quella contesa, per ciò che vi han detto i latini filologi che ’l «forte sanate» era lo straniero ridutto all’ubbidienza, ella fu la plebe romana, la quale si era rivoltata perché non poteva da’ nobili riportar il dominio certo de’ campi; che certo non poteva durare, se non ne fusse stata fissa eternalmente la legge in una pubblica tavola, con la quale determinatosi il gius incerto, manifestatosi il gius nascosto, fusse legata a’ nobili la mano regia di ripigliarglisi: ch’è ’l vero di ciò che ne racconta Pomponio. Per lo che fece tanti romori che fu bisogno criare i decemviri, i quali diedero altra forma allo Stato e ridussero la plebe sollevata all’ubbidienza, con dichiararla, con questo capo, prosciolta dal nodo vero del dominio bonitario, per lo quale erano stati «glebae addicti» o «adscriptitii» o «censiti» del censo di Servio Tullio, come sopra si è dimostrato, e restasse obbligata col

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nodo finto del dominio quiritario: ma se ne serbò un vestigio fin alla legge petelia nel diritto, ch’avevano i nobili, della prigion privata sopra i plebei debitori. I quali stranieri, con le «tentazioni tribunizie» ch’elegantemente dice Livio (e noi l’abbiamo noverate, nell’annotazione alla legge publilia, sopra, nella Tavola cronologica), lo stato di Roma da aristocratico finalmente cangiarono in popolare.

[613] Non essersi Roma fondata sopra le prime rivolte agrarie egli ci dimostra essere stata una cittá nuova, come canta la storia. Fu ella bensí fondata sopra l’asilo, dove, durando ancora dappertutto le violenze, avevano dovuto prima farsi forti Romolo e i suoi compagni, e poi ricevervi i rifuggiti, e quivi fondare le clientele, quali sono state sopra da noi spiegate. Onde dovette passare un dugento anni perch’i clienti s’attediassero di quello stato: quanto tempo vi corse appunto perché il re Servio Tullio vi portasse la prima agraria. Il qual tempo aveva dovuto correre nelle antiche cittá per un cinquecento anni, per quest’istesso: che quelle si composero d’uomini piú semplici, questa di piú scaltriti; ch’è la cagione perché i romani manomisero il Lazio, quindi Italia, e poi il mondo, perché piú degli altri latini ebbero giovine l’eroismo. La qual istessa è la ragione piú propia (la qual si disse nelle Degnitá) ch’i romani scrissero in lingua volgare la loro storia eroica, ch’i greci avevano scritta con favole.

[614] Tutto ciò ch’abbiamo meditato de’ princípi della politica poetica e veduto nella romana storia, a maraviglia ci è confermato da questi quattro caratteri eroici: primo, dalla lira d’Orfeo ovvero d’Apollo; secondo, dal teschio di Medusa; terzo, da’ fasci romani; quarto ed ultimo, dalla lutta d’Ercole con Anteo.

[615] E, primieramente, la lira fu ritruovata dal Mercurio de’ greci, quale da Mercurio egizio fu ritruovata la legge. E tal lira gli fu data da Apollo, dio della luce civile o sia della nobiltá, perché nelle repubbliche eroiche i nobili comandavan le leggi, e con tal lira Orfeo, Anfione ed altri poeti teologi, che professavano scienza di leggi, fondarono e stabilirono l’umanitá della Grecia, come piú spiegatamente diremo appresso. Talché

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la lira fu l’unione delle corde o forze de’ padri, onde si compose la forza pubblica, che si dice «imperio civile», che fece cessare finalmente tutte le forze e violenze private. Onde la legge con tutta propietá restò a’ poeti diffinita «lyra regnorum», nella quale s’accordarono i regni famigliari de’ padri, i quali stati erano innanzi scordati, perché tutti soli e divisi tra loro nello stato delle famiglie, come diceva Polifemo ad Ulisse. E la gloriosa storia nel segno di essa lira fu poi con le stelle descritta in cielo, e ’l regno d’Irlanda nell’arme degli re d’Inghilterra ne carica lo scudo d’un’arpa. Ma, appresso, i filosofi ne fecero l’armonia delle sfere, la qual è accordata dal sole; ma Apollo suonò in terra quella la quale, nonché poté, dovett’udire, anzi esso stesso suonare Pittagora, preso per poeta teologo e fondatore di nazione, il quale finora n’è stato d’impostura accusato.

[616] Le serpi unite nel teschio di Medusa, caricato d’ale nelle tempia, son i domíni alti famigliari ch’avevano i padri nello stato delle famiglie, ch’andarono a comporre il dominio eminente civile. E tal teschio fu inchiovato allo scudo di Perseo, ch’è lo stesso del qual è armata Minerva, che tra l’armi, o sia nelle adunanze armate delle prime nazioni, tralle quali truovammo ancor la romana, detta le spaventose pene ch’insassiscono i riguardanti. Una delle quali serpi sopra dicemmo essere stato Dragone, il quale fu detto scriver le leggi col sangue, perché se n’era armata quell’Atene (qual si disse Minerva Ἀθηνᾶ)/ nel tempo ch’era occupata dagli ottimati, come pur sopra si è detto. E ’l dragone appo i chinesi, i quali ancora scrivono per geroglifici, egli, com’anco sopra si è veduto, è l’insegna dell’imperio civile.

[617] I fasci romani sono i litui de’ padri nello stato delle famiglie. Una qual sí fatta verga in mano d’uno di essi Omero con peso di parole chiama «scettro», ed esso padre appella «re», nello scudo ch’egli descrive d’Achille, nel quale si contiene la storia del mondo; e in tal luogo è fissata l’epoca delle famiglie innanzi a quella delle cittá, come appresso sará pienamente spiegato. Perché, con tali litui presi gli auspíci che le

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comandassero, i padri dettavano le pene de’ loro figliuoli, come nella legge delle XII Tavole ne passò quella del figliuol empio ch’abbiamo sopra veduto. Onde l’unione di tali verghe o litui significa la generazione dell’imperio civile, la quale si è qui ragionata.

[618] Finalmente Ercole (carattere degli Eraclidi ovvero nobili dell’eroiche cittá) lutta con Anteo (carattere de’ famoli ammutinati) e, innalzandolo in cielo (rimenandoli nelle prime cittá poste in alto), il vince e l’annoda a terra. Di che restò un giuoco a’ greci detto del «nodo»; ch’è ’l nodo erculeo, col qual Ercole fondò le nazioni eroiche, e per lo quale da’ plebei si pagava agli eroi la decima d’Ercole, che dovett’esser il censo pianta delle repubbliche aristocratiche. Ond’i plebei romani per lo censo di Servio Tullio furono nexi de’ nobili e, per lo giuramento che narra Tacito darsi da’ Germani antichi a’ loro principi, dovevano lor servire come vassalli perangari a propie spese nelle guerre: di che la plebe romana si lamenta dentro cotesta stessa sognata libertá popolare. Che dovetter esser i primi assidui, che «suis assibus militabant»: però soldati non di ventura, ma di dura necessitá.

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[Capitolo Terzo]
Dell’origini del censo e dell’erario

[619] Ma finalmente dalle gravi usure e spesse usurpazioni ch’i nobili facevano de’ loro campi (a tal segno ch’a capo di etá Filippo, tribuno della plebe, ad alta voce gridava che duemila nobili possedevano tutti i campi che dovevan essere ripartiti tra ben trecentomila cittadini, ch’a suo tempo in Roma si noveravano), perché fin da quarant’anni dopo la discacciata di Tarquinio Superbo, per la di lui morte assicurata, la nobiltá aveva ricominciato ad insolentire sopra la povera plebe; e ’l senato di que’ tempi aveva dovuto incominciar a praticar quell’ordinamento: ch’i plebei pagassero all’erario il censo, che prima privatamente avevano dovuto pagar a’ nobili, acciocché esso erario potesse somministrar loro le spese indi in poi nelle guerre; dal qual tempo comparisce di nuovo sulla storia romana il censo, ch’i nobili sdegnavano amministrare, al riferire di Livio, come cosa non convenevole alla loro degnitá (perché Livio non poté intendere ch’i nobili nol volevano, perché non era il censo ordinato da Servio Tullio, ch’era stato pianta della libertá de’ signori, il qual si pagava privatamente ad essi nobili, ingannato con tutti gli altri che ’l censo di Servio Tullio fusse stato pianta della libertá popolare: perché certamente non fu maestrato di maggior degnitá di quella di che fu la censura, e fin dal suo primo anno fu amministrato da’ consoli): cosí i nobili, per le loro avare arti medesime, vennero da se stessi a formar il censo, che poi fu pianta della popolar libertá. Talché, essendone venuti i campi tutti in loro potere, eglino a’ tempi di Filippo tribuno dovevano duemila nobili pagar il tributo per trecentomila altri cittadini ch’allora si numeravano (appunto come in Isparta era divenuto di pochi tutto il campo spartano), perché si erano descritti nell’erario i censi ch’i nobili avevano privatamente imposto a’ campi, i quali, incolti,

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ab antiquo avevano assegnati a coltivar a’ plebei. Per cotanta inegualitá dovetter avvenire de’ grandi movimenti e rivolte della plebe romana, le quali Fabio, con sappientissimo ordinamento, onde meritò il sopranome di Massimo, rassettò, con ordinare che tutto il popolo romano si ripartisse in tre classi, di senatori, cavalieri e plebei, e i cittadini vi si allogassero secondo le facultá; e consolò i plebei: perocché, quando, innanzi, que’ dell’ordine senatorio, ch’era prima stato tutto de’ nobili, vi prendevano i maestrati, indi in poi vi potessero passare ancora con le ricchezze i plebei, e quindi fusse aperta a’ plebei la strada ordinaria a tutti gli onori civili.

[620] Tal è la guisa che fa vera la tradizione che ’l censo di Servio Tullio (perché da quello se ne apparecchiò la materia e da quello ne nacquero l’occasioni) fu egli pianta della libertá popolare, come sopra si ragionò per ipotesi nell’Annotazioni alla Tavola cronologica, ov’è il luogo della legge publilia. E tal ordinamento, nato dentro Roma medesima, fu invero quello che ordinovvi la repubblica democratica, non giá la legge delle XII Tavole colá venuta da Atene: tanto che Bernardo Segni quella ch’Aristotile chiama «repubblica democratica», egli in toscano trasporta «repubblica per censo», per dire «repubblica libera popolare». Lo che si dimostra con esso Livio, che, quantunque ignorante dello Stato romano di quelli tempi, pur narra ch’i nobili si lagnavano avere piú perduto con quella legge in cittá che guadagnato fuori con l’armi in quell’anno, nel quale pur avevano riportato molte e grandi vittorie. Ch’è la cagione onde Publilio, che ne fu autore, fu detto «dittator popolare».

[621] Con la libertá popolare, nella quale tutto il popolo è essa cittá, avvenne che ’l dominio civile perdé il propio significato di «dominio pubblico» (che, da essa cittá, era stato detto «civile»), e si disperdé per tutti i domíni privati di essi cittadini romani, che poi tutti facevano la romana cittá. Il dominio ottimo s’andò ad oscurare nella sua significazione natia di «dominio fortissimo», come sopra abbiam detto, «non infievolito da niun real peso, anche pubblico», e restò a significare

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«dominio di roba libera da ogni peso privato». Il dominio quiritario non piú significò dominio di fondo, dal cui possesso se fusse caduto il cliente o plebeo, il nobile, da cui aveva la cagion del dominio, doveva venir a difenderlo; che furono i primi «autores iuris» in romana ragione, i quali, per queste e non altre clientele ordinate da Romolo, dovevano insegnar a’ plebei queste e non altre leggi. Imperciocché quali leggi dovevan i nobili insegnar a’ plebei, i quali fin al CCCIX di Roma non ebbero privilegio di cittadini, e fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, dentro il lor collegio de’ pontefici, i nobili tennero arcane alla plebe? Sicché i nobili furon in tali tempi quelli «autores iuris», ch’ora sono rimasti nella spezie ch’i possessori de’ fondi comperati, ove ne sono convenuti con revindicazione da altri, «lodano in autori», perché loro assistano e gli difendano: ora tal dominio quiritario è rimasto a significare dominio civile privato assistito da revindicazione, a differenza del bonitario, che si mantiene con la sola possessione.

[622] Nella stessa guisa, e non altrimenti, queste cose sulla natura eterna de’ feudi ritornarono a’ tempi barbari ritornati. Prendiamo, per esemplo, il regno di Francia, nel quale le tante provincie, ch’ora il compongono, furono sovrane signorie de’ principi soggetti al re di quel regno, dove que’ principi avevano dovuto avere i loro beni non soggetti a pubblico peso veruno: dipoi, o per successioni o per ribellioni o caduci, s’incorporarono a quel reame, e tutti i beni di que’ principi ex iure optimo furono sottoposti a’ pubblici pesi. Perché le case e i fondi di essi re, de’ quali avevano la Camera reale lor propia, o per parentadi o per concessioni essendo passati a’ vassalli, oggi si truovano assoggettiti a’ dazi e tributi: tanto che ne’ regni di successione tale s’andò a confondere il dominio ex iure optimo col dominio privato soggetto a peso pubblico, qual il fisco, ch’era patrimonio del romano principe, si fusse andato a confondere con l’erario.

[623] La qual ricerca del censo e dell’erario è stata la piú aspra delle nostre meditazioni sulle cose romane, siccome nell’Idea dell’opera l’avvisammo.

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[Capitolo Quarto]
Dell’origine de’ comizi romani

[624] Per le quali cose cosí meditate la βουλή e l’ἀγορά, che sono le due ragunanze eroiche ch’Omero narra e noi sopra abbiam osservato, dovetter essere tra’ romani le ragunanze curiate, le quali si leggono le piú antiche sotto gli re, e le ragunanze tribute. Le prime furono dette «curiate» da «quir», «asta», il cui obbliquo è «quiris», che poi restò retto, conforme ne abbiamo ragionato nell’Origini della lingua latina, siccome da χείρ, «la mano», ch’appo tutte le nazioni significò «potestá», dovette a’ greci dapprima venir detta κυρία, nello stesso sentimento nel qual è appresso i latini «curia». Onde vennero i cureti, ch’erano i sacerdoti armati d’aste, perché tutti i popoli eroici furon di sacerdoti, e i soli eroi avevan il diritto dell’armi; i quali cureti, com’abbiamo sopra veduto, i greci osservarono in Saturnia (o sia antica Italia), in Creta ed in Asia. E κυρία, in tal antico significato, dovette intendersi per «signoria»; come «signorie» ora pur si dicono le repubbliche aristocratiche: da’ quali senati eroici si disse κῦρος l’«autoritá»; ma, come sopra abbiam osservato e piú appresso n’osserveremo, «autoritá di dominio»; dalle qual’origini poi restarono κύριος/ e κυρία per «signore» e «signora». E, come da χείρ i «cureti» da’ greci, cosí sopra vedemmo da «quir» essere stati detti i «quiriti» romani; che fu il titolo della romana maestá, che si dava al popolo in pubblica ragunanza, come si è accennato pur sopra, dove osservammo de’ Galli e degli antichi Germani, combinati con quel de’ cureti che dicevano i greci, che tutti i primi popoli barbari tennero le pubbliche ragunanze sotto dell’armi.

[625] Quindi cotal maestoso titolo dovette incominciare da quando il popolo era di soli nobili, i quali soli avevano il diritto

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dell’armi; e che poi passò al popolo composto ancor di plebei, divenuta Roma repubblica popolare. Perché della plebe, la qual non ebbe dapprima cotal diritto, le ragunanze furon dette «tribute» da tribus, «la tribú»; ed appo i romani, siccome nello stato delle famiglie esse «famiglie» furon dette da’ «famoli», cosí in quello poi delle cittá le tribú, intesesi de’ plebei, i quali vi si ragunavano per ricevere gli ordini dal regnante senato; tra’ quali, perché fu principale e piú frequente quello di dover i plebei contribuir all’erario, dalla voce «tribú» venne detto «tributum».

[626] Ma, poi che Fabio Massimo introdusse il censo, che distingueva tutto il popolo romano in tre classi secondo i patrimoni de’ cittadini — perché, innanzi, i soli senatori erano stati cavalieri, perché i soli nobili a’ tempi eroici avevano il diritto dell’armeggiare, [e] perciò la repubblica romana antica sopra essa storia si legge divisa tra «patres» e «plebem»; talché tanto aveva innanzi significato «senatore» quanto «patrizio», ed all’incontro tanto «plebeo» quanto «ignobile»: quindi, siccom’erano innanzi state due sole classi del popolo romano antico, cosí erano state due sole sorte di ragunanze: una, la curiata, di padri o nobili o senatori; l’altra, tributa, di plebei ovvero d’ignobili; — ma, poi che Fabio ripartí i cittadini, secondo le loro facultá, per tre classi, di senatori, cavalieri e plebei, essi nobili non fecero piú ordine nella cittá, e secondo le loro facultá si allogavano per sí fatte tre classi. Dal qual tempo in poi si vennero a distinguere «patrizio» da «senatore» e da «cavaliere», e «plebeo» da «ignobile»; e «plebeo» non piú s’oppose a «patrizio», ma a «cavaliere» e «senatore»; né «plebeo» significò «ignobile», ma «cittadino di picciolo patrimonio», quantunque nobile egli si fusse; ed al contrario «senatore» non piú significò «patrizio», ma «cittadino d’amplissimo patrimonio», quantunque si fusse ignobile.

[627] Per tutto ciò indi in poi si dissero «comitia centuriata» le ragunanze nelle quali per tutte e tre le classi conveniva tutto il popolo romano, per comandare, tra l’altre pubbliche faccende, le leggi consolari; e ne restarono dette «comitia

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tributa» quelle dove la plebe sola comandava le leggi tribunizie, che furon i plebisciti, innanzi detti in sentimento nel quale Cicerone gli direbbe «plebi nota», cioè «leggi pubblicate alla plebe» (una delle quali era stata quella di Giunio Bruto, che narra Pomponio, con cui Bruto pubblicò alla plebe gli re eternalmente discacciati da Roma); siccome nelle monarchie s’arebbon a dire «populo nota», con somigliante propietá, le leggi reali. Di che, quanto poco erudito tanto assai acuto, Baldo si maraviglia esserci stata lasciata scritta la voce «plebiscitum» con una «s», perché, nel sentimento di «legge ch’aveva comandato la plebe», dovrebbe essere stato scritto con due: «plebisscitum», venendo egli da «sciscor» e non da «scio».

[628] Finalmente, per la certezza delle divine cerimonie, restaron dette «comitia curiata» le ragunanze de’ soli capi delle curie, ove si trattava di cose sagre. Perché ne’ tempi di essi re si guardavano con aspetto di sagre tutte le cose profane, e gli eroi erano dappertutto cureti ovvero sacerdoti, come sopra si è detto, armati; onde infin agli ultimi tempi romani, essendo rimasta con aspetto di cosa sagra la paterna potestá (le cui ragioni nelle leggi spesso «sacra patria» son dette): per tal cagione in tali ragunanze con le leggi curiate si celebravano l’arrogazioni.

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[Capitolo Quinto]
Corollario
Che la divina provvedenza è l’ordinatrice delle repubbliche
e nello stesso tempo del diritto natural delle genti

[629] Sopra questa generazion di repubbliche, scoverta nell’etá degli dèi — nella quale i governi erano stati teocratici, cioè governi divini, e poi uscirono ne’ primi governi umani, che furon gli eroici (che qui chiamiamo «umani» per distinguergli da’ divini), dentro a’ quali, come gran corrente di real fiume ritiene per lungo tratto in mare e l’impressione del corso e la dolcezza dell’acque, scorse l’etá degli dèi, perché dovette durar ancora quella maniera religiosa di pensare che gli dèi facessero tutto ciò che facevan essi uomini (onde de’ padri regnanti nello stato delle famiglie ne fecero Giove; de’ medesimi, chiusi in ordine nel nascere delle prime cittá, ne fecero Minerva; de’ lor ambasciadori mandati a’ sollevati clienti ne fecero Mercurio; e, come poco appresso vedremo, degli eroi corsali ne fecero finalmente Nettunno), — è da sommamente ammirare la provvedenza divina. La qual, intendendo gli uomini tutt’altro fare, ella portògli in prima a temer la divinitá (la cui religione è la prima fondamental base delle repubbliche); — indi dalla religione furon fermi nelle prime terre vacue, ch’essi primi di tutt’altri occuparono (la qual occupazione è ’l fonte di tutti i domíni); e, gli piú robusti giganti avendole occupate nell’alture de’ monti, dove sorgono le fontane perenni, dispose che si ritruovassero in luoghi sani e forti di sito e con copia d’acqua, per poter ivi star fermi né piú divagare: che sono le tre qualitá che devon avere le terre per poi surgervi le cittá; — appresso, con la religione medesima, gli dispose ad unirsi con certe donne in perpetua compagnia di lor vita: che son i matrimoni, riconosciuti fonte di tutte le potestá; — dipoi, con

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queste donne si ritruovarono aver fondato le famiglie, che sono il seminario delle repubbliche; — finalmente, con l’aprirsi degli asili, si ritruovarono aver fondato le clientele, onde fussero apparecchiate le materie tali, che poi, per la prima legge agraria, nascessero le cittá sopra due comuni d’uomini che le componessero: uno di nobili che vi comandassero, altri di plebei ch’ubbidissero (che Telemaco, in una diceria appo Omero, chiama «altro popolo», cioè popolo soggetto, diverso dal popolo regnante, il qual si componeva d’eroi); ond’esce la materia della scienza politica, ch’altro non è che scienza di comandare e d’ubbidire nelle cittá. E, nel loro medesimo nascimento, fa nascere le repubbliche di forma aristocratica, in conformitá della selvaggia e ritirata natura di tai primi uomini; la qual forma tutta consiste, come pur i politici l’avvertiscono, in custodire i confini e gli ordini, acciocché le genti di fresco venute all’umanitá, anco per la forma de’ lor governi, seguitassero lungo tempo a stare dentro di essolor chiuse, per disavvezzarle dalla nefaria infame comunione dello stato bestiale e ferino. E, perché gli uomini erano di menti particolarissime che non potevano intendere ben comune, per lo che eran avvezzi a non impacciarsi nemmeno delle cose particolari d’altrui, siccome Omero il fa dire da Polifemo ad Ulisse (nel qual gigante Platone riconosce i padri di famiglia nello stato che chiamano «di natura», il quale fu innanzi a quello delle cittá), la provvedenza, con la stessa forma di tai governi, gli menò ad unirsi alle loro patrie, per conservarsi tanto grandi privati interessi quanto erano le loro monarchie famigliari (ch’era ciò ch’essi assolutamente intendevano); e sí, fuori d’ogni loro proposito, convennero in un bene universale civile, che si chiama «repubblica».

[630] Or qui, per quelle pruove divine ch’avvisammo sopra nel Metodo, si rifletta, col meditarvi sopra, alla semplicitá e naturalezza con che la provvedenza ordinò queste cose degli uomini, che, per falsi sensi, gli uomini dicevano con veritá che tutte facessero i dèi; — e vi si combini sopra l’immenso numero degli effetti civili, che tutti richiamerannosi a queste quattro

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loro cagioni, che, come per tutta quest’opera si osserverá, sono quasi quattro elementi di quest’universo civile: cioè religioni, matrimoni, asili e la prima legge agraria che sopra si è ragionata; — e poi, tra tutti i possibili umani, si vada in ricerca se tante, sí varie e diverse cose abbian in altra guisa potuto aver incominciamenti piú semplici e piú naturali tra quelli stessi uomini ch’Epicuro dice usciti dal caso e Zenone scoppiati dalla necessitá: ché né ’l caso gli divertí né ’l fato gli strascinò fuori di quest’ordine naturale. Ché, nel punto nel qual esse repubbliche dovevano nascere, giá si erano innanzi apparecchiate ed erano tutte preste le materie di ricever la forma; e n’uscí il formato delle repubbliche, composto di mente e di corpo. Le materie apparecchiate furono propie religioni, propie lingue, propie terre, propie nozze, propi nomi (ovvero genti o sieno case), propie armi, e quindi propi imperi, propi maestrati e per ultimo propie leggi; e, perché propi, perciò dello ’n tutto liberi, e, perché dello ’n tutto liberi, perciò costitutivi di vere repubbliche. E tutto ciò provenne perché tutte l’anzidette ragioni erano state innanzi propie de’ padri di famiglia, nello stato di natura monarchi; i quali, in questo punto, unendosi in ordine, andaron a generare la civil potestá sovrana, siccome, nello stato di natura, essi padri avevan avuto le potestá famigliari, innanzi non ad altri soggette che a Dio. Questa sovrana civil persona si formò di mente e di corpo. La mente fu un ordine di sappienti, quali in quella somma rozzezza e semplicitá esser per natura potevano, e ne restò eterna propietá che senza un ordine di sappienti gli Stati sembrano repubbliche in vista, ma sono corpi morti senz’anima: dall’altra parte il corpo, formato col capo ed altre minori membra. Onde alle repubbliche restonne quest’altra eterna propietá: ch’altri vi debban esercitare la mente negl’impieghi della sapienza civile, altri il corpo ne’ mestieri e nell’arti che deon servire cosí alla pace come alla guerra; con questa terza eterna propietá: che la mente sempre vi comandi e che ’l corpo v’abbia perpetuamente a servire.

[631] Ma ciò che dee recare piú maraviglia è che la provvedenza, come, trallo far nascere le famiglie (le quali tutte erano nate con

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qualche cognizione d’una divinitá, benché, per lor ignoranza e disordine, non conoscesse la vera ciascuna, con aver ciascuna propie religioni, lingue, terre, nozze, nomi, armi, governi e leggi), aveva fatto nello stesso tempo nascere il diritto naturale delle genti maggiori, con tutte l’anzidette propietá, da usar poi i padri di famiglia sopra i clienti; cosí, trallo far nascere le repubbliche, per mezzo di essa forma aristocratica con la qual nacquero, ella il diritto naturale delle genti maggiori (o sieno famiglie), che si era innanzi nello stato di natura osservato, fece passare in quello delle genti minori (o sia de’ popoli), da osservarsi nel tempo delle cittá. Perché i padri di famiglia, de’ quali tutte l’anzidette ragioni erano propie loro sopra i clienti, in tal punto, col chiudersi quelli in ordine naturale contro di questi, vennero essi a chiudere tutte l’anzidette propietá dentro i lor ordini civili contro le plebi; nello che consistette la forma aristocratica severissima delle repubbliche eroiche.

[632] In cotal guisa il diritto naturale delle genti, ch’ora tra i popoli e le nazioni vien celebrato, sul nascere delle repubbliche nacque propio delle civili sovrane potestá. Talché popolo o nazione, che non ha dentro una potestá sovrana civile fornita di tutte l’anzidette propietá, egli propiamente popolo o nazione non è, né può esercitar fuori contr’altri popoli o nazioni il diritto natural delle genti; ma, come la ragione, cosí l’esercizio ne avrá altro popolo o nazione superiore.

[633] Le quali cose qui ragionate, poste insieme con quello che si è sopra avvertito, che gli eroi delle prime cittá s’appellarono «dèi», dánno la spiegata significazione di quel motto, con cui «iura a diis posita» sono state dette le ordinazioni del diritto natural delle genti. Ma, succeduto poi il diritto naturale delle genti umane ch’Ulpiano piú volte sopra ci ha detto, sopra il quale i filosofi e i morali teologi s’alzarono ad intendere il diritto naturale della ragion eterna tutta spiegata, tal motto passò acconciamente a significare il diritto naturale delle genti ordinato dal vero Dio.

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[Capitolo Sesto]
Siegue la politica degli eroi

[634] Ma tutti gli storici dánno il principio al secolo eroico coi corseggi di Minosse e con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto, il prosieguimento con la guerra troiana, il fine con gli error degli eroi, che vanno a terminare nel ritorno d’Ulisse in Itaca. Laonde in tali tempi dovette nascere l’ultima delle maggiori divinitá, la qual fu Nettunno, per questa autoritá degli storici, la qual noi avvaloriamo con una ragion filosofica, assistita da piú luoghi d’oro d’Omero. La ragion filosofica è che l’arti navale e nautica sono gli ultimi ritruovati delle nazioni, perché vi bisognò fior d’ingegno per ritruovarle; tanto che Dedalo, che funne il ritruovatore, restò a significar esso ingegno, e da Lucrezio ne fu detta «daedala tellus» per «ingegnosa». I luoghi d’Omero sono nell’Odissea, ch’ovunque Ulisse o approda o è da tempesta portato, monta alcun poggio per veder entro terra fummo, che gli significhi ivi abitare degli uomini. Questi luoghi d’Omero sono avvalorati da quel luogo d’oro di Platone, ch’udimmo riferirsici da Strabone sopra nelle Degnitá, del lungo orrore ch’ebbero del mare le prime nazioni; e la ragione fu avvertita da Tucidide: che per lo timor de’ corseggi le nazioni greche tardi scesero ad abitare sulle marine. Perciò Nettunno ci si narra aver armato il tridente col quale faceva tremar la terra, che dovett’esser un grande uncino da afferrar navi, detto con bella metafora «dente», e col superlativo del «tre», com’abbiam sopra detto, col quale faceva tremare le terre degli uomini col terrore de’ suoi corseggi. Che poi, giá a’ tempi d’Omero, fu creduto far tremare le terre della natura, nella qual oppenione Omero fu seguíto poi da Platone col suo abisso dell’acque, che pose nelle viscere della terra, ma con quanto accorgimento, appresso sará dimostro.

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[635] Questi deon essere stati il toro con cui Giove rapisce Europa, il minotauro o toro di Minosse, con cui rapisce garzoni e fanciulle dalle marine dell’Attica (come restarono le vele dette «corna delle navi», ch’usò poi Virgilio); e i terrazzani spiegavano con tutta veritá divorarglisi il minotauro, ché vedevano con ispavento e dolore la nave ingoiarglisi. Cosí l’orca vuol divorare Andromeda incatenata alla rupe, per lo spavento divenuta di sasso (come restò a’ latini «terrore defixus», «divenuto immobile per lo spavento»); e ’l cavallo alato, con cui Perseo la libera, dev’essere stata altra nave da corso, siccome le vele restaron dette «ali delle navi». E Virgilio, con iscienza di quest’eroiche antichitá, parlando di Dedalo, che fu il ritruovator della nave, dice che vola con la macchina che chiama «alarum remigium»; e Dedalo pur ci fu narrato esser fratello di Teseo. Talché Teseo dee esser carattere di garzoni ateniesi, che, per la legge della forza fatta lor da Minosse, sono divorati dal di lui toro o nave da corso; al qual Arianna (l’arte marinaresca) insegna col filo (della navigazione) uscire dal labirinto di Dedalo (che, prima di questi, che sono ricercate delizie delle ville reali, dovett’esser il mar Egeo, per lo gran numero dell’isole che bagna e circonda), e, appresa l’arte da’ cretesi, abbandona Arianna e si torna con Fedra, di lei sorella (cioè con un’arte somigliante), e sí uccide il minotauro e libera Atene della taglia crudele che l’aveva imposto Minosse (col darsi a far essi ateniesi i corsali). E cosí, qual Fedra sorella fu d’Arianna, tale Teseo fu fratello di Dedalo.

[636] Con l’occasione di queste cose, Plutarco nel Teseo dice che gli eroi si recavano a grande onore e si riputavano in pregio d’armi con l’esser chiamati «ladroni», siccome, a’ tempi barbari ritornati, quello di «corsale» era titolo riputato di signoria. D’intorno a’ quali tempi, venuto Solone, si dice aver permesso nelle sue leggi le societá per cagion di prede: tanto Solone ben intese questa nostra compiuta umanitá, nella quale costoro non godono del diritto natural delle genti! Ma quel che fa piú maraviglia è che Platone ed Aristotile posero il ladroneccio fralle spezie della caccia; e con tali e tanti filosofi d’una gente

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umanissima convengono, con la loro barbarie, i Germani antichi, appo i quali, al riferire di Cesare, i ladronecci non solo non eran infami, ma si tenevano tra gli esercizi della virtú, siccome tra quelli che, per costume non applicando ad arte alcuna, cosí fuggivano l’ozio. Cotal barbaro costume durò tant’oltre appo luminosissime nazioni, ch’al narrar di Polibio si diede la pace da’ romani a’ cartaginesi, tra l’altre leggi con questa: che non potessero passare il capo di Peloro in Sicilia per cagion di prede o di traffichi. Ma egli è meno de’ cartaginesi e romani, i quali essi medesimi si professavano d’esser barbari in tali tempi, come si può osservare appresso Plauto, in piú luoghi, ove dice aver esso vòlte le greche commedie in «lingua barbara», per dir «latina». Quello è piú che dagli umanissimi greci, ne’ tempi della loro piú colta umanitá, si celebrava cotal costume barbaro, onde sono tratti quasi tutti gli argomenti delle loro commedie; dal qual costume questa costa d’Affrica a noi opposta, perché tuttavia l’esercita contro de’ cristiani, forse dicesi Barbaria.

[637] Principio di cotal antichissimo diritto di guerra fu l’inospitalitá de’ popoli eroici che sopra abbiam ragionato, i quali guardarono gli stranieri con l’aspetto di perpetui nimici e riponevano la riputazione de’ lor imperi in tenergli quanto si potesse lontani da’ lor confini (come il narra Tacito degli svevi, la nazione piú riputata dell’antica Germania); e sí guardavano gli stranieri come ladroni, quali abbiamo ragionato poc’anzi. Di che vi ha un luogo d’oro appresso Tucidide: che, fin al suo tempo, ove s’incontrassero viandanti per terra o passaggieri per mare, si domandava scambievolmente tra loro se fusser essi ladroni, in significazion di «stranieri». Ma, troppo avacciandosi la Grecia all’umanitá, prestamente si spogliò di tal costume barbaro, e chiamarono «barbare» tutte l’altre nazioni che ’l conservavano; nel qual significato restò ad essi detta Βαρβαρία la Troglodizia, che doveva uccidere tal sorta d’ospiti ch’entravano ne’ suoi confini, siccome ancor oggi vi sono nazioni barbare che ’l costumano. Certamente le nazioni umane non ammettono stranieri senza che n’abbiano da esse riportato licenza.

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[638] Tra queste per tal costume da’ greci dette «barbare nazioni», una fu la romana per due luoghi d’oro della legge delle XII Tavole. Uno: «Adversus hostem aeterna auctoritas esto». L’altro è rapportato da Cicerone: «Si status dies sit, cum hoste venito». E qui prendono la voce «hostis», indovinando con termini generali, come per metafora cosí detto l’«avversario che litiga»; ma sullo stesso luogo Cicerone riflette, troppo al nostro proposito, che «hostis», appresso gli antichi si disse quello che fu detto poi «peregrinus». I quali due luoghi, composti insieme, dánno ad intendere ch’i romani da principio tennero gli stranieri per eterni nimici di guerra. Ma i detti due luoghi si deon intendere di quelli che furono i primi «hostes» del mondo, che, come sopra si è detto, furono gli stranieri ricevuti agli asili, i quali poi vennero in qualitá di plebei nel formarsi dell’eroiche cittá, come si sono dimostrati piú sopra. Talché il luogo appresso Cicerone significa che, nel giorno stabilito, «venga il nobile col plebeo a vendicargli il podere», come anco si è sopra detto. Perciò l’«eterna autoritá», che si dice dalla medesima legge, dev’essere stata contro i plebei, contro i quali ci disse Aristotile nelle Degnitá che gli eroi giuravano esser eterni nimici. Per lo quale diritto eroico i plebei, con quantunque corso di tempo, non potevan usucapere niuno fondo romano, perché tai fondi erano nel commerzio de’ soli nobili; ch’è buona parte della ragione perché la legge delle XII Tavole non riconobbe nude possessioni. Onde poi, incominciando a disusarsi il diritto eroico e invigorendo l’umano, i pretori assistevan essi alle nude possessioni fuori d’ordine, perché né apertamente né per alcuna interpetrazione aveano da essa legge alcun motivo di costituirne giudizi ordinari né diretti né utili; e tutto ciò, perché la medesima legge teneva le nude possessioni de’ plebei esser tutte precarie de’ nobili. Altronde non s’impacciava delle furtive o violente de’ nobili medesimi, per quell’altra propietá delle prime repubbliche (che lo stesso Aristotile nelle Degnitá pur ci disse), che non avevano leggi d’intorno a’ privati torti ed offese, delle quali essi privati la si dovevano vedere con la forza

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dell’armi, com’appieno dimostreremo nel libro quarto; dalla qual vera forza restò poi per solennitá nelle revindicazioni quella forza finta ch’Aulo Gellio dice «di paglia». Si conferma tutto ciò con l’interdetto «Unde vi», che si dava dal pretore, e fuori d’ordine, perché la legge delle XII Tavole non aveva inteso nulla, nonché parlato, delle violenze private; e con l’azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», le quali vennero tardi e furon anco pretorie.

[639] Ora cotal costume eroico d’avere gli stranieri per eterni nimici, osservato privatamente da ciascun popolo in pace, portatosi fuori, si riconobbe comune a tutte le genti eroiche di esercitare tra loro le guerre eterne con continove rube e corseggi. Cosí, dalle cittá, che Platon dice nate sulla pianta dell’armi, come sopra abbiam veduto, e incominciate a governarsi a modo di guerra innanzi di venir esse guerre, le quali si fanno delle cittá, provenne che da πόλις, «cittá», fusse πόλεμος/ essa guerra appellata.

[640] Ove, in pruova del detto, è da farsi questa importante osservazione: che i romani stesero le conquiste e spiegarono le vittorie, che riportaron del mondo, sopra quattro leggi, ch’avevano co’ plebei praticate dentro di Roma. Perché con le provincie feroci praticarono le clientele di Romolo, con mandarvi le colonie romane, ch’i padroni de’ campi cangiavano in giornalieri; con le provincie mansuete praticarono la legge agraria di Servio Tullio, col permetter loro il dominio bonitario de’ campi; con l’Italia praticarono l’agraria della legge delle XII Tavole, col permetterle il dominio quiritario, che godevano i fondi detti «soli italici»; co’ municípi o cittá benemerite praticarono le leggi del connubio e del consolato comunicato alla plebe.

[641] Tal nimicizia eterna tralle prime cittá non richiedeva che fussero le guerre intimate, e sí tali ladronecci si riputarono giusti; come, per lo contrario, disavvezzate poi di barbaro costume sí fatto le nazioni, avvenne che le guerre non intimate son ladronecci, non conosciuti ora dal diritto natural delle genti che da Ulpiano son dette «umane». Questa stessa eterna inimicizia de’ primi popoli dee spiegarci che ’l lungo tempo ch’i romani

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avevano guerreggiato con gli albani fu egli tutto il tempo innanzi, ch’entrambi avevano esercitato gli uni contro degli altri a vicenda i ladronecci che qui diciamo. Ond’è piú ragionevole che Orazio uccida la sorella perché piagne il suo Curiazio che l’aveva rapita, che essergli stata sposata; quando esso Romolo non poté aver moglie da essi albani, nulla giovandogli l’essere uno de’ reali di Alba, né ’l gran beneficio che, discacciatone il tiranno Amulio, aveva loro renduto il legittimo re Numitore. È molto da avvertirsi che si patteggia la legge della vittoria sulla fortuna dell’abbattimento di essi, che principalmente erano interessati; qual, dell’albana, fu quello degli tre Orazi e degli tre Curiazi, e, della troiana, quello di Paride e Menelao, ch’essendo rimasto indiciso, i greci e troiani poi seguitarono a terminarla: siccome, a’ tempi barbari ultimi, similmente essi principi con gli abbattimenti delle loro persone terminavano le loro controversie de’ regni, alla fortuna de’ quali si assoggettivano i popoli. Ed ecco che Alba fu la Troia latina, e l’Elena romana fu Orazia (di che vi ha un’istoria affatto la stessa tra’ greci, ch’è rapportata da Gerardo Giovanni Vossio nella Rettorica), e i diece anni dell’assedio di Troia a’ Greci devon essere i diece anni dell’assedio di Vei a’ latini, cioè un numero finito per un infinito di tutto il tempo innanzi, che le cittá avevano esercitato l’ostilitá eterne tra loro.

[642] Perché la ragione de’ numeri, perciocch’è astrattissima, fu l’ultima ad intendersi dalle nazioni (come in questi libri se ne ragiona ad altro proposito): di che, spiegandosi piú la ragione, restò a’ latini «sexcenta» (e cosí appresso gl’italiani prima si disse «cento» e poi «cento e mille») per dir un numero innumerabile, perché l’idea d’infinito può cader in mente sol de’ filosofi. Quindi è forse che, per dire un gran numero, le prime genti dissero «dodeci»: come dodeci gli dèi delle genti maggiori, che Varrone e i greci numerarono trentamila; anco dodeci le fatighe d’Ercole, che dovetter essere innumerabili; e i latini dissero dodeci le parti dell’asse, che si può in infinite parti dividere; della qual sorta dovetter essere state dette le XII Tavole, per l’infinito numero delle leggi che furono in tavole, di tempo in tempo, appresso intagliate.

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[643] Però ne’ tempi della guerra troiana bisogna che, in quella parte di Grecia dove fu fatta, i greci si dicessero «achivi» (ch’innanzi si erano detti «pelasgi», da Pelasgo, uno degli piú antichi eroi della Grecia, del quale sopra si è ragionato), e che poi tal nome d’«achivi» si fusse andato per tutta Grecia spandendo (che durò fin a’ tempi di Lucio Mummio, all’osservare di Plinio), come indi per tutto il tempo appresso restarono detti «elleni». E sí la propagazione del nome «achivi» vi fece truovare a’ tempi di Omero in quella guerra essersi alleata tutta la Grecia, appunto come il nome di «Germania», al riferire di Tacito, egli ultimamente si sparse per tutta quella gran parte di Europa, la quale cosí rimase appellata dal nome di coloro che, passato il Reno, indi cacciarono i Galli e s’incominciarono a dir «Germani»; e cosí la gloria di tai popoli diffuse tal nome per la Germania, come il romore della guerra troiana sparse il nome d’«achivi» per tutta Grecia. Perché tanto i popoli nella loro prima barbarie intesero leghe, che nemmeno i popoli d’essi re offesi si curavano prender l’armi per vendicargli, come si è osservato del principio della guerra troiana.

[644] Dalla qual natura di cose umane civili, e non altronde, si può solvere questo maraviglioso problema: come la Spagna, che fu madre di tante che Cicerone acclama fortissime e bellicosissime nazioni (e Cesare le sperimentò, che ’n tutte l’altre parti del mondo, che tutte vinse, esso combatté per l’imperio: solamente in Ispagna combatté per la sua salvezza); come, diciamo, al fragor di Sagunto (il quale per otto mesi continui fece sudar Annibale, con tutte le fresche intiere forze dell’Affrica, con le quali poi — di quanto scemate e stanche! — poco mancò che, dopo la rotta di Canne, non trionfasse di Roma sopra il di lei medesimo Campidoglio) ed allo strepito di Numanzia (la qual fece tremare la romana gloria, ch’aveva giá di Cartagine trionfato, e pose la mente a partito alla stessa virtú e sapienza di Scipione, trionfatore dell’Affrica), come non uní tutti i suoi popoli in lega per istabilire sulle rive del Tago l’imperio dell’universo, e diede luogo all’infelice elogio che le fa Lucio Floro: che s’accorse delle sue forze dopo esser

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stata tutta per parti vinta? (E Tacito nella Vita d’Agricola, avvertendo lo stesso costume negl’inghilesi, a’ tempi di quello ferocissimi ritruovati, riflette con quest’altra ben intesa espressione: «dum singuli pugnant, universi vincuntur»). Perché, non tócchi, se ne stavano come fiere dentro le tane de’ lor confini, seguitando a celebrare la vita selvaggia e solitaria de’ polifemi, la qual sopra si è dimostrata.

[645] Però gli storici, tutti desti dal rumore della bellica eroica navale e da quello tutti storditi, non avvertirono alla bellica eroica terrestre, molto meno alla politica eroica, con la qual i greci in tali tempi si dovevano governare. Ma Tucidide, acutissimo e sappientissimo scrittore, ce ne lasciò un grande avviso ove narra che le cittá eroiche furono tutte smurate, come restò Sparta in Grecia e Numanzia, che fu la Sparta di Spagna; e, posta la lor orgogliosa e violenta natura, gli eroi tuttodí si cacciavano di sedia l’un l’altro, come Amulio cacciò Numitore, e Romolo cacciò Amulio e rimise Numitore nel regno d’Alba. Tanto le discendenze delle case reali eroiche di Grecia ed una continuata di quattordici re latini assicurano a’ cronologi la lor ragione de’ tempi! Perché nella barbarie ricorsa, quando ella fu piú cruda in Europa, non si legge cosa piú incostante e piú varia che la fortuna de’ regni, come si avvertí sopra nelle Annotazioni alla Tavola cronologica. E invero Tacito, avvedutissimo, lo ci avvisò in quel primo motto degli Annali: «Urbem Romam principio reges habuere»>, usando il verbo che significa la piú debole spezie delle tre che della possessione fanno i giureconsulti, che sono «habere», «tenere», «possidere».

[646] Le cose civili celebrate sotto sí fatti regni ci sono narrate dalla storia poetica con le tante favole le quali contengono contesa di canto (presa la voce «canto» di quel «canere» o «cantare» che significa «predire»), e ’n conseguenza contese eroiche d’intorno agli auspíci.

[647] Cosí Marsia satiro (il quale, «secum ipse discors», è ’l mostro che dice Livio), vinto da Apollo in una contesa di canto, egli vivo è dallo dio scorticato (si veda fierezza di pene eroiche!); Lino, che dee essere carattere de’ plebei (perché certamente

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l’altro Lino fu egli poeta eroe, ch’è noverato con Anfione, Orfeo, Museo ed altri), in una simil contesa di canto, è da Apollo ucciso. Ed in entrambe tali favole le contese sono con Apollo, dio della divinitá o sia della scienza della divinazione, ovvero scienza d’auspíci; e noi il truovammo sopra esser anco dio della nobiltá, perché la scienza degli auspíci, come a tante pruove si è dimostrato, era de’ soli nobili.

[648] Le sirene, ch’addormentano i passeggieri col canto e dipoi gli scannano; la Sfinge, che propone a’ viandanti gli enimmi, che non sappiendo quelli sciogliere, uccide; Circe, che con gl’incantesimi cangia in porci i compagni d’Ulisse (talché «cantare» fu poi preso per «fare delle stregonerie», com’è quello:

... cantando rumpitur anguis:

onde la magia, che ’n Persia dovett’essere dapprima sapienza in divinitá d’auspíci, restò a significare l’arte degli stregoni, ed esse stregonerie restaron dette «incantesimi»): sí fatti passeggieri, viandanti, vagabondi sono gli stranieri delle cittá eroiche ch’abbiam sopra detto, i plebei che contendono con gli eroi per riportarne comunicati gli auspíci, e sono in tali mosse vinti e ne sono crudelmente puniti.

[649] Della stessa fatta, Pane satiro vuol afferrare Siringa, ninfa, com’abbiam sopra detto, valorosa nel canto, e si truova aver abbracciato le canne; e, come Pane di Siringa, cosí Issione, innamorato di Giunone, dea delle nozze solenni, invece di lei abbraccia una nube. Talché significano le canne la leggerezza, la nube la vanitá de’ matrimoni naturali; onde da tal nube si dissero nati i centauri, cioè a dire i plebei, i quali sono i mostri di discordanti nature che dice Livio, i quali a’ lafiti, mentre celebrano tra loro le nozze, rapiscono loro le spose. Cosí Mida (il quale qui sopra abbiam truovato plebeo) porta nascoste l’orecchie d’asino, e le canne ch’afferra Pane (cioè i matrimoni naturali) le scuoprono; appunto come i patrizi romani appruovano a’ lor plebei ciascun di loro esser mostro, perché essi «agitabant connubia more ferarum».

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[650] Vulcano (che pur dee essere qui plebeo) si vuol frapporre in una contesa tra Giove e Giunone, e con un calcio da Giove è precipitato dal cielo e restonne zoppo. Questa dev’esser una contesa ch’avesser fatto i plebei per riportarne dagli eroi comunicati gli auspíci di Giove e i connubi di Giunone, nella qual vinti, ne restarono zoppi, in senso d’«umiliati».

[651] Cosí Fetonte, della famiglia d’Apollo, e quindi creduto figliuol del Sole, vuol reggere il carro d’oro del padre (il carro dell’oro poetico, del frumento), e divertisce oltre le solite vie (che menavano al granaio del padre di sua famiglia (fa la pretensione del dominio de’ campi), ed è precipitato dal cielo.

[652] Ma sopra tutto cade dal cielo il pomo della Discordia (cioè il pomo ch’abbiamo sopra dimostro significare il dominio de’ terreni, perché la prima discordia nacque per la cagione de’ campi che volevano per sé coltivar i plebei), e Venere (che dev’essere qui plebea) contende con Giunone (de’ connubi) e con Minerva (degl’imperi). Perché, d’intorno al giudizio di Paride, per buona fortuna, Plutarco nel suo Omero avvertisce che que’ due versi verso il fin dell’Iliade, che ne fan motto, non son d’Omero, ma di mano che venne appresso.

[653] Atalanta, col gittare le poma d’oro, vince i proci nel corso, appunto com’Ercole lutta con Anteo e, innalzandolo in cielo, il vince, come si è sopra spiegato. Atalanta rillascia a’ plebei prima il dominio bonitario, dappoi il quiritario de’ campi, e si riserba i connubi; appunto come i patrizi romani, con la prima agraria di Servio Tullio e con la seconda della legge delle XII Tavole, serbaron ancor i connubi dentro il lor ordine, in quel capo: «Connubia incommunicata plebi sunto», ch’era primaria conseguenza di quell’altro: «Auspicia incommunicata plebi sunto»; onde, di lá a tre anni, la plebe ne incominciò a far la pretensione e, dopo tre anni di contesa eroica, gli riportò.

[654] I proci di Penelope invadono la reggia d’Ulisse (per dire il regno degli eroi) e se n’appellano re, se ne divorano le regie sostanze (s’hanno appropiato il dominio de’ campi), pretendono Penelope in moglie (fanno la pretension de’ connubi). In altre

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parti Penelope si mantien casta e Ulisse appicca i proci, come tordi, alla rete, di quella spezie con la quale Vulcano eroico trasse Vener e Marte plebei (gli annoda a coltivar i campi da giornalieri d’Achille, come Coriolano i plebei romani, non contenti dell’agraria di Servio Tullio, voleva ridurre a’ giornalieri di Romolo, come sopra si è detto). Quivi ancor Ulisse combatté con Iro, povero, e l’ammazzò (che dev’essere stata contesa agraria, nella qual i plebei si divoravano le sostanze d’Ulisse). In altre parti Penelope si prostituisce a’ proci (communica i connubi alla plebe), e ne nasce Pane, mostro di due discordanti nature, umana e bestiale: ch’è appunto il «secum ipse discors» appresso Livio, qual dicevano i patrizi romani a’ plebei che nascerebbe chiunque fusse provenuto da essi plebei, comunicati lor i connubi de’ nobili, simigliante a Pane, mostro di due discordanti nature, che partorí Penelope prostituita a’ plebei.

[655] Da Pasife, la qual si giace col toro, nasce il minotauro, mostro di due nature diverse. Che dev’esser un’istoria che dagli eroi cretesi si communicarono i connubi a stranieri che dovettero venir in Creta con la nave la quale fu detta «toro», con cui noi sopra spiegammo che Minosse rapiva garzoni e donzelle dall’Attica, e Giove innanzi aveva rapito Europa.

[656] A questo genere d’istorie civili è da richiamarsi la favola d’Io. Giove se n’innamora (l’è favorevole con gli auspíci); Giunone n’è gelosa (con la gelosia civile, che noi sopra spiegammo, di serbare tra gli eroi le nozze solenni) e la dá a guardare ad Argo con cento occhi (a’ padri argivi, ognuno col suo occhio, col suo luco, con la sua terra colta, come sopra l’interpetrammo); Mercurio (che qui dev’essere carattere de’ plebei mercenari), col suono del piffero, o piuttosto col canto, addormenta Argo (vince i padri argivi in contesa d’auspíci, da’ quali si cantavan le sorti nelle nozze solenni), ed Io quivi si cangia in vacca, che si giace col toro col quale s’era giaciuta Pasife, e va errando in Egitto (cioè tra quelli egizi stranieri, co’ quali Danao aveva cacciato gl’Inachidi dal regno d’Argo).

[657] Ma Ercole, a capo di etá, si effemmina e fila sotto i comandi

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di Iole ed Onfale: va ad assoggettire il diritto eroico de’ campi a’ plebei, a petto de’ quali gli eroi si dicevano «viri». Ché tanto a’ latini suona «viri» quanto a’ greci significa «eroi», come Virgilio incomincia l’Eneide, con peso usando tal voce:

Arma virumque cano,>

ed Orazio trasporta il primo verso dell’Odissea:
Dic mihi, Musa, virum>;

e «viri» restaron a’ romani per significare mariti solenni, maestrati, sacerdoti e giudici, perché nelle aristocrazie poetiche e nozze ed imperi e sacerdozi e giudizi erano tutti chiusi dentro gli ordini eroici. E cosí fu accomunato il diritto de’ campi eroico a’ plebei della Grecia, come fu da’ patrizi romani a’ plebei comunicato il diritto quiritario per la seconda agraria, combattuta e riportata con la legge delle XII Tavole, qual si è sopra dimostro. Appunto come, ne’ tempi barbari ritornati, i beni feudali si dicevano «beni della lancia» e i burgensatici si chiamavano «beni del fuso», come si ha nelle leggi inghilesi; onde l’arme reale di Francia (per significare la legge salica, ch’esclude dalla successione di quel regno le donne) è sostenuta da due angioli vestiti di dalmatiche e armati d’aste, e si adorna di questo motto eroico: «Lilia non nent». Talché, come Baldo, per nostra bella ventura, la legge salica chiamò «ius gentium Gallorum», cosí noi la legge delle XII Tavole (per quanto serbava, nel suo rigore, le successioni ab intestato dentro i suoi, gli agnati e finalmente i gentili) possiam chiamare «ius gentium romanorum»; perché appresso si mostrerá quanto sia vero che ne’ primi tempi di Roma vi fusse stata costumanza onde le figliuole venissero ab intestato alla successione de’ loro padri, e che poi fusse passata in legge nelle XII Tavole.

[658] Finalmente Ercole esce in furore col tingersi del sangue di Nesso centauro — appunto il mostro delle plebi di due discordi nature che dice Livio, — cioè tra’ furori civili communica i

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connubi alla plebe e si contamina del sangue plebeo, e ’n tal guisa si muore: qual muore per la legge petelia, detta De nexu, l’Ercole romano, il dio Fidio. Con la qual legge «vinculum fidei victum est», quantunque Livio il rapporti con l’occasione d’un fatto da un diece anni avvenuto dopo, il qual in sostanza è lo stesso che quello il quale aveva dato la cagione alla legge petelia, nel quale si dovette eseguire, non ordinare, ciò ch’è contenuto in tal motto, che dee essere stato di alcuno antico scrittor d’annali, che Livio, con quanta fede con altrettanta ignorazione, rapporta. Perché, col liberarsi i plebei del carcere privato de’ nobili creditori, si costrinsero pur i debitori con le leggi giudiziarie a pagar i debiti; ma fu sciolto il diritto feudale, il diritto del nodo erculeo, nato dentro i primi asili del mondo, col quale Romolo dentro il suo aveva Roma fondato. Perciò è forte congettura che dall’autor degli annali fusse stato scritto «vinculum Fidii», «del dio Fidio», che Varrone dice essere stato l’Ercole de’ romani; il qual motto gli altri, che vennero appresso, non intendendo, per errore credettero scritto «fidei». Il qual diritto natural eroico si è truovato lo stesso tra gli americani, e tuttavia dura nel mondo nostro tra gli abissini nell’Affrica e tra’ moscoviti e tartari nell’Europa e nell’Asia; ma fu praticato con piú mansuetudine tra gli ebrei, appo i quali i debitori non servivano piú che sette anni.

[659] E, per finirla, cosí Orfeo, finalmente, il fondatore della Grecia, con la sua lira o corda o forza, che significano la stessa cosa che ’l nodo d’Ercole (il nodo della legge petelia), egli è morto ucciso dalle baccanti (dalle plebi infuriate), le quali gliene fecero andar in pezzi la lira (che, a tante pruove fatte sopra, significava la legge): ond’a’ tempi d’Omero giá gli eroi menavano in mogli donne straniere e i bastardi venivano alle successioni reali; lo che dimostra che giá la Grecia aveva incominciato a celebrare la libertá popolare.

[660] Per tutto ciò hassi a conchiudere che queste contese eroiche fecero il nome all’etá degli eroi; e che in esse molti capi, vinti e premuti, con quelli delle lor fazioni si fussero dati ad andar errando in mare per ritruovar altre terre; e che altri

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fussero finalmente ritornati alle loro patrie, come Menelao ed Ulisse; altri si fussero fermati in terre straniere, come Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope (perocché tali contese eroiche eran avvenute da molti secoli innanzi nella Fenicia, nell’Egitto, nella Frigia, siccome in tali luoghi aveva prima incominciato l’umanitá), i quali si fermarono nella Grecia. Come una d’essi dev’essere stata Didone, che, da Fenicia fuggendo la fazione del cognato, dal qual era perseguitata, si fermò in Cartagine, che fu detta «Punica», quasi «Phoenica»; e, di tutt’i troiani, distrutta Troia, Capi si fermò in Capova, Enea approdò nel Lazio, Antenore penetrò in Padova.

[661] In cotal guisa finí la sapienza de’ poeti teologi, o sia de’ sappienti o politici dell’etá poetica de’ greci, quali furono Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri; i quali, col cantare alle plebi greche la forza degli dèi negli auspíci (ch’erano le lodi che tali poeti dovettero cantar degli dèi, cioè quelle della provvedenza divina, ch’apparteneva lor di cantare), tennero esse plebi in ossequio de’ lor ordini eroici. Appunto come Appio, nipote del decemviro, circa il trecento di Roma, com’altra volta si è detto, cantando a’ plebei romani la forza degli dèi negli auspíci, de’ quali i nobili dicevano aver la scienza, gli mantiene nell’ubbidienza de’ nobili. Appunto come Anfione, cantando sulla lira, de’ sassi semoventi innalza le mura di Tebe, che trecento anni innanzi aveva Cadmo fondato, cioè vi conferma lo stato eroico.

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[Capitolo Settimo]
Corollari d’intorno alle cose romane antiche, e particolarmente del sognato regno romano monarchico e della sognata libertá popolare ordinata da Giunio Bruto.

[662] Queste tante convenienze di cose umane civili tra romani e greci, onde la storia romana antica a tante pruove si è qui truovata esser una perpetua mitologia istorica di tante, sí varie e diverse favole greche, chiunque ha intendimento (che non è né memoria né fantasia) pongono in necessitá di risolutamente affermare che, da’ tempi degli re infino a’ connubi comunicati alla plebe, il popolo romano (il popolo di Marte) si compose di soli nobili; e ch’a tal popolo di nobili il re Tullo, incominciando dall’accusa d’Orazio, permise a’ rei condennati o da’ duumviri o da’ questori l’appellagione a tutto l’ordine, quando i soli ordini eran i popoli eroici, e le plebi erano accessioni di tali popoli (quali poi le provincie restarono accessioni delle nazioni conquistatrici, come l’avvertí ben il Grozio); ch’appunto è l’«altro popolo» che chiamava Telemaco i suoi plebei nell’adunanza che noi qui sopra notammo. Onde, con forza d’un’invitta critica metafisica sopra essi autori delle nazioni, si dee scuotere quell’errore: che tal caterva di vilissimi giornalieri, tenuti da schiavi, fin dalla morte di Romolo avessero l’elezione degli re, la qual poi fusse appruovata da’ padri. Il qual dee esser un anacronismo de’ tempi ne’ quali la plebe aveva giá parte nella cittá e concorreva a criare i consoli (lo che fu dopo comunicati ad essolei i connubi da’ padri), tirato da trecento anni indietro fin all’interregno di Romolo.

[663] Questa voce «popolo», presa de’ tempi primi del mondo delle cittá nella significazione de’ tempi ultimi (perché non poterono né filosofi né filologi immaginare tali spezie di severissime

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aristocrazie), portò di séguito due altri errori in queste due altre voci: «re» e «libertá»; onde tutti han creduto il regno romano essere stato monarchico e la ordinata da Giunio Bruto essere stata libertá popolare. Ma Gian Bodino, quantunque entrato nel volgare comun errore, nel qual eran entrati innanzi tutti gli altri politici, che prima furono le monarchie, appresso le tirannidi, quindi le repubbliche popolari e alfine l’aristocrazie (e qui vedasi, ove mancano i veri princípi, che contorcimenti si possono fare, e fansi di fatto, d’umane idee!), pure, osservando nella sognata libertá popolare romana antica che gli effetti erano di repubblica aristocratica, puntella il suo sistema con quella distinzione: che ne’ tempi antichi Roma era popolare di Stato, ma che aristocraticamente fussesi governata. Con tutto ciò, pur riuscendogli contrari gli effetti e che, anco con tal puntello, la sua macchina politica pur crollava, costretto finalmente dalla forza del vero, con brutta incostanza confessa ne’ tempi antichi la repubblica romana essere stata di Stato, nonché governo, aristocratica.

[664] Tutto ciò vien confermato da Tito Livio, il quale, in narrando l’ordinamento fatto da Giunio Bruto de’ due consoli annali, dice apertamente e professa non essersi di nulla affatto mutato lo Stato (come dovette da sappiente far Bruto, di richiamare da tal corrottella a’ suoi princípi lo Stato!), e coi due consoli annali «nihil quicquam de regia potestate deminutum»: tanto che vennero i consoli ad essere due re aristocratici annali, quali Cicerone nelle Leggi gli appella «reges annuos» (com’eran a vita quelli di Sparta, repubblica senza dubbio aristocratica); i quali consoli, com’ognun sa, erano soggetti all’appellagione durante esso loro regno (siccome gli re spartani erano soggetti all’emenda degli efori), e, finito il regno annale, erano soggetti all’accuse (conforme gli re spartani erano fatti morire dagli efori). Per lo qual luogo di Livio ad un colpo si dimostra e che ’l regno romano fu aristocratico e che la ordinata da Bruto ella fu libertá, non giá popolare, cioè del popolo da’ signori, ma signorile, cioè de’ signori da’ tiranni Tarquini. Lo che certamente Bruto non arebbe potuto fare, se non gli

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si offeriva il fatto di Lugrezia romana, ch’esso saggiamente afferrò; la qual occasione era vestita di tutte le circostanze sublimi per commuovere la plebe contro il tiranno Tarquinio, il qual aveva fatto tanto mal governo della nobiltá, ch’a Bruto fu d’uopo di riempir il senato, giá esausto per tanti senatori fatti morir dal Superbo. Nello che conseguí, con saggio consiglio, due pubbliche utilitá: e rinforzò l’ordine de’ nobili giá cadente, e si conservò il favor della plebe; perché del corpo di quella dovette scegliere moltissimi, e forse gli piú feroci, ch’arebbon ostato a riordinarsi la signoria, e gli fece entrare nell’ordine de’ nobili, e cosí compose la cittá, la qual era a que’ tempi tutta divisa «inter patres et plebem».

[665] Se ’l precorso di tante, sí varie e diverse cagioni, quante si sono qui meditate fin dall’etá di Saturno; se ’l séguito di tanti, sí vari e diversi effetti della repubblica romana antica, i quali osserva il Bodino; e se la perpetuitá o continuazione con cui quelle cagioni influiscono in questi effetti, la quale considera Livio, non sono valevoli a stabilire che ’l regno romano fu aristocratico e che la ordinata da Bruto fu la libertá de’ signori (e ciò per attenersi alla sola autoritá), bisogna dire ch’i romani, gente barbara e rozza, avesser avuto il privilegio da Dio, che non poteron aver essi greci, gente acuta, umanissima, i quali, al narrar di Tucidide, non seppero nulla dell’antichitá loro propie fin alla guerra peloponnesiaca, che fu il tempo piú luminoso di Grecia, come osservammo sopra nella Tavola cronologica: ove dimostrammo il medesimo de’ romani fin dentro alla seconda guerra cartaginese, dalla quale Livio professa scrivere la romana storia con piú certezza, e pur apertamente confessa di non saperne tre circostanze, che sono le piú considerabili nella storia, le qual’ivi si sono ancor osservate. Ma, con tutto che si conceda tal privilegio a’ romani, pure resterá di ciò un’oscura memoria, una confusa fantasia; e pertanto la mente non potrá rinniegare i raziocini che si son fatti sopra tai cose romane antiche.

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[Capitolo Ottavo]
Corollario
d’intorno all’eroismo de’ primi popoli

[666] Ma l’etá eroica del primo mondo di cui trattiamo ci tragge con dura necessitá a ragionare dell’eroismo de’ primi popoli. Il quale, per le degnitá che se ne sono sopra proposte e qui hanno il lor uso, e per gli princípi qui stabiliti della politica eroica, fu di gran lunga diverso da quello che, ’n conseguenza della sapienza innarrivabile degli antichi, è stato finor immaginato da’ filosofi, ingannati da’ filologi, in quelle tre voci non diffinite le quali sopra abbiam avvertito: «popolo», «re» e «libertá»; avendo preso i popoli eroici — ne’ quali fussero anco entrati i plebei, preso gli re — monarchi, e preso la libertá — popolare; ed al contrario, applicandovi tre lor idee di menti ingentilite ed addottrinate — una di giustizia ragionata con massime di morale socratica, l’altra di gloria (ch’è fama di benefizi fatti inverso il gener umano) e la terza di disiderio d’immortalitá: — laonde su questi tre errori e con queste tre idee han creduto che re o altri grandi personaggi de’ tempi antichi avessero consagrato e sé e le loro famiglie, nonché gl’intieri patrimoni e sostanze, per far felici i miseri, che sono sempre gli piú nelle cittá e nelle nazioni.

[667] Però di Achille, ch’è ’l massimo de’ greci eroi, Omero ci narra tre propietá dello ’n tutto contrarie a cotali tre idee de’ filosofi. E, d’intorno alla giustizia, egli ad Ettorre, che con esso vuol patteggiare la seppoltura se nell’abbattimento l’uccida, nulla riflettendo all’egualitá del grado, nulla alla sorte comune (le quali due considerazioni naturalmente inducono gli uomini a riconoscer giustizia), feroce risponde: — Quando mai gli uomini patteggiarono co’ lioni, o i lupi e l’agnelle ebbero uniformitá di voleri? — Anzi: — Se t’avrò ucciso, ti strascinerò

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nudo, legato al mio cocchio, per tre giorni d’intorno alle mura di Troia — siccome fece, — e finalmente ti darò a mangiare a’ miei cani da caccia; — lo che arebbe pur fatto, se l’infelice padre Priamo non fusse venuto da essolui a riscattarne il cadavero. D’intorno alla gloria, egli per un privato dolore (perocché Agamennone gli aveva tolto a torto la sua Briseide) se ne richiama offeso con gli uomini e con gli dèi; e fanne querela a Giove d’essere riposto in onore, ritira dall’esercito alleato le sue genti e dalla comune armata le propie navi, e soffre ch’Ettorre faccia scempio della Grecia, e, contro il dettame della pietá che si deve alla patria, si ostina di vendicare una privata sua offesa con la rovina di tutta la sua nazione; anzi non si vergogna di rallegrarsi con Patroclo delle straggi ch’Ettorre fa de’ suoi greci, e col medesimo (ch’è molto piú), colui che portava ne’ suoi talloni i fati di Troia, fa quello indegnissimo voto: che ’n quella guerra morissero tutti, e troiani e greci, ed essi due soli ne rimanessero vivi. D’intorno alla terza, egli nell’inferno, domandato da Ulisse come vi stava volentieri, risponde che vorrebbe piú tosto, vivo, essere un vilissimo schiavo. Ecco l’eroe che Omero con l’aggiunto perpetuo d’«irreprensibile» canta a’ greci popoli in esemplo dell’eroica virtú! Il qual aggiunto, acciocché Omero faccia profitto con l’insegnar dilettando (lo che debbon far i poeti), non si può altrimente intendere che per un uomo orgoglioso, il qual or direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e sí predica la virtú puntigliosa, nella quale a’ tempi barbari ritornati tutta la loro morale riponevano i duellisti, dalla quale uscirono le leggi superbe, gli ufizi altieri e le soddisfazioni vendicative de’ cavalieri erranti che cantano i romanzieri.

[668] Allo ’ncontro, si rifletta al giuramento, che dice Aristotile, che giuravano gli eroi d’esser eterni nimici alla plebe. Si rifletta quindi sulla storia romana nel tempo della romana virtú, che Livio determina ne’ tempi della guerra con Pirro, a cui acclama con quel motto: «nulla aetas virtutum feracior», e noi (con Sallustio, appo sant’Agostino, De civitate Dei)

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stendiamo dalla cacciata degli re fin alla seconda guerra cartaginese. Bruto che consagra con due suoi figliuoli la sua casa alla libertá; Scevola che, col punire del fuoco la sua destra, la quale non seppe ucciderlo, atterrisce e fuga Porsena, re de’ toscani; Manlio detto «l’imperioso» che, per un felice peccato di militar disciplina, istigatogli da stimoli di valor e di gloria, fa mozzare la testa al suo figliuolo vittorioso; i Curzi che si gittano armati a cavallo nella fossa fatale; i Deci, padre e figliuolo, che si consagrano per la salvezza de’ lor eserciti; i Fabrizi, i Curi, che rifiutano le some d’oro da’ sanniti, le parti offerte de’ regni da Pirro; gli Attili Regoli che vanno a certa crudelissima morte in Cartagine per serbare la santitá romana de’ giuramenti: che pro fecero alla misera ed infelice plebe romana? che per piú angariarla nelle guerre, per piú profondamente sommergerla in mar d’usure, per piú a fondo seppellirla nelle private prigioni de’ nobili, ove gli battevano con le bacchette a spalle nude a guisa di vilissimi schiavi? E chi voleva di un poco sollevarla con una qualche legge frumentaria o agraria, da quest’ordine di eroi, nel tempo di essa romana virtú, egli era accusato e morto come rubello: qual avvenne, per tacer d’altri, a Manlio Capitolino, che aveva serbato il Campidoglio dall’incendio degl’immanissimi Galli senoni; qual in Isparta (la cittá degli eroi di Grecia, come Roma lo fu degli eroi del mondo) il magnanimo re Agide, perché aveva attentato di sgravare la povera plebe di Lacedemone, oppressa dall’usure de’ nobili, con una legge di conto nuovo, e di sollevarla con un’altra testamentaria, come altra volta si è detto, funne fatto strozzare dagli efori: onde, come il valoroso Agide fu il Manlio Capitolino di Sparta, cosí Manlio Capitolino fu l’Agide di Roma, che, per lo solo sospetto di sovvenir alquanto alla povera oppressa plebe romana, fu fatto precipitare giú dal monte Tarpeo. Talché per quest’istesso ch’i nobili de’ primi popoli si tenevano per eroi, ovvero di superior natura a quella de’ lor plebei, come appieno sopra si è dimostrato, facevano tanto malgoverno della povera moltitudine delle nazioni. Perché certamente la storia romana sbalordisce
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qualunque scortissimo leggitore, che la combini sopra questi rapporti: che romana virtú dove fu tanta superbia? che moderazione dove tanta avarizia? che mansuetudine dove tanta fierezza? che giustizia dove tanta inegualitá?

[669] Laonde i princípi, i quali possono soddisfare una sí gran maraviglia, debbono necessariamente esser questi:

i

[670] Sia, in séguito di quella ferina che sopra si ragionò de’ giganti, l’educazion de’ fanciulli severa, aspra, crudele, quale fu quella degl’illiterati lacedemoni, che furono gli eroi della Grecia. I quali nel templo di Diana battevano i loro figliuoli fin all’anima, talché cadevano sovente morti, convulsi dal dolore, sotto le bacchette de’ padri, acciocché s’avvezzassero a non temere dolori e morte; e ne restarono tal’imperi paterni ciclopici cosí a’ greci come a’ romani, co’ quali permettevano uccidersi gl’innocenti bambini di fresco nati. Perché le delizie, ch’or facciamo de’ nostri figliuoli fanciulli, fanno oggi tutta la dilicatezza delle nostre nature.

ii

[671] Si comperino con le doti eroiche le mogli, le quali restarono poscia per solennitá a’ sacerdoti romani, i quali contraevano le nozze coëmptione et farre (che fu anche, al narrar di Tacito, costume degli antichi Germani, i quali ci dánno luogo di stimare lo stesso di tutti i primi popoli barbari); e le mogli si tengano, come per una necessitá di natura, in uso di far figliuoli: del rimanente, si trattino come schiave, conforme in molte parti del nostro e quasi universalmente nel mondo nuovo è costume di nazioni. Quando le doti sono compere che fan le donne della libertá da’ mariti e pubbliche confessioni ch’i mariti non bastano a sostenere i pesi del matrimonio, onde son forse i tanti privilegi co’ quali gl’imperadori han favorito le doti.

325 ―

iii

[672] I figliuoli acquistino, le mogli risparmino per gli loro mariti e padri. Non, come si fa oggi, tutto a rovescio.

iv

[673] I giuochi e i piaceri sien faticosi, come lutta, corso (onde Omero dá ad Achille l’aggiunto perpetuo di «piè veloce»); sieno ancor con pericolo, come giostre, cacce di fiere, onde s’avvezzino a fermare le forze e l’animo e a strappazzare e disprezzare la vita.

v

[674] Non s’intendano affatto lussi, lautezze ed agi.

vi

[675] Le guerre, come l’eroiche antiche, sieno tutte di religione, la quale, per la ragione ch’abbiamo preso per primo principio di questa Scienza, le rende tutte atrocissime.

vii

[676] Si celebrino le schiavitú pur eroiche, che van di séguito a tali guerre, nelle quali i vinti si tengano per uomini senza Dio, onde con la civile si perda ancora la natural libertá. E qui abbia uso quella degnitá sopra posta: che «la libertá naturale ella è piú feroce ov’i beni sono piú a’ nostri corpi attaccati, e la civil servitú s’inceppa co’ beni di fortuna non necessari alla vita».

326 ―

[viii]

[677] Per tutto ciò sieno, le repubbliche, aristocratiche per natura o sia di naturalmente fortissimi, che schiudano a’ pochi padri nobili tutti gli onori civili; e ’l ben pubblico sieno monarchie famigliari conservate lor dalla patria; che sarebbe la vera patria, com’abbiamo piú volte detto, interesse di pochi padri, per lo quale sieno i cittadini naturalmente patrizi. E con tali nature, tali costumi, tali repubbliche, tali ordini e tali leggi si celebrerá l’eroismo de’ primi popoli. Il quale, per le cagioni a queste che si sono noverate tutte contrarie (che dappoi produssero l’altre due spezie degli Stati civili, che sopra pruovammo esser entrambi umani, cioè le repubbliche libere popolari e, piú che queste, le monarchie), egli è ora per civil natura impossibile. Perché per tutto il tempo della romana libertá popolare fa romor d’eroe il solo Catone uticese, e lasciò tal romore per uno spirito di repubblica aristocratica: che, caduto Pompeo e rimasto esso capoparte della nobiltá, per non poter sofferire di vederla umiliata a Cesare, si ammazzò. Nelle monarchie gli eroi son coloro che si consagrano per la gloria e grandezza de’ lor sovrani. Ond’ha a conchiudersi ch’un tal eroe i popoli afflitti il disiderano, i filosofi il ragionano, i poeti l’immaginano; ma la natura civile, come n’abbiamo una degnitá, non porta tal sorta di benefizi.

[678] Tutte le quali cose qui ragionate dell’eroismo de’ primi popoli ricevono lustro e splendore dalle degnitá sopra poste d’intorno all’eroismo romano, le quali si truoveranno comuni all’eroismo degli antichi ateniesi nel tempo che, come narra Tucidide, furono governati da’ severissimi areopagiti (che, come abbiam veduto, fu un senato aristocratico), ed all’eroismo degli spartani, che furono repubblica di Eraclidi o di signori, come a mille pruove sopra si è dimostrato.

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[SEZIONE SESTA]


[Capitolo Unico]
Repilogamenti della storia poetica
i

[679] Tutta quest’istoria divina ed eroica de’ poeti teologi con troppo d’infelicitá ci fu nella favola di Cadmo descritta. Egli uccide la gran serpe (sbosca la gran selva antica della terra). Ne semina i denti (con bella metafora, come sopra si è detto, con curvi legni duri — ch’innanzi di ritruovarsi l’uso del ferro dovettero servire per denti de’ primi aratri, che «denti» ne restarono detti — egli ara i primi campi del mondo). Gitta una gran pietra (ch’è la terra dura, che volevano per sé arare i clienti ovvero famoli, come si è sopra spiegato). Nascono da’ solchi uomini armati (per la contesa eroica della prima agraria ch’abbiamo detto, gli eroi escono da’ loro fondi, per dire ch’essi sono signori de’ fondi, e si uniscono armati contro le plebi, e combattono, non giá tra di loro, ma co’ clienti ammutinati contro essoloro; e coi solchi sono significati essi ordini, ne’ quali s’uniscono e co’ quali formano e fermano le prime cittá sulla pianta dell’armi, come tutto si è detto sopra). E Cadmo si cangia in serpe (e ne nasce l’autoritá de’ senati aristocratici, che gli antichissimi latini arebbono detto: «Cadmus fundus factus est», e i greci dissero Cadmo cangiato in Dragone, che scrive le leggi col sangue). Lo che tutto è quello che noi sopra promettemmo di far vedere: — che la favola di Cadmo conteneva piú secoli di storia poetica, — ed è un

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grand’esemplo dell’infanzia, onde la fanciullezza del mondo travagliava a spiegarsi; che, degli sette ch’appresso novereremo, è un gran fonte della difficultá delle favole. Tanto felicemente seppe Cadmo lasciare scritta cotal istoria con le sue lettere volgari, ch’esso aveva a’ greci dalla Fenicia portato! E Desiderio Erasmo, con mille inezie, indegne dell’uomo eruditissimo che fu detto il «Varron cristiano», vuol che contenga la storia delle lettere ritruovate da Cadmo. Cosí la chiarissima istoria d’un tanto benefizio d’aver ritruovato le lettere alle nazioni, che per se stessa doveva esser romorosissima, Cadmo nasconde al gener umano di Grecia dentro l’inviluppo di cotal favola, ch’è stata oscura fin a’ tempi di Erasmo, per tener arcano al volgo uno sí grande ritruovato di volgare sapienza, ché da esso «volgo» tali lettere furon dette «volgari».

ii

[680] Ma con maravigliosa brevitá ed acconcezza narra Omero questa medesima istoria, tutta ristretta nel geroglifico dello scettro lasciato ad Agamennone. Il quale Vulcano fabbricò a Giove (perché Giove, co’ primi fulmini dopo il diluvio, fondossi il regno sopra gli dèi e gli uomini, che furon i regni divini, nello stato delle famiglie); — poi Giove il diede a Mercurio (che fu il caduceo, con cui Mercurio portò la prima legge agraria alle plebi, onde nacquero i regni eroici delle prime cittá); — poi Mercurio il diede a Pelope, Pelope a Tieste, Tieste ad Atreo, Atreo ad Agamennone (ch’è tutta la successione della casa reale d’Argo).

iii

[681] Però piú piena e spiegata è la storia del mondo, che ’l medesimo Omero ci narra essere stata descritta nello scudo d’Achille.

[682] I. Nel principio vi si vedeva il cielo, la terra, il mare, il sole, la luna, le stelle: — questa è l’epoca della criazione del mondo.

329 ―

[683] II. Dipoi due cittá. In una erano canti, imenei e nozze: questa è l’epoca delle famiglie eroiche de’ figliuoli nati dalle nozze solenni. Nell’altra non si vedeva niuna di queste cose: questa è l’epoca delle famiglie eroiche de’ famoli, i quali non contraevano che matrimoni naturali, senza niuna solennitá di quelle con le quali si contraevano le nozze eroiche. Sicché entrambe queste cittá rappresentavano lo stato di natura, o sia quello delle famiglie; ed eran appunto le due cittá, ch’Eumeo, castaldo d’Ulisse, racconta ch’erano nella sua padria, entrambe rette da suo padre, nelle qual’i cittadini avevano distintamente tutte le loro cose divise (cioè che non avevano niuna parte di cittadinanza tra essoloro comune). Onde la cittá senza imenei è appunto l’«altro popolo» che Telemaco in adunanza chiama la plebe d’Itaca; ed Achille, lamentandosi dell’oltraggio fattogli da Agamennone, dice che l’aveva trattato da un giornaliere, che non aveva niuna parte al governo.

[684] III. Appresso, in questa medesima cittá delle nozze, si vedevano parlamenti, leggi, giudizi, pene. Appunto come i patrizi romani nelle contese eroiche replicavano alla plebe che e le nozze e gl’imperi e i sacerdozi, de’ quali ultimi era dipendenza la scienza delle leggi, e, con queste, i giudizi, erano tutte ragioni loro propie, perch’erano loro propi gli auspíci, che facevano la maggior solennitá delle nozze: onde «viri» (che tanto appo i latini suonava quanto «eroi» appo i greci) se ne dissero i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e per ultimo i giudici, come altra volta sopra si è detto. Sicché questa è l’epoca delle cittá eroiche, che sopra le famiglie de’ famoli sursero di stato severissimo aristocratico.

[685] IV. L’altra cittá è assediata con armi, e, a vicenda con la prima, menano prede l’una dall’altra; e quivi la cittá senza nozze (ch’erano le plebi delle cittá eroiche) diventa un’altra intiera cittá nimica. Il qual luogo a maraviglia conferma ciò che sopra abbiam ragionato: che i primi stranieri, i primi «hostes» furono le plebi de’ popoli eroici, contro le quali, come n’abbiamo piú volte udito Aristotile, gli eroi giuravano d’esser eterni nimici; onde poi l’intiere cittá, perché tra loro

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straniere, co’ ladronecci eroici, esercitavano eterne ostilitá tra di loro, come sopra si è ragionato.

[686] V. E finalmente vi si vedeva descritta la storia dell’arti dell’umanitá, dandole incominciamento dall’epoca delle famiglie; perché, prima di ogni altra cosa, vi si vedeva il padre re, che, con lo scettro comanda il bue arrosto dividersi a’ mietitori; dappoi vi si vedevano piantate vigne; appresso, armenti, pastori e tuguri; e in fine di tutto v’erano descritte le danze. La qual immagine, con troppo bello e vero ordine di cose umane, sponeva ritruovate prima l’arti del necessario: la villereccia, e prima del pane, dipoi del vino; appresso, quelle dell’utile: la pastoreccia; quindi quelle del comodo: l’architettura urbana; finalmente quelle del piacere: le danze.

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[SEZIONE SETTIMA] [Fisica poetica]


[Capitolo Primo]
Della fisica poetica

[687] Passando ora all’altro ramo del tronco metafisico poetico, per lo quale la sapienza poetica si dirama nella fisica e quindi nella cosmografia e, per questa, nell’astronomia, di cui son frutte la cronologia e la geografia, diamo, a quest’altra parte che resta di ragionamento, principio dalla fisica.

[688] I poeti teologi considerarono la fisica del mondo delle nazioni; e perciò primieramente diffinirono il Cao essere confusione de’ semi umani, nello stato dell’infame comunione delle donne. Dal quale poi i fisici furono desti a pensare alla confusione de’ semi universali della natura, e, a spiegarla, n’ebbero da’ poeti giá ritruovato e quindi acconcio il vocabolo. Egli era confuso, perché non vi era niun ordine d’umanitá; era oscuro, perché privo della luce civile (onde «incliti» furon detti gli eroi). L’immaginarono ancora [come] l’Orco, un mostro informe che divorassesi tutto, perché gli uomini nell’infame comunione non avevano propie forme d’uomini, ed eran assorti dal nulla, perché per l’incertezza delle proli non lasciavano di sé nulla: questo poi da’ fisici fu preso per la prima materia delle naturali cose, che, informe, è ingorda di forme e si divora tutte le forme. Ma i poeti gli diedero anco la forma mostruosa di Pane, dio selvaggio ch’è nume di tutti i satiri,

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che non abitano le cittá ma le selve; carattere al quale riducevano gli empi vagabondi per la gran selva della terra, ch’avevano aspetto d’uomini e costumi di bestie nefande: che poi, con allegorie sforzate ch’osserveremo piú appresso, i filosofi, ingannati dalla voce πᾶν, che significa «tutto», l’appresero per l’universo formato. Han creduto ancor i dotti ch’i poeti avesser inteso la prima materia con la favola di Proteo, con cui, immerso nell’acque, Ulisse da fuori l’acque lutta in Egitto, né può afferrarlo, perché sempre in nuove forme si cangia. Ma tal loro sublimitá di dottrina fu una gran goffaggine e semplicitá de’ primi uomini, i quali (come i fanciulli, quando si guardano negli specchi, vogliono afferrare le lor immagini) dalle varie modificazioni de’ lor atti e sembianti credevano esser un uomo nell’acqua, che cangiassesi in varie forme.

[689] Finalmente fulminò il cielo, e Giove diede principio al mondo degli uomini dal poner questi in conato, ch’è propio della libertá della mente, siccome dal moto, il qual è propio de’ corpi, che son agenti necessari, cominciò il mondo della natura; perocché que’, che ne’ corpi sembran esser conati, sono moti insensibili, come si è detto sopra nel Metodo. Da tal conato uscí la luce civile, di cui è carattere Apollo, alla cui luce si distinse la civile bellezza onde furono belli gli eroi; della quale fu carattere Venere, che poi fu presa da’ fisici per la bellezza della natura, anzi per tutta la natura formata, la qual è bella e adorna di tutte le sensibili forme.

[690] Uscí il mondo de’ poeti teologi da quattro elementi sagri: dall’aria, dove fulmina Giove, dall’acqua delle fonti perenni, di cui è nume Diana; dal fuoco, onde Vulcano accese le selve; e dalla terra colta, ch’è Cibele o Berecintia. Che tutti e quattro sono gli elementi delle divine cerimonie: cioè auspíci, acqua, fuoco e farro, che guarda Vesta: che, come si è detto sopra, è la stessa che Cibele o Berecintia, la quale delle terre colte afforzate di siepi, con le ville poste in alto in figura di torri (onde a’ latini è «extorris», quasi «exterris»), ella va coronata; con la qual corona si chiude quello che ci restò detto «orbis terrarum», ch’è propiamente il mondo degli uomini.

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Quindi poi i fisici ebbero il motivo di meditare ne’ quattro elementi, de’ quali è composto il mondo della natura.

[691] Gli stessi poeti teologi e agli elementi e alle indi uscite innumerabili speziali nature diedero forme viventi e sensibili, ed alla maggior parte umane, e ne finsero tante e sí varie divinitá, come abbiamo ragionato sopra nella Metafisica; onde riuscí acconcio a Platone d’intrudervi il placito delle sue «menti» o «intelligenze»: che Giove fusse la mente dell’etere, Vulcano del fuoco, e altri somiglianti. Ma i poeti teologi tanto intesero tal’intelligenti sostanze, che fin ad Omero non s’intendeva essa mente umana, in quanto, per forza di riflessione, resiste al senso; di che vi sono due luoghi d’oro nell’Odissea, dove vien detta o «forza sagra» o «vigor occulto», che son lo stesso.

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[Capitolo Secondo]
Della fisica poetica intorno all’uomo
o sia della natura eroica

[692] Ma la maggior e piú importante parte della fisica è la contemplazione della natura dell’uomo. Come gli autori del gener umano gentilesco s’abbiano essi in un certo modo generato e produtto la propia lor forma umana per entrambe le di lei parti, cioè con le spaventose religioni e coi terribili imperi paterni, e con le sagre lavande essi edussero da’ loro corpi giganteschi la forma delle nostre giuste corporature, e con la stessa disciplina iconomica eglino, da’ lor animi bestiali, edussero la forma de’ nostri animi umani: tutto ciò sopra, nell’Iconomica poetica, si è ragionato, e questo è luogo propio da qui doversi ripetere.

[693] Or i poeti teologi, con aspetto di rozzissima fisica, guardarono nell’uomo queste due metafisiche idee: d’essere e di sossistere. Certamente gli eroi latini sentirono l’«essere», assai grossolanamente, con esso «mangiare», che dovett’esser il primo significato di «sum», che poi significò l’uno e l’altro; conforme anch’oggi i nostri contadini, per dire che l’ammalato vive, dicono ch’«ancor mangia». Perché «sum» in significato d’«essere» egli è astrattissimo, che trascende tutti gli esseri; scorrevolissimo, che per tutti gli esseri penetra; purissimo, che da niun essere è circoscritto. Sentirono la «sostanza», che vuol dire «cosa che sta sotto e sostiene», star ne’ talloni, perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste; ond’Achille portava i suoi fati sotto il tallone, perché ivi stasse il suo fato, o sia la sorte del vivere e del morire.

[694] La compagine del corpo riducevano a’ solidi e liquidi. I solidi richiamavano a viscere o sieno carni (come appo i romani si disse «visceratio» la divisione che da’ sacerdoti si

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faceva al popolo delle carni delle vittime sagrificate), talché «vesci» intesero «nudrirsi», quando del cibo si faccia carne; — ad ossa e giunture, che si dicono «artus» (ov’è da osservare che «artus» è detto da «ars», ch’agli antichi latini significò la «forza del corpo», ond’è «artitus», «atante della persona»: poi fu detta «ars» ogni compagine di precetti che ferma qualche facultá della mente); — a’ nervi, che, quando, mutoli, parlavan per corpi, presero per le forze (da un qual nervo, detto «fides», in senso di «corda», fu detta «fede» la «forza degli dèi», del qual nervo o corda o forza poi fecero il liuto d’Orfeo), e con giusto senso riposero ne’ nervi le forze, poiché questi tendono i muscoli, che bisognano tendersi per far forza; — e finalmente a midolle, e nelle midolle riposero, con senso ancor giusto, il fior fior della vita (onde «medulla» era detta dall’innamorato l’amata donna, e «medullitus» ciò che diciamo «di tutto cuore», e amore, ov’è grande, si dice «bruciar le midolla»). I liquidi riducevano al solo sangue, perciocché la sostanza nervea o spermale pur chiamavano «sangue» (come la frase poetica lo ci dimostra: «sanguine cretus» per «generato»), e con giusto senso ancora, perché tal sostanza è ’l fior fiore del sangue. E, pure con senso giusto, stimarono il sangue sugo delle fibre delle quali si compone la carne; onde restò a’ latini «succiplenus» per dir «carnuto», «insuppato di buono sangue».

[695] Per l’altra parte poi dell’anima, i poeti teologi la riposero nell’aria (che «anima» pur da’ latini vien detta), e la stimarono il veicolo della vita (come restò a’ latini la propietá della frase «anima vivimus», e a’ poeti quelle frasi: «ferri ad vitales auras», «nascere»; «ducere vitales auras», «vivere»; «vitam referri in auras», «morire»; e in volgar latino restarono «animam ducere» per «vivere», «animam trahere» per «agonizzare», «animam efflare, emittere» per «morire»); onde forse i fisici ebbero il motivo di riporre l’anima del mondo nell’aria. E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, nel cui giusto moto consiste la nostra vita.

336 ―

[696] Dovetter, ancora con giusto senso, sentir che l’animo ’l veicolo sia del senso, perché restò a’ latini la propietá dell’espressione «animo sentimus». E, con giusto senso altresí, fecero l’animo maschio, femmina l’anima, perché l’animo operi nell’anima (ch’è l’«igneus vigor» che dice Virgilio); talché l’animo debba avere il suo subbietto nei nervi e nella sostanza nervea, e l’anima nelle vene e nel sangue: e cosí i veicoli sieno, dell’animo, l’etere e, dell’anima, l’aere, con quella proporzione con la quale gli spiriti animali son mobilissimi, alquanto tardi i vitali. E, come l’anima è la ministra del moto, cosí l’animo sia del conato, e ’n conseguenza il principio; ch’è l’«igneus vigor» che testé ci ha detto Virgilio. E i poeti teologi il sentivano e non intendevano, e appresso Omero il dissero «forza sagra» e «vigor occulto» e un «dio sconosciuto»; come i greci e i latini, quando dicevano o facevano cosa di che sentivano in sé un principio superiore, dicevano che un qualche dio avesse sí fatta cosa voluto: il qual principio fu da’ medesimi latini detta «mens animi». E sí, rozzamente, intesero quell’altissima veritá, che poi la teologia naturale de’ metafisici, in forza d’invitti raziocini contro gli epicurei, che le vogliono esser risalti de’ corpi, dimostra che l’idee vengono all’uomo da Dio.

[697] Intesero la generazione con una guisa che non sappiamo se piú propia n’abbiano potuto appresso giammai ritruovar i dotti. La guisa tutta si contiene in questa voce «concipere», detta quasi «concapere», che spiega l’esercizio che celebrano della loro natura le forme fisiche (ch’ora si deve supplire con la gravitá dell’aria, dimostrata ne’ tempi nostri), di prendere d’ogn’intorno i corpi loro vicini, e vincere la lor resistenza, e adagiargli e conformargli alla loro forma.

[698] La corrozione spiegarono troppo sappientemente con la voce «corrumpi», che significa il rompimento di tutte le parti che compongono il corpo; per l’opposto di «sanum», perché la vita consista in tutte le parti sane: tanto che dovettero stimare i morbi portar la morte col guasto de’ solidi.

[699] Riducevano tutte le funzioni interne dell’animo a tre parti

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del corpo: al capo, al petto, al cuore. E dal capo richiamavano tutte le cognizioni; che perciocch’erano tutte fantastiche, collocarono nel capo la memoria, la quale da’ latini fu detta per «fantasia». E a’ tempi barbari ritornati fu detta «fantasia» per «ingegno», e, ’n vece di dir «uomo d’ingegno», dicevan «uomo fantastico»; qual narra essere stato Cola di Rienzo l’autore dello stesso tempo il qual in barbaro italiano ne descrisse la vita, la qual contiene nature e costumi somigliantissimi a quest’eroici antichi che ragioniamo: ch’è un grande argomento del ricorso che, ’n nature e costumi, fanno le nazioni. Ma la fantasia altro non è che risalto di reminiscenze, e l’ingegno altro non è che lavoro d’intorno a cose che si ricordano. Ora, perché la mente umana de’ tempi che ragioniamo non era assottigliata da verun’arte di scrivere, non spiritualezzata da alcuna pratica di conto e ragione, non fatta astrattiva da tanti vocaboli astratti di quanti or abbondan le lingue, come si è detto sopra nel Metodo, ella esercitava tutta la sua forza in queste tre bellissime facultá, che le provengon dal corpo. E tutte e tre appartengono alla prima operazion della mente, la cui arte regolatrice è la topica, siccome l’arte regolatrice della seconda è la critica; e, come questa è arte di giudicare, cosí quella è arte di ritruovare, conforme si è sopra detto negli Ultimi corollari della Logica poetica. E, come naturalmente prima è ’l ritruovare, poi il giudicar delle cose, cosí conveniva alla fanciullezza del mondo di esercitarsi d’intorno alla prima operazion della mente umana, quando il mondo aveva di bisogno di tutti i ritruovati per le necessitá ed utilitá della vita, le quali tutte si erano provvedute innanzi di venir i filosofi, come piú pienamente il dimostreremo nella Discoverta del vero Omero. Quindi a ragione i poeti teologi dissero la Memoria esser «madre delle muse», le quali sopra si sono truovate essere l’arti dell’umanitá.

[700] È, in questa parte, da punto non trallasciare quest’importante osservazione, che molto rileva per quello che nel Metodo si è sopra detto: ch’or intender appena si può, affatto immaginar non si può come pensassero i primi uomini che fondarono

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l’umanitá gentilesca, ch’erano di menti cosí singolari e precise, ch’ad ogni nuov’aria di faccia ne stimavano un’altra nuova, com’abbiam osservato nella favola di Proteo; ad ogni nuova passione stimavano un altro cuore, un altro petto, un altr’animo: onde sono quelle frasi poetiche, usate, non giá per necessitá di misure, ma per tal natura di cose umane, quali sono «ora», «vultus», «animi», «pectora», «corda», prese per gli numeri loro del meno.

[701] Fecero il petto stanza di tutte le passioni, a cui con giusti sensi ne sottoposero i due fomenti o princípi: cioè l’irascibile nello stomaco, perocché ivi, per superare il mal che ci preme, ci si faccia sentire la bile contenuta ne’ vasi biliari, sparsi per lo ventricolo, il quale, con invigorire il suo moto peristaltico, spremendogli, la vi diffonde: — posero la concupiscibile, piú di tutt’altro, nel fegato, ch’è diffinito l’«ufficina del sangue», ch’i poeti dissero «precordi», ove Titane impastò le passioni degli altri animali, le quali fussero in ciascuna specie piú insigni; e abbozzatamente intesero che la concupiscenza è la madre di tutte le passioni e che le passioni sieno dentro de’ nostri umori.

[702] Richiamavano al cuore tutti i consigli, onde gli eroi «agitabant, versabant, volutabant corde curas», perché non pensavano d’intorno alle cose agibili senonsé scossi da passioni, siccome quelli ch’erano stupidi ed insensati. Quindi da’ latini «cordati» furono detti i saggi, e «vecordes» al contrario gli scempi; e le risoluzioni si dissero «sententiae», perché, come sentivano cosí giudicavano, onde i giudizi eroici erano tutti con veritá nella loro forma, quantunque spesso falsi nella materia.

339 ―

[Capitolo Terzo]
Corollario
delle sentenze eroiche

[703] Ora, perché i primi uomini del gentilesimo erano di menti singolarissime, poco meno che di bestie, alle quali ogni nuova sensazione cancella affatto l’antica (ch’è la ragione perché non possono combinar e discorrere), perciò le sentenze tutte dovevan essere singolarizzate da chi sentivale. Onde quel sublime, ch’ammira Dionigi Longino nell’oda di Saffo che poi trasportò in latino Catullo, che l’innamorato, alla presenza della sua amata donna, spiega per somiglianza:

Ille mi par esse deo videtur,

manca del sommo grado della sublimitá, perché non singolarizza la sentenza in se stesso, come fa Terenzio, con dire:
Vitam deorum adepti sumus;

il qual sentimento, quantunque sia propio di chi lo dice, per la maniera latina d’usare nella prima persona il numero del piú per quello del meno, però ha un’aria di sentimento comune. Ma dallo stesso poeta, in altra commedia, il medesimo sentimento è innalzato al sommo grado della sublimitá, ove, singolarizzandolo, l’appropia a chi ’l sente:
Deus factus sum.

[704] Perciò queste sentenze astratte son di filosofi, perché contengono universali, e le riflessioni sopra esse passioni sono di falsi e freddi poeti.

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[Capitolo Quarto]
Corollario
delle descrizioni eroiche

[705] Finalmente riducevano le funzioni esterne dell’animo ai cinque sensi del corpo, ma scorti, vividi e risentiti, siccome quelli ch’erano nulla o assai poco ragione e tutti robustissima fantasia. Di ciò sieno pruove i vocaboli che diedero ad essi sensi.

[706] Dissero «audire», quasi «haurire», perché gli orecchi bevano l’aria da altri corpi percossa. Dissero «cernere oculis» il vedere distintamente (onde forse venne «scernere» agl’italiani), perché gli occhi sieno come un vaglio e le pupille due buchi — che, come da quello escon i bastoni di polvere, che vanno a toccare la terra, cosí dagli occhi, per le pupille, escano bastoni di luce, che vanno a toccare le cose, le quali distintamente si vedono (ch’è ’l baston visuale che poi ragionarono gli stoici, e felicemente a’ nostri tempi ha dimostrato il Cartesio); — e dissero «usurpare oculis» generalmente il vedere, quasi che, con la vista, s’impossessassero delle cose vedute. Con la voce «tangere» dissero anco il rubare, perché, col toccare, da’ corpi che si toccano si porta via qualche cosa, ch’or appena s’intende da’ fisici piú avveduti. Dissero «olfacere» l’odorare, quasi, odorando, facessero essi gli odori; lo che poi, con gravi osservazioni, truovaron vero i naturali filosofi, che i sensi facciano le qualitá che sono dette «sensibili». E finalmente dissero «sapere» il gustare, e «sapere», propiamente, è delle cose che dan sapore, perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle cose; onde poi con bella metafora fu detta «sapienza», che fa usi, delle cose, i quali hanno in natura, non giá quelli che ne finge l’oppenione.

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[707] Nello che è da ammirare la provvedenza divina: ch’avendoci dato ella i sensi per la custodia de’ nostri corpi — i quali i bruti hanno maravigliosamente piú fini degli uomini, — in tempo ch’erano gli uomini caduti in uno stato di bruti, da tal loro natura istessa avessero sensi scortissimi per conservarsi; i quali, venendo l’etá della riflessione, con cui potessero consigliarsi per guardar i lor corpi, s’infievolirono. Per tutto ciò le descrizioni eroiche, quali sono quelle d’Omero, diffondono tanto lume e splendor d’evidenza, che non si è potuto imitare, nonché uguagliare, da tutti i poeti appresso.

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[Capitolo Quinto]
Corollario
de’ costumi eroici

[708] Da tali eroiche nature, fornite di tali sensi eroici, si formarono e fermarono somiglianti costumi. Gli eroi, per la fresca origine gigantesca, erano in sommo grado goffi e fieri, quali ci sono stati detti los patacones, di cortissimo intendimento, di vastissime fantasie, di violentissime passioni. Per lo che dovetter essere zotici, crudi, aspri, fieri, orgogliosi, difficili ed ostinati ne’ loro propositi e, nello stesso tempo, mobilissimi al presentarsi loro de’ nuovi contrari obbietti: siccome tuttodí osserviamo i contadini caparbi, i quali ad ogni motivo di ragion detta loro vi si rimettono; ma, perché sono deboli di riflessione, la ragione, che gli aveva rimossi, tosto dalle loro menti sgombrando, si richiamano al lor proposito. E, per lo stesso difetto della riflessione, eran aperti, risentiti, magnanimi e generosi, qual è da Omero descritto Achille, il massimo di tutti gli eroi della Grecia. Sopra i quali esempli di costumi eroici Aristotile alzò in precetto d’arte poetica che gli eroi, i quali si prendono per subbietti delle tragedie, eglino non sieno né ottimi né pessimi, ma di grandi vizi e di grandi virtú mescolati. Perché cotesto eroismo di virtú, la qual sia compiuta sopra la sua idea ottima, egli è di filosofi, non di poeti; e cotesto eroismo galante è di poeti che vennero dopo Omero, i quali o ne finsero le favole di getto nuove, o le favole, nate dapprima gravi e severe, quali convenivano a fondatori di nazioni, poscia, effeminandosi col tempo i costumi, essi alterarono e finalmente corruppero. Gran pruova è di ciò (e la stessa dee essere un gran canone di questa mitologia istorica che ragioniamo) che Achille, il quale per quella Briseide ad essolui tolta da Agamennone fa tanti romori

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che n’empie la terra e ’l cielo e ne porge la materia perpetua a tutta l’Iliade, non ne mostra, in tutta l’Iliade, pur un menomo senso di passion amorosa d’esserne rimasto privo; e Menelao, che per Elena muove tutta la Grecia contro di Troia, non ne mostra, per tutta quella lunga e gran guerra, un segno, pur picciolo, d’amoroso cruccio o di gelosia che la si goda Paride, il quale gliel’aveva rapita.

[709] Tutto ciò che si è in questi tre corollari detto delle sentenze, delle descrizioni e de’ costumi eroici, appartiene alla discoverta del vero Omero, che si fará nel libro seguente.

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[SEZIONE OTTAVA] [Cosmografia Poetica]

[Capitolo Unico]
Della cosmografia poetica

[710] I poeti teologi, siccome posero per princípi in fisica le sostanze da essi immaginate divine, cosí descrissero una a cotal fisica convenevole cosmografia, ponendo il mondo formato di dèi del cielo, dell’inferno (che da’ latini si dissero «dii superi» e «dii inferi») e di dèi che tra ’l cielo e la terra si frapponessero (che dovetter esser appo i latini dapprima i dèi detti «medioxumi»).

[711] Del mondo in primo luogo contemplarono il cielo, le cui cose dovetter esser a’ greci i primi μαθήματα, o sieno «sublimi cose», e i primi θεωρήματα, o sieno «divine cose da contemplarsi». La contemplazione delle quali fu detta cosí da’ latini da quelle regioni del cielo che disegnavano gli áuguri per prender gli augúri (che dicevano «templa coeli», onde nell’Oriente venne il nome de’ zoroasti, che ’l Bocarto vuol detti quasi «contemplatori degli astri»), per indovinare dal tragitto delle stelle cadenti la notte.

[712] Fu a’ poeti il primo cielo non piú in suso delle alture delle montagne, ov’i giganti da’ primi fulmini di Giove furono dal loro ferino divagamento fermati; ch’è quel Cielo che regnò in terra e, quindi incominciando, fece de’ grandi benefíci al gener umano, come si è sopra pienamente spiegato. Laonde dovetter estimar il cielo la cima d’esse montagne (dall’acutezza delle quali a’ latini venne «coelum» detto ancor il bolino, istrumento

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d’intagliar in pietre o metalli); appunto come i fanciulli immaginano ch’i monti sieno le colonne che sostengono il solaio del cielo (siccome gli arabi tali princípi di cosmografia diedero all’Alcorano). Delle quali colonne, due restarono «d’Ercole», come piú giuso vedremo; che dovettero dapprima dirsi i puntelli o sostegni, da «columen», e che poi l’abbia ritondati l’architettura. Sopra un cui solaio sí fatto Teti dice ad Achille, appo Omero, che Giove con gli altri dèi era ito da Olimpo a banchettare in Atlante. Tanto che, come sopra dicemmo, ove si ragionò de’ giganti, la favola della guerra ch’essi fanno al cielo, e impongono gli altissimi monti, a Pelio Ossa, ad Ossa Olimpo, per salirvi e scacciarne gli dèi, dev’essere stata ritruovata dopo d’Omero; perché nell’Iliade certamente egli sempre narra gli dèi starsi sulla cima del monte Olimpo, onde bastava che crollasse l’Olimpo solo, per farne cadere gli dèi. Né tal favola, quantunque sia riferita nell’Odissea, ella ben vi conviene. Perché in quel poema l’inferno non è piú profondo d’un fosso, dove Ulisse vede e ragiona con gli eroi trappassati; laonde quanto corta idea aveva l’Omero dell’Odissea dell’inferno è necessario ch’a proporzione altrettanta ne avesse avuto del cielo, in conformitá di quanta ne aveva avuto l’Omero autor dell’Iliade. E, ’n conseguenza, si è dimostro che tal favola non è d’Omero, come promettemmo sopra di dimostrare.

[713] In questo cielo dapprima regnarono in terra gli dèi e praticarono con gli eroi, secondo l’ordine della teogonia naturale che sopra si è ragionata, incominciando da Giove. In questo cielo rendette in terra ragione Astrea, coronata di spighe e fornita altresí di bilancia; perché il primo giusto umano fu ministrato dagli eroi agli uomini con la prima legge agraria ch’abbiamo sopra veduto. Perocché gli uomini sentirono prima il peso, poi la misura, assai tardi il numero, nel quale finalmente si fermò la ragione; tanto che Pittagora, non intendendo cosa piú astratta da’ corpi, pose l’essenza dell’anima umana ne’ numeri. Per questo cielo van correndo a cavallo gli eroi, come Bellerofonte sul Pegaso, e ne restò a’ latini «volitare equo», «andar correndo a cavallo». In questo cielo Giunone imbianca

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la via lattea del latte, non suo, perché fu sterile, ma delle madri di famiglia, che lattavano i parti legittimi per quelle nozze eroiche delle quali era nume Giunone. Su per questo cielo gli dèi sono portati sui carri d’oro poetico (di frumento), onde fu detta l’etá dell’oro. In questo cielo s’usarono l’ali, non giá per volare o significare speditezza d’ingegno — onde son alati Imeneo (ch’è lo stesso ch’Amor eroico), Astrea, le muse, il Pegaso, Saturno, la Fama, Mercurio (come nelle tempie cosí ne’ talloni, e alato il di lui caduceo, con cui da questo cielo porta la prima legge agraria a’ plebei, ch’ammutinati erano nelle valli, come si è sopra detto); alato il dragone (perché la Gorgone è pur nelle tempie alata, né significa ingegno né vola); — ma l’ali si usarono per significare diritti eroici, che tutti erano fondati nella ragion degli auspíci, come pienamente sopra si è dimostrato. In questo cielo ruba Prometeo il fuoco dal sole, che dovettero gli eroi fare con le pietre focaie ed attaccarlo agli spinai secchi per sopra i monti dagli accesi soli d’está, onde la fiaccola d’Imeneo ci viene fedelmente narrata essere stata fatta di spine. Da questo cielo è Vulcano precipitato con un calcio da Giove; da questo cielo precipita, col carro del Sole, Fetonte; da questo cielo cade il pomo della Discordia: le quali favole si sono tutte sopra spiegate. E da questo cielo finalmente dovettero cadere gli ancili, o scudi sagrati, a’ romani.

[714] Delle deitadi infernali in primo luogo i poeti teologi fantasticarono quella dell’acqua; e la prima acqua fu quella delle fontane perenni, che chiamarono «Stige», per cui giuravano i dèi, come si è sopra detto: onde forse Platone poi oppinò che nel centro della terra fusse l’abisso dell’acque. Ma Omero, nella contesa degli dèi, fa temere Plutone che Nettunno co’ tremuoti non iscuopra l’inferno agli uomini ed agli dèi, con aprir loro la terra. Ma, posto l’abisso nelle piú profonde viscere della terra, e che egli facesse i tremuoti, avverrebbe tutto il contrario: che l’inferno sarebbe sommerso e tutto ricoverto dall’acque. Lo che sopra avevamo promesso di dimostrare: che tal allegoria di Platone mal conveniva a tal favola. Per ciò che si è detto, il primo inferno non dovett’essere piú profondo

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della sorgiva delle fontane; e la prima deitade funne creduta Diana, di cui pur ci racconta la storia poetica essere stata detta triforme, perché fu Diana in cielo, Cintia cacciatrice, col suo fratello Apollo, in terra, e Proserpina nell’inferno.

[715] Si stese l’idea dell’inferno con le seppolture; ond’i poeti chiamano «inferno» il sepolcro (la qual espressione è anco usata ne’ libri santi). Talché l’inferno non fu piú profondo d’un fosso, dove Ulisse, appo Omero, vede l’inferno e quivi l’anime degli eroi trappassati: perché in tal inferno furon immaginati gli Elisi, ove, con le seppolture, godono eterna pace l’anime de’ difonti; e gli Elisi sono la stanza beata degli dèi mani o sia dell’anime buone de’ morti.

[716] Appresso, l’inferno pur fu di bassa profonditá quanto è l’altezza d’un solco, ove Cerere, ch’è la stessa che Proserpina (il seme del frumento), è rapita dal dio Plutone, e vi sta dentro sei mesi, e poi ritorna a veder la luce del cielo; onde appresso si spiegherá il ramo d’oro con cui Enea scende all’inferno, che Virgilio finse continuando la metafora eroica delle poma d’oro, che noi sopra abbiam truovato esser le spighe del grano.

[717] Finalmente l’inferno fu preso per le pianure e le valli (opposte all’altezza del cielo, posto ne’ monti), ove restarono i dispersi nell’infame comunione. Onde di tal inferno è lo dio Erebo, detto figliuolo del Cao, cioè della confusione de’ semi umani, ed è padre della notte civile (della notte de’ nomi); siccome il cielo è allumato di civil luce, onde gli eroi sono incliti. Vi scorre il fiume Lete, il fiume, cioè, dell’obblio, perché tali uomini non lasciavano niun nome di sé nelle loro posteritá; siccome la gloria in cielo eterna i nomi de’ chiari eroi. Quindi Mercurio, come si è detto di sopra nel di lui carattere, con la sua verga, in cui porta la legge agraria, richiama l’anime dall’Orco, il quale tutto divora; ch’è la storia civile conservataci da Virgilio in quel motto:

hac ille animas evocat Orco:

chiama le vite degli uomini eslegi e bestiali dallo stato ferino, il quale si divora il tutto degli uomini, perché non lasciano

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essi nulla di sé nella loro posteritá. Onde poi la verga fu adoperata da’ maghi, sulla vana credenza che con quella si risuscitassero i morti; e ’l pretore romano con la bacchetta batteva sulla spalla gli schiavi e gli faceva divenir liberi, quasi con quella gli faceva ritornar da morte in vita. Se non pure i maghi stregoni usano la verga nelle loro stregonerie, ch’i maghi sappienti di Persia avevan usato per la divinazion degli auspíci. Onde alla verga fu attribuita la divinitá, e fu dalle nazioni tenuta per dio e che facesse miracoli, come Trogo Pompeo ce n’accerta appresso il suo breviatore Giustino.

[718] Quest’inferno è guardato da Cerbero, dalla sfacciatezza canina d’usar la venere senza vergogna d’altrui. È Cerbero trifauce, cioè d’una sformata gola, col superlativo del «tre» ch’abbiamo piú volte sopra osservato, perché, come l’Orco, tutto divora; e, uscito sopra la terra, il sole ritorna indietro (e, salito sulle cittá eroiche, la luce civil degli eroi ritorna alla notte civile).

[719] Nel fondo di tal inferno scorre il fiume Tartaro, dove si tormentano i dannati: Issione a girar la ruota, Sisifo a voltar il sasso, Tantalo a morirsi e di fame e di sete, come si sono sopra queste favole tutte spiegate; e ’l fiume dove brucian di sete è lo stesso fiume «senza contento», ché tanto Acheronte e Flegetonte significano. In quest’inferno poi, per ignorazione di cose, furono gittati da’ mitologi e Tizio e Prometeo; ma costoro furon in cielo incatenati alle rupi, a’ quali divora le viscere l’aquila che vola ne’ monti (la tormentosa superstizion degli auspíci, ch’abbiamo sopra spiegati).

[720] Le quali favole tutte poscia i filosofi ritruovaron acconcissime a meditarvi e spiegare le loro cose morali e metafisiche; e se ne destò Platone ad intendere le tre pene divine, che solamente dánno gli dèi e non possono dare gli uomini: la pena dell’obblio, dell’infamia e i rimorsi co’ quali ci tormenta la rea coscienza; e che, per la via purgativa delle passioni dell’animo, le quali tormentano gli uomini (ch’esso intende per l’inferno de’ poeti teologi), si entra nella via unitiva, per dove va ad unirsi la mente umana con Dio per mezzo della

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contemplazione dell’eterne divine cose (la qual egli interpetra aver inteso i poeti teologi coi lor Elisi).

[721] Ma, con idee tutte diverse da queste morali e metafisiche (perocché i poeti teologi l’avevano detto con idee politiche, com’era loro necessario naturalmente di fare, siccome quelli che fondavano nazioni), scesero nell’inferno tutti i gentili fondatori de’ popoli. Scesevi Orfeo, che fondò la nazion greca; e, vietato, nel salirne, di voltarsi indietro, voltandosi, perde la sua moglie Euridice (ritorna all’infame comunion delle donne). Scesevi Ercole (ch’ogni nazione ne racconta uno da cui fusse stata fondata), e scesevi per liberar Teseo, che fondò Atene, il quale vi era sceso per rimenarne Proserpina, ch’abbiamo detto essere la stessa che Cerere (per riportarne il seminato frumento in biade). Ma, piú spiegatamente di tutti, appresso, Virgilio (il quale nei primi sei libri dell’Eneide canta l’eroe politico, negli altri restanti sei canta l’eroe delle guerre), con quella sua profonda scienza dell’eroiche antichitá, narra ch’Enea, con gli avvisi e con la condotta della Sibilla cumana, delle quali dicemmo ch’ogni nazione gentile n’ebbe una, e ce ne sono giunte nominate pur dodici (talché vuol dire con la divinazione, che fu la sapienza volgare della gentilitá), con sanguinosa religione pio (di quella pietá che professarono gli antichissimi eroi nella fierezza ed immanitá della loro fresca origine bestiale che sopra si è dimostrata), sagrifica il socio Miseno (come pure abbiam sopra detto, per lo diritto crudele che gli eroi ebbero sopra i lor primi soci ch’abbiamo ancor ragionato), si porta nell’antica selva (qual era la terra dappertutto incolta e boscosa), gitta il boccone sonnifero a Cerbero e l’addormenta (ch’Orfeo aveva addormentato col suono della sua lira, che sopra a tante pruove abbiamo truovato esser la legge; ed Ercole incatenò col nodo con cui avvinse Anteo nella Grecia, cioè con la prima legge agraria, in conformitá di ciò che se n’è sopra detto); per la cui insaziabil fame Cerbero fu finto trifauce — d’una vastissima gola — col superlativo del tre, come si è sopra spiegato. Cosí Enea scende nell’inferno (che truovammo dapprima non piú profondo dell’altezza de’ solchi), e a Dite (dio delle

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ricchezze eroiche, dell’oro poetico, del frumento; il quale Dite lo stesso fu che Plutone, che rapí Proserpina, che fu la stessa che Cerere, la dea delle biade) presenta il ramo d’oro (ove il gran poeta la metafora delle poma d’oro, che sopra truovammo essere le spighe del grano, porta piú innanzi al ramo d’oro, alla messe). Ad un tal ramo svelto succede l’altro (perché non proviene la seconda raccolta senonsé l’anno dopo essersi fatta la prima); ch’ove gli dèi si compiacciono, volontieri e facile siegue la mano di chi l’afferra, altrimente non si può svellere con niuna forza del mondo (perché le biade, ove Dio voglia, naturalmente provengono; ove non voglia, con niuna umana industria si posson raccogliere). Quindi, per mezzo dell’inferno, si porta ne’ Campi Elisi (perché gli eroi, con lo star fermi ne’ campi colti, morti poi godevano, con le seppolture, la pace eterna, com’abbiamo sopra spiegato), e quivi egli vede i suoi antenati e vegnenti (perché con la religione delle seppolture, ch’i poeti dissero «inferno», come sopra si è pur veduto, si fondarono le prime geanologie, dalle quali pur sopra si è detto aver incominciato la storia).

[722] La terra da’ poeti teologi fu sentita con la guardia de’ confini, ond’ella ebbe sí fatto nome di «terra». La qual origin eroica serbaron i latini nella voce «territorium», che significa «distretto», da ivi dentro esercitare l’imperio; che, con errore, i latini gramatici credono esser detto a «terrendo» de’ littori, che col terrore de’ fasci facevano sgombrare la folla, per far largo a’ maestrati romani. Ma, in que’ tempi che nacque la voce «territorium», non vi era troppa folla in Roma, ché, in dugencinquant’anni di regno, ella manomise piú di venti popoli e non distese piú di venti miglia l’imperio, come sopra l’udimmo dir da Varrone. Però l’origine di tal voce è perché tali confini di campi colti, dentro i quali poi sursero gl’imperi civili, erano guardati da Vesta con sanguinose religioni, come si è sopra veduto, ove truovammo tal Vesta de’ latini esser la stessa che Cibele o Berecintia de’ greci, che va coronata di torri, o sia di terre forti di sito. Dalla qual corona cominciò a formarsi quello che si dice «orbis terrarum», cioè «mondo

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delle nazioni», che poi da’ cosmografi fu ampliato e detto «orbis mundanus» e, in una parola, «mundus», ch’è ’l mondo della natura.

[723] Cotal mondo poetico fu diviso in tre regni, ovvero in tre regioni: una di Giove in cielo; l’altra di Saturno in terra; la terza di Plutone nell’inferno, detto Dite, dio delle ricchezze eroiche, del primo oro, del frumento, perché i campi colti fanno le vere ricchezze de’ popoli.

[724] Cosí formossi il mondo de’ poeti teologi di quattro elementi civili, che poi furono da’ fisici appresi per naturali, come poco piú sopra si è detto: cioè di Giove ovvero l’aria, di Vulcano o sia il fuoco, di Cibele ovvero la terra e di Diana infernale o sia l’acqua. Perché Nettunno tardi da’ poeti fu conosciuto, perché, come si è sopra detto, le nazioni tardi scesero alle marine. E fu detto Oceano ogni mare di prospetto interminato che cingesse una terra, che si dice «isola», come Omero dice l’isola Eolia circondata dall’Oceano. Dal qual Oceano dovettero venire ingravidate da Zefiro, vento occidentale di Grecia, come quindi a poco dimostreremo, le giumente di Reso, e, nei lidi del medesimo Oceano, pur da Zefiro nati i cavalli d’Achille. Doppo, i geografi osservarono tutta la terra, com’una grand’isola, esser cinta dal mare, e chiamarono tutto il mare che cinge la terra «oceano».

[725] Quivi finalmente, con l’idea con la quale ogni brieve proclive era detto «mundus» (onde sono quelle frasi: «in mundo est», «in proclivi est», per dir «egli è facile», ed appresso tutto ciò che monda, pulisce e raffazzona una donna si disse «mundus muliebris»), poi che s’intese la terra e ’l cielo essere di figura orbicolare, ch’in ogni parte della circonferenza verso ogni parte è proclive, e che l’oceano d’ogn’intorno la bagna, e che ’l tutto è adorno d’innumerabili, varie, diverse forme sensibili, quest’universo fu detto «mundus», del quale, con bellissimo sublime trasporto, la natura s’adorna.

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[SEZIONE NONA] [Astronomia poetica]


[Capitolo Primo]
Dell’astronomia poetica

[726] Questo sistema mondano egli durava a’ tempi d’Omero alquanto spiegato piú, il quale nell’Iliade narra sempre gli dèi allogati sul monte Olimpo, e udimmo che fa dire dalla madre Teti ad Achille che gli dèi eran iti da Olimpo a banchettare in Atlante. Sicché gli piú alti monti della terra dovetter a’ tempi d’Omero esser creduti le colonne che sostenessero il cielo, siccome Abila e Calpe nello stretto di Gibilterra ne restaron dette «colonne d’Ercole», il quale succedette ad Atlante, stanco di piú sostenere sopra i suoi ómeri il cielo.

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[Capitolo Secondo]
Dimostrazione astronomica, fisico‐filologica,
dell’uniformitá de’ princípi
in tutte l’antiche nazioni gentili

[727] Ma, l’indiffinita forza delle menti umane spiegandosi vieppiú, e la contemplazione del cielo affin di prender gli augúri obbligando i popoli a sempre osservarlo, nelle menti delle nazioni alzossi piú in suso il cielo, e col cielo alzaronsi piú in suso e gli dèi e gli eroi. Qui ci giovi, per lo ritruovamento dell’astronomia poetica, far uso di queste tre erudizioni filologiche: la prima, che l’astronomia nacque al mondo dalla gente caldea; la seconda, ch’i fenici portarono da’ caldei agli egizi la pratica del quadrante e la scienza dell’elevazione del polo; la terza, che i fenici, che ’l dovettero aver appreso innanzi dagli stessi caldei, portarono a’ greci i dèi affissi alle stelle. Con queste tre filologiche erudizioni si compongano queste due filosofiche veritá: una, civile, che le nazioni, se non sono prosciolte in un’ultima libertá di religione (lo che non avviene se non nella lor ultima decadenza), sono naturalmente rattenute di ricevere deitadi straniere; l’altra, fisica, che, per un inganno degli occhi, le stelle erranti piú grandi ci sembrano delle fisse.

[728] Posti i quali princípi, diciamo che appo tutte le nazioni gentili e d’Oriente e di Egitto e di Grecia (e vedremo anco del Lazio) nacque da origini volgari uniformi l’astronomia, per tal allogamento uniforme, con essere gli dèi saliti ai pianeti e gli eroi affissi alle costellazioni, perché l’erranti paiono grandi molto piú delle fisse. Onde i fenici truovarono tra’ greci giá gli dèi apparecchiati a girar ne’ pianeti e gli eroi a comporre le costellazioni, con la stessa facilitá con la quale i greci gli ritruovarono poi tra’ latini; ed è da dirsi su questi esempli ch’i fenici, quale tra’ greci, tale ancora truovarono sí fatta facilitá

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tra gli egizi. In cotal guisa, gli eroi, e i geroglifici significanti o le loro ragioni o le lor imprese, e buon numero degli dèi maggiori furono innalzati al cielo e apparecchiati per l’astronomia addottrinata di dar alle stelle, che innanzi non avevano nomi, com’a loro materia, la forma cosí degli astri, o sia delle costellazioni, come degli erranti pianeti.

[729] Cosí, cominciando dall’astronomia volgare, fu da’ primi popoli scritta in cielo la storia de’ loro dèi, de’ lor eroi. E ne restò quest’eterna propietá: che materia degna d’istoria sieno memorie d’uomini piene di divinitá o d’eroismo, quelle per opere d’ingegno e di sapienza riposta, queste per opere di virtú e di sapienza volgare; siccome la storia poetica diede agli astronomi addottrinati i motivi di dipignere nel cielo gli eroi e i geroglifici eroici piú con questi che con quelli gruppi di stelle, e piú in queste che ’n quelle parti del cielo, e piú a questa che a quella stella errante di attaccarvi gli dèi maggiori, coi nomi de’ quali poi ci sono venuti detti i pianeti.

[730] E, per parlar alcuna cosa piú de’ pianeti che delle costellazioni, certamente Diana, dea della pudicizia, serbata ne’ concubiti nozziali, che tutta tacita di notte si giace con gli Endimioni dormenti, fu attaccata alla luna, che dá lume alla notte. Venere, dea della bellezza civile, attaccata alla stella errante piú ridente, gaia e bella di tutte. Mercurio, divino araldo, vestito di civil luce, con tante ali (geroglifici di nobiltá), delle quali va ornato (mentre porta la legge agraria a’ sollevati clienti), è allogato in un’errante, che tutta di raggi solari è coverta, talché di rado è veduta. Apollo, dio d’essa luce civile (onde «incliti» si dicon gli eroi), attaccato al sole, fonte della luce naturale. Marte, sanguinoso, ad una stella di somigliante colore. Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, superior a tutti e inferior a Saturno, che, perch’è padre e di Giove e del Tempo, corre lo piú lungo anno di tutti gli altri pianeti. Talché mal gli convengono l’ali, se, con allegoria sforzata, vogliono significare la velocitá d’esso tempo, poiché corre piú tardo di tutti i pianeti il suo anno; ma le si portò in cielo con la sua falce, in significazione, non di mietere vite d’uomini, ma mieter biade,

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con le quali gli eroi numeravano gli anni, e che i campi colti erano in ragion degli eroi. Finalmente i pianeti coi carri d’oro (cioè di frumento), co’ quali andavano in cielo quand’era in terra, ora girano l’orbite lor assegnate.

[731] Per lo che tutto qui ragionato hassi a dire che ’l predominio degl’influssi, che sono creduti avere sopra i corpi sublunari e le fisse e l’erranti, è stato lor attribuito da ciò in che e gli dèi e gli eroi prevalsero quand’eran in terra. Tanto essi dipendono da naturali cagioni!

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[SEZIONE DECIMA] [Cronologia poetica]


[Capitolo Primo]
Della cronologia poetica

[732] In conformitá di cotal astronomia diedero i poeti teologi gl’incominciamenti alla cronologia. Perché quel Saturno, che da’ latini fu detto a «satis», da’ seminati, e fu da’ greci detto Χρόνος (appo i quali χρόνος significa il tempo), ci dá ad intendere che le prime nazioni (le quali furono tutte di contadini) incominciarono a noverare gli anni con le raccolte ch’essi facevano del frumento (ch’è l’unica o almeno la maggior cosa per la quale i contadini travagliano tutto l’anno), e, prima mutole, dovettero, o con tante spighe o pure tanti fili di paglia, far tanti atti di mietere quanti anni volevan essi significare. Onde sono appo Virgilio (dottissimo quant’altri mai dell’eroiche antichitá) prima quell’espressione infelice e, con somma arte d’imitazione, infelicemente contorta, per ispiegare l’infelicitá de’ primi tempi a spiegarsi:

Post aliquot mea regna videns mirabor aristas,

per dire «post aliquot annos»; poi quella, con alquanto di maggior spiegatezza:
Tertia messis erat.

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Siccome fin oggi i contadini toscani, in una nazione la piú riputata in pregio di favellare che sia in tutta Italia, invece di dire «tre anni», per esemplo, dicono «abbiamo tre volte mietuto». E i romani conservarono questa storia eroica, che si ragiona qui, dell’anno poetico che significavasi con le messi, i quali la cura dell’abbondanza principalmente del grano dissero «annona».

[733] Quindi Ercole fucci narrato fondatore dell’olimpiadi, celebre epoca de’ tempi appo i greci (da’ quali abbiamo tutto ciò ch’abbiamo dell’antichitá gentilesche), perch’egli diede il fuoco alle selve per ridurle a terreni da semina, onde furon raccolte le messi, con le quali dapprima si numeravano gli anni. E tali giuochi dovetter incominciar da’ nemei, per festeggiare la vittoria che riportò del lione nemeo vomitante fuoco, che noi sopra abbiamo interpetrato il gran bosco della terra, al qual, appreso con l’idea d’un animale fortissimo (tanta fatiga vi bisognò per domarla!), diedero nome di «lione». Il quale poi passò al piú forte degli animali, siccome sopra si è ragionato ne’ Princípi dell’armi gentilizie; ed al Lione fu dagli astronomi assegnata nel zodiaco una casa, attaccata a quella d’Astrea, coronata di spighe. Questa è la cagione onde nei circi si vedevano spessi simulacri di lioni, simulacri del sole; si vedevano le mete con in cima le uova, che dovetter esser dapprima mete di grano, e i luci, ovvero gli occhi sboscati, che sopra si ragionarono de’ giganti. Dove poi gli astronomi ficcarono la significazione della figura ellittica, che descrive in un anno il sole, col cammino che fa per l’eclittica; la quale significazione sarebbe stata piú acconcia a Maneto di dar all’uovo che porta in bocca lo Cnefo, che quella che significasse la generazione dell’universo.

[734] Però con la teogonia naturale sopra qui ragionata si determina da noi la scorsa de’ tempi, ne’ quali, all’occasioni di certe prime necessitá o utilitá del gener umano, che dappertutto incominciò dalle religioni (la quale scorsa è l’etá degli dèi), ella deve almeno aver durato novecento anni da che tralle nazioni gentili incominciarono i Giovi, o sia dal tempo che ’ncominciò a fulminar il cielo dopo l’universale diluvio. E i dodici dèi maggiori,

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incominciando da Giove, dentro questa scorsa a’ loro tempi fantasticati, si pongano per dodici minute epoche, da ridurvi a certezza de’ tempi la storia poetica. Come, per cagion d’esemplo, Deucalione, che dalla storia favolosa si narra immediatamente dopo il diluvio e i giganti, che fonda con la sua moglie Pirra le famiglie per mezzo del matrimonio, sia egli nato nelle fantasie greche nell’epoca di Giunone, dea delle nozze solenni. Elleno, che fonda la greca lingua e, per tre suoi figliuoli, la ripartisce in tre dialetti, nacque nell’epoca d’Apollo, dio del canto, dal cui tempo dovette incominciare la favella poetica in versi. Ercole, che fa la maggior fatiga d’uccider l’idra o ’l lione nemeo (o sia di ridurre la terra a campi da semina), e ne riporta da Esperia le poma d’oro (le messi, ch’è impresa degna di storia; non gli aranci di Portogallo, fatto degno di parasito), si distinse nell’epoca di Saturno, dio de’ seminati. Cosí Perseo dee essersi fatto chiaro nell’epoca di Minerva, o sia degli giá nati imperi civili, poic’ha caricato lo scudo del teschio di Medusa, ch’è lo scudo d’essa Minerva. E deve, per finirla, Orfeo esser nato dopo l’epoca di Mercurio, che, col cantar alle fiere greche la forza degli dèi negli auspíci, de’ quali avevano la scienza gli eroi, ristabilisce le nazioni greche eroiche ed al «tempo eroico» ne diede il vocabolo, perché in tal tempo avvennero siffatt’eroiche contese. Onde con Orfeo fioriscono Lino, Anfione, Museo ed altri poeti eroi; de’ quali Anfione, de’ sassi (come restonne a’ latini «lapis» per dir «balordo»: degli scempi plebei), innalza le mura di Tebe dopo trecento anni ch’avevala Cadmo fondata; appunto come da un trecento anni dopo la fondazione di Roma egli avvenne che Appio, nipote del decemviro, come altra volta sopra abbiam detto, la plebe romana, che «agitabat connubia more ferarum» (che sono le fiere d’Orfeo), cantandole la forza degli dèi negli auspíci (de’ quali avevano la scienza i nobili), riduce in ufizio, e ferma lo Stato romano eroico.

[735] Oltracciò, qui si deon avvertire quattro spezie d’anacronismi, contenute sotto il genere, ch’ogniun sa, di tempi prevertiti e posposti. La prima è di tempi vuoti di fatti

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de’ quali debbon esser ripieni; come l’etá degli dèi, nella quale abbiamo truovato quasi tutte l’origini delle cose umane civili, e al dottissimo Varrone corre per «tempo oscuro». La seconda è di tempi pieni di fatti de’ quali debbon esser vuoti; come l’etá degli eroi, che corre per dugento anni, e, sulla falsa oppenione che le favole fussero state ritruovati di getto de’ poeti eroici, e sopra tutti di Omero, s’empie di tutt’i fatti dell’etá degli dèi, i quali da questa in quella si devono rovesciare. La terza è di tempi uniti che si devon dividere, acciocché nella vita d’un solo Orfeo la Grecia da fiere bestie non sia portata al lustro della guerra troiana; ch’era quel gran mostro di cronologia che facemmo vedere nell’Annotazioni alla Tavola cronologica. La quarta ed ultima è di tempi divisi che debbon esser uniti; come le colonie greche menate in Sicilia ed in Italia piú di trecento anni dopo gli error degli eroi, le quali vi furono menate con gli errori e per gli errori de’ medesimi eroi.
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[Capitolo Secondo]
Canone cronologico per dar i princípi alla storia universale, che deono precorrere alla monarchia di Nino, dalla qual essa storia universale incomincia.

[736] In forza adunque della detta teogonia naturale, che n’ha dato la detta cronologia poetica ragionata, e con la scoverta delle anzidette spezie d’anacronismi notati sopra essa storia poetica, ora, per dar i princípi alla storia universale, che deon precorrere alla monarchia di Nino, dalla qual essa storia universale incomincia, stabiliamo questo canone cronologico: che dalla dispersione del gener umano perduto per la gran selva della terra, che ’ncominciò a farsi dalla Mesopotamia (come tralle Degnitá n’abbiamo fatta una discreta domanda), per la razza empia di Sem nell’Asia orientale soli cento anni, e dugento per l’altre due di Cam e Giafet nelle restanti parti del mondo, vi corsero di divagamento ferino. Da che, con la religione di Giove (che tanti, sparsi per le prime nazioni gentili, ci appruovarono, sopra, l’universale diluvio), incominciarono i principi delle nazioni a fermarsi in ciascheduna terra, dove per fortuna dispersi si ritruovavano, vi corsero i novecento anni dell’etá degli dèi, nel cui fine — perché quelli si erano per la terra dispersi per cercar pasco ed acqua, che non si truovano ne’ lidi del mare, le nazioni si eran fondate tutte mediterranee — dovettero scender alle marine; onde se ne destò in mente de’ greci l’idea di Nettunno, che truovammo l’ultima delle dodici maggiori divinitá. E cosí, tra’ latini, dall’etá di Saturno, o sia secolo dell’oro del Lazio, vi corsero da novecento anni che Anco Marzio calasse al mare a prendervi Ostia. Finalmente vi corsero i dugento anni ch’i greci noverano del secolo eroico, ch’incomincia da’ corseggi del re Minosse, séguita con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto, s’innoltra

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con la guerra troiana e termina con gli error degli eroi fin al ritorno d’Ulisse in Itaca. Tanto che Tiro, capitale della Fenicia, si dovette portare da mezzo terra a lido, e quindi in un’isola vicina del mar fenicio, da piú di mille anni dopo il diluvio. Ed essendo giá ella celebre, per la navigazione e per le colonie sparse nel Mediterraneo e fin fuori nell’Oceano, innanzi al tempo eroico de’ greci, vien ad evidenza pruovato che nell’Oriente fu il principio di tutto il gener umano, e che prima l’error ferino per gli luoghi mediterranei della terra, dipoi il diritto eroico e per terra e per mare, finalmente i traffichi marittimi de’ fenici sparsero le prime nazioni per le restanti parti del mondo. I quali princípi della commigrazione de’ popoli (conforme ne proponemmo una degnitá) sembrano piú ragionati di quelli i quali Wolfango Lazio n’ha immaginati.

[737] Or, per lo corso uniforme che fanno tutte le nazioni, il quale si è sopra pruovato coll’uniformitá degli dèi innalzati alle stelle, ch’i fenici portarono dall’Oriente in Grecia e in Egitto, hassi a dire che altrettanto tempo corse a’ caldei d’aver essi regnato nell’Oriente, talché da Zoroaste si fusse venuto a Nino, che vi fondò la prima monarchia del mondo, che fu quella d’Assiria; altrettanto che da Mercurio Trimegisto si venisse a Sesostride, o sia il Ramse di Tacito, che vi fondò una monarchia pur grandissima. E, perch’erano entrambe nazioni mediterranee, vi dovettero da’ governi divini, per gli eroici, e quindi per la libertá popolare, provenire le monarchie, ch’è l’ultimo degli umani governi, acciocché gli egizi costino nella loro divisione degli tre tempi del mondo scorsi loro dinanzi. Perché, come appresso dimostreremo, la monarchia non può nascere che sulla libertá sfrenata de’ popoli, alla quale gli ottimati vanno nelle guerre civili ad assoggettire la loro potenza; la qual poi, divisa in menome parti tra’ popoli, facilmente richiamano tutta a sé coloro che, col parteggiare la popolar libertá, vi surgono finalmente monarchi. Ma la Fenicia, perché nazione marittima, per le ricchezze de’ traffichi si dovette fermare nella libertá popolare, ch’è ’l primo degli umani governi.

[738] Cosí con l’intendimento, senz’uopo della memoria, la

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quale non ha che fare ov’i sensi non le somministrano i fatti, sembra essersi supplita la storia universale ne’ suoi princípi e dell’antichissimo Egitto e dell’Oriente, ch’è dell’Egitto piú antico, e, in esso Oriente, i princípi della monarchia degli assiri; la quale finora, senza il precorso di tante e sí varie cagioni, che le dovevano precedere per provenirvi la forma monarchica, ch’è l’ultima delle tre forme de’ governi civili, esce sulla storia tutta nata ad un tratto, come nasce, piovendo l’está, una ranocchia.

[739] In questa guisa la cronologia ella ci vien accertata de’ suoi tempi col progresso de’ costumi e de’ fatti, co’ quali ha dovuto camminare il gener umano. Perché, per una degnitá sopra posta, ella qui ha incominciato la sua dottrina dond’ebbe incominciamento la sua materia: da Χρόνος, Saturno (onde da’ greci fu detto χρόνος il tempo), numeratore degli anni con le raccolte, e da Urania, contemplatrice del cielo, affin di prender gli augúri, e da Zoroaste, contemplatore degli astri per dar gli oracoli dal tragitto delle stelle cadenti (che furon i primi μαθήματα, i primi θεωρήματα, le prime cose sublimi o divine che contemplarono ed osservaron le nazioni, come si è sopra detto); e poi, col salire Saturno nella settima sfera, indi Urania divenne contemplatrice de’ pianeti e degli astri, e i caldei, con l’agio delle lor immense pianure, divennero astronomi ed astrologhi, col misurarne i lor moti e contemplarne i di lor aspetti, ed immaginarne gl’influssi sopra i corpi che dicono «sublunari» ed anco, vanamente, sopra le libere volontá degli uomini. Alla qual scienza restaron i primi nomi, che l’erano stati dati con tutta propietá: uno di «astronomia» o sia scienza delle leggi degli astri, l’altro di «astrologia» o sia scienza del parlare degli astri, l’uno e l’altro in significato di «divinazione», come da que’ «teoremi» funne detta «teologia» la scienza del parlar degli dèi ne’ lor oracoli, auspíci e augúri. Onde, finalmente, la mattematica scese a misurare la terra, le cui misure non si potevan accertare che da quelle dimostrate del cielo, e la prima e principale sua parte si portò il propio nome, col qual è detta «geometria».

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[740] Perché, adunque, non ne incominciarono la dottrina donde aveva incominciato la materia ch’essi trattavano — perché incominciano dall’anno astronomico, il quale, come sopra si è detto, non nacque tralle nazioni che dopo almeno un mille anni, e che non poteva accertargli d’altro che delle congiunzioni ed opposizioni che le costellazioni e i pianeti si avessero fatti nel cielo, ma nulla delle cose che con proseguito corso fussero succedute qui in terra (nello che andò a perdersi il generoso sforzo di Piero cardinal d’Alliac) — perciò tanto poco han fruttato a pro de’ princípi e della perpetuitá della storia universale (de’ quali dopo essi tuttavia pur mancava) i due maravigliosi ingegni, con la loro stupenda erudizione, Giuseppe Giusto Scaligero nella sua Emendazione e Dionigi Petavio nella sua Dottrina de’ tempi.

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[SEZIONE UNDECIMA] [Geografia poetica]


[Capitolo Primo]
Della geografia poetica

[741] Or ci rimane finalmente di purgare l’altro occhio della storia poetica, ch’è la poetica geografia, la quale, per quella propietá di natura umana, che noi noverammo tralle Degnitá, che «gli uomini le cose sconosciute e lontane, ov’essi non ne abbian avuto la vera idea o la debbano spiegar a chi non l’ha, le descrivono per somiglianze di cose conosciute e vicine», ella, nelle sue parti ed in tutto il suo corpo, nacque con picciol’idee dentro la medesima Grecia, e, coll’uscirne i greci poi per lo mondo, s’andò ampliando nell’ampia forma nella qual ora ci è rimasta descritta. E i geografi antichi convengono in questa veritá, ma poi non ne sepper far uso; i quali affermano che le antiche nazioni, portandosi in terre straniere e lontane, diedero i nomi natii alle cittá, a’ monti, a’ fiumi, colli di terra, stretti di mare, isole e promontori.

[742] Nacquero, adunque, entro Grecia la parte orientale, detta Asia o India; l’occidentale, detta Europa o Esperia; il settentrione, detto Tracia o Scizia; il mezzodí, detto Libia o Mauritania; e furono cosí appellate le parti del mondo co’ nomi delle parti del picciol mondo di Grecia per la somiglianza de’ siti, ch’osservaron i greci in quelle, a riguardo del mondo, simili a queste, a riguardo di Grecia. Pruova evidente di ciò

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sieno i venti cardinali, i quali, nella loro geografia, ritengono i nomi che dovettero certamente avere la prima volta dentro essa Grecia. Talché le giumente di Reso debbono ne’ lidi dell’Oceano (qual or or vedremo detto dapprima ogni mare d’interminato prospetto) essere state ingravidate da Zefiro, vento occidentale di Grecia; e pur ne’ lidi dell’Oceano (nella prima significazione, la quale testé si è detta) devon essere da Zefiro generati i cavalli d’Achille; come le giumente d’Erictonio dic’Enea ad Achille essere state ingravidate da Borea, dal vento settentrionale della Grecia medesima. Questa veritá de’ venti cardinali ci è confermata in un’immensa distesa: che le menti greche, in un’immensa distesa spiegandosi, dal loro monte Olimpo, dove a’ tempi d’Omero se ne stavano i dèi, diedero il nome al cielo stellato, che gli restò.

[743] Posti questi princípi, alla gran penisola situata nell’oriente di Grecia restò il nome d’Asia minore, poi che ne passò il nome d’«Asia» in quella gran parte orientale del mondo ch’Asia ci restò detta assolutamente. Per lo contrario, essa Grecia, ch’era occidente a riguardo dell’Asia, fu detta «Europa», che Giove, cangiato in toro, rapí: poi il nome d’«Europa» si stese in quest’altro gran continente fin all’oceano occidentale. Dissero «Esperia» la parte occidentale di Grecia, dove entro la quarta parte dell’orizzonte sorge la sera la stella Espero; poi videro l’Italia nel medesimo sito, ma molto maggiore di quella di Grecia, e la chiamaron «Esperia magna»; si stesero finalmente nella Spagna nel medesimo sito, e la chiamaron «Esperia ultima». I greci d’Italia, al contrario, dovettero chiamar «Ionia» la parte a lor riguardo orientale di Grecia oltramare, e restonne il nome, tra l’una e l’altra Grecia, di «mar Ionio»: poi, per la somiglianza del sito delle due Grecie, natia ed asiatica, i greci natii chiamaron «Ionio» la parte a lor riguardo orientale dell’Asia minore. E dalla prima Ionia è ragionevole che fusse in Italia venuto Pittagora da Samo, una dell’isole signoreggiate da Ulisse, non da Samo dell’Ionia seconda.

[744] Dalla Tracia natia venne Marte, che fu certamente deitá greca; e quindi dovette venir Orfeo, un de’ primi poeti greci teologi.

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[745] Dalla Scizia greca venne Anacarsi, che lasciò in Grecia gli oracoli scitici, che dovetter esser simili agli oracoli di Zoroaste (che bisognò fusse stata dapprima una storia d’oracoli), onde Anacarsi è stato ricevuto tra gli antichissimi dèi fatidici. I quali oracoli dall’impostura poi furono trasportati in dogmi di filosofia; siccome gli Orfici ci furon supposti versi fatti da Orfeo, i quali, come gli oracoli di Zoroaste, nulla sanno di poetico e dánno troppo odore di scuola platonica e pittagorica. Perciò da questa Scizia, per gl’iperborei natii, dovettero venir in Grecia i due famosi oracoli delfico e dodoneo, come ne dubitammo nell’Annotazioni alla Tavola cronologica; per che Anacarsi nella Scizia, cioè tra questi iperborei natii di Grecia, volendo ordinare l’umanitá con le greche leggi, funne ucciso da Caduvido, suo fratello. Tanto egli profittò nella filosofia barbaresca dell’Ornio, che non seppe ritruovargliele dappersé! Per le quali ragioni, quindi, dovett’essere pur scita Abari, che si dice avere scritto gli oracoli scitici, che non poteron esser altri che gli detti testé d’Anacarsi; e gli scrisse nella Scizia, nella quale Idantura, molto tempo venuto dopo, scriveva con esse cose. Onde necessariamente è da credersi essere stati scritti da un qualche impostore de’ tempi dopo essere state introdutte le greche filosofie. E quindi gli oracoli d’Anacarsi dalla boria de’ dotti furono ricevuti per oracoli di sapienza riposta, i quali non ci sono pervenuti.

[746] Zamolsci fu Geta (come Geta fu Marte), il qual, al riferire d’Erodoto, portò a’ greci il dogma dell’immortalitá dell’anima.

[747] Cosí da alcun’India greca dovette Bacco venire dall’indico Oriente trionfatore (da alcuna greca terra ricca d’oro poetico), e Bacco ne trionfa sopra un carro d’oro (di frumento); onde lo stesso è domatore di serpenti e di tigri, qual Ercole d’idre e lioni, come si è sopra spiegato.

[748] Certamente il nome, che ’l Peloponneso serba fin a’ nostri dí, di «Morea» troppo ci appruova che Perseo, eroe certamente greco, fece le sue imprese nella Mauritania natia; perché ’l Peloponneso tal è per rapporto all’Acaia qual è l’Affrica per rapporto all’Europa. Quindi s’intenda quanto nulla Erodoto

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seppe delle sue propie antichitá (come gliene riprende Tucidide), il quale narra ch’i mori un tempo furono bianchi, quali certamente erano i mori della sua Grecia, la quale fin oggi si dice «Morea bianca».

[749] Cosí dev’esser avvenuto che dalla pestilenza di questa Mauritania avesse Eusculapio con la sua arte preservato la sua isola di Coo; ché, se la doveva preservare da quella de’ popoli di Marocco, egli l’arebbe dovuto preservare da tutte le pestilenze del mondo.

[750] In cotal Mauritania dovett’Ercole soccombere al peso del cielo, che ’l vecchio Atlante era giá stanco di sostenere: ché dovette dapprima dirsi cosí il monte Ato, che, per un collo di terra, che Serse dappoi forò, divide la Macedonia dalla Tracia, e vi restò pur quivi, tralla Grecia e la Tracia, un fiume appellato Atlante; poscia, nello stretto di Gibilterra, osservati i monti Abila e Calpe cosí per uno stretto di mare dividere l’Affrica dall’Europa, furono dette da Ercole ivi piantate colonne, che, come abbiamo sopra detto, sostenevano il cielo, e ’l monte nell’Affrica quivi vicino fu detto «Atlante». E ’n cotal guisa può farsi verisimile la risposta ch’appo Omero fa la madre Teti ad Achille: che non poteva portare la di lui querela a Giove, perch’era da Olimpo ito con gli altri dèi a banchettare in Atlante (sull’oppenione, che sopra abbiam osservato, che gli dèi se ne stassero sulle cime degli altissimi monti); ché, se fusse stato il monte Atlante nell’Affrica, era troppo difficile a credersi, quando il medesimo Omero dice che Mercurio, quantunque alato, difficilissimamente pervenne nell’isola di Calipso, posta nel mar fenicio, ch’era molto piú vicino alla Grecia che non lo regno ch’or dicesi di Marocco.

[751] Cosí dall’Esperia greca dovett’Ercole portare le poma d’oro nell’Attica, ove furono pure le ninfe esperidi (ch’eran figliuole d’Atlante), che le serbavano.

[752] Cosí l’Eridano, dove cadde Fetonte, dev’essere stato, nella Tracia greca, il Danubio, che va a mettere nel mar Eusino: poi, osservato da’ greci il Po, che, come il Danubio, è l’altro fiume al mondo che corre da occidente verso oriente, fu da essi il Po

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detto «Eridano», e i mitologi fecero cader Fetonte in Italia. Ma le cose della storia eroica solamente greca, e non dell’altre nazioni, furono affisse alle stelle, tralle quali è l’Eridano.

[753] Finalmente, usciti i greci nell’Oceano, vi distesero la brieve idea d’ogni mare che fosse d’interminato prospetto (onde Omero diceva l’isola Eolia esser cinta dall’Oceano) e, con l’idea, il nome, ch’or significa il mare che cinge tutta la terra, che si crede esser una grand’isola. E si ampliò all’eccesso la potestá di Nettunno, che dall’abisso dell’acque, che Platone pose nelle di lei viscere, egli col gran tridente faccia tremare la terra: i rozzi princípi della qual fisica sono stati sopra da noi spiegati.

[754] Tali princípi di geografia assolutamente possono giustificar Omero di gravissimi errori, che gli sono a torto imputati.

[755] I. Ch’i lotofagi d’Omero, che mangiavano cortecce d’una pianta ch’è detto «loto», fussero stati piú vicini, ove dice che Ulisse da Malea a’ lotofagi pose un viaggio di nove giorni. Ché, se sono i lotofagi, quali restaron detti, fuori dello stretto di Gibilterra, doveva in nove giorni far un viaggio impossibile, nonché difficile a credersi: il qual errore gli è notato da Eratostene.

[756] II. Ch’i lestrigoni, a’ tempi d’Omero, fussero stati popoli di essa Grecia, ch’ivi avessero i giorni piú lunghi, non quelli che l’avessero piú lunghi sopra tutti i popoli della terra; il qual luogo indusse Arato a porgli sotto il capo del Dragone. Certamente Tucidide, scrittore grave ed esatto, narra i lestrigoni in Sicilia, che dovetter esser i popoli piú settentrionali di quell’isola.

[757] III. Per quest’istesso, i cimmeri ebbero le notti piú lunghe sopra tutti i popoli della Grecia, perch’erano posti nel di lei piú alto settentrione, e perciò, per le loro lunghe notti, furono detti abitare presso l’inferno (de’ quali poi si portò lontanissimo il nome a’ popoli abitatori della palude Meotide); e quindi i cumani, perch’eran posti presso la grotta della Sibilla, che portava all’inferno, per la creduta somiglianza di sito dovettero dirsi «cimmeri». Perché non è credibile che Ulisse, mandato da Circe senz’alcun incantesimo (perché

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Mercurio gli aveva dato un segreto contro le stregonerie di Circe, com’abbiamo sopra osservato), in un giorno fusse andato da’ cimmeri i quali restarono cosí detti a vedere l’inferno, e nello stesso giorno fusse ritornato da quello in Circei, ora detto Monte Circello, che non è molto distante da Cuma.

[758] Con questi stessi princípi della geografia poetica greca si possono solvere molte grandi difficultá della storia antica dell’Oriente, ove son presi per lontanissimi popoli, particolarmente verso settentrione e mezzodí, quelli che dovettero dapprima esser posti dentro l’Oriente medesimo.

[759] Perché questo, che noi diciamo della geografia poetica greca, si truova lo stesso nell’antica geografia de’ latini. Il Lazio dovette dapprima essere ristrettissimo, ché, per dugencinquanta anni di regno, Roma manomise ben venti popoli e non distese piú che venti miglia, come sopra abbiam detto, l’imperio. L’Italia fu certamente circoscritta da’ confini della Gallia cisalpina e da quelli di Magna Grecia: poi, con le romane conquiste, ne distese il nome nell’ampiezza nella quale tuttavia dura. Cosí il mar toscano dovett’esser assai picciolo nel tempo che Orazio Coclite solo sostenne tutta Toscana sul ponte: poi, con le vittorie romane, si è disteso quanto è lunga questa inferior costa d’Italia.

[760] Alla stessa fatta e non altrimente, il primo Ponto, dove fece la sua spedizione navale Giasone, dovett’essere la terra piú vicina all’Europa, da cui la divide lo stretto di mare detto Propontide; la qual terra dovette dar il nome al mar pontico, che poi si distese dove piú s’addentra nell’Asia, ove fu poi il regno di Mitridate. Perché Eeta, padre di Medea, da questa stessa favola ci si narra esser nato in Calcide, cittá d’Eubea, isola posta dentro essa Grecia, la qual ora chiamasi Negroponto, che dovette dare il primo nome a quel mare, il quale certamente Mar Nero ci restò detto. La prima Creta dovett’esser un’isola dentro esso Arcipelago, dov’è il labirinto dell’isole ch’abbiamo sopra spiegato, e quindi dovette Minosse celebrare i corseggi sopra gli ateniesi: poi Creta uscí nel Mediterraneo, che ci restò.

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[761] Or, cosí da’ latini avendoci richiamati i greci, essi, con uscir per lo mondo (gli uomini boriosi!), sparsero dappertutto la fama della guerra troiana e degli error degli eroi, cosí troiani, quali d’Antenore, di Capi, d’Enea, come greci, quali di Menelao, di Diomede, d’Ulisse. Osservarono per lo mondo sparso un carattere di fondatori di nazioni simigliante a quello del lor Ercole che fu detto tebano, e vi sparsero il nome del loro Ercole, de’ quali Varrone per le nazioni antiche noverò ben quaranta, de’ quali il latino afferma essere stato detto «dio Fidio». Cosí avvenne che, per la stessa boria degli egizi (che dicevano il loro Giove Ammone essere lo piú antico di tutti gli altri del mondo, e tutti gli Ercoli dell’altre nazioni aver preso il nome dal lor Ercole egizio, per due degnitá che se ne sono sopra proposte, siccome quelli che con errore credevano essere la nazione piú antica di tutte l’altre del mondo), i greci fecero andar il lor Ercole per tutte le parti della terra, purgandola de’ mostri, per riportarne solamente la gloria in casa.

[762] Osservarono esservi stato un carattere poetico di pastori che parlavano in versi, ch’appo essi era stato Evandro arcade; e cosí Evandro venne da Arcadia nel Lazio, e vi ricevette ad albergo l’Ercole suo natio, e vi prese Carmenta in moglie, detta da’ «carmi», da’ versi, la qual a’ latini truovò le lettere, cioè le forme de’ suoni che si dicono «articolati», che sono la materia de’ versi. E finalmente, in confermazione di tutte le cose qui dette, osservarono tai caratteri poetici dentro del Lazio, alla stessa fatta, come sopra abbiam veduto, che truovarono i loro cureti sparsi in Saturnia (o sia nell’antica Italia), in Creta ed in Asia.

[763] Ma come tali greche voci e idee sieno pervenute a’ latini in tempi sommamente selvaggi, ne’ quali le nazioni erano chiuse a’ stranieri, quando Livio niega ch’a’ tempi di Servio Tullio, nonché esso Pittagora, il di lui famosissimo nome, per mezzo a tante nazioni, di lingue e di costumi diverse, avesse da Cotrone potuto giugner a Roma; per questa difficultá appunto noi sopra domandammo in un postulato, perché ne portavamo

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necessaria congettura, che vi fusse stata alcuna cittá greca nel lido del Lazio, e che poi si fusse seppellita nelle tenebre dell’antichitá, la qual avesse insegnato a’ latini le lettere, le quali, come narra Tacito, furono dapprima somiglianti alle piú antiche de’ greci. Lo che è forte argomento ch’i latini ricevettero le lettere greche da questi greci del Lazio, non da quelli di Magna Grecia, e molto meno della Grecia oltramare, co’ quali non si conobbero che dal tempo della guerra di Taranto, che portò appresso quella di Pirro: perché, altrimente, i latini arebbono usato le lettere ultime de’ greci, e non ritenute le prime, che furono l’antichissime greche.

[764] Cosí i nomi d’Ercole, d’Evandro, d’Enea, da Grecia entrarono nel Lazio per questi seguenti costumi delle nazioni:

[765] Prima, perché, siccome, nella loro barbarie, amano i costumi loro natii, cosí, da che incominciano a ingentilirsi, come delle mercatanzie e delle fogge straniere, cosí si dilettano degli stranieri parlari; e perciò scambiarono il loro dio Fidio con l’Ercole de’ greci, e, per lo giuramento natio «medius fidius», introdussero «mehercule», «edepol», «mecastor».

[766] Dipoi, per quella boria, tante volte detta, c’hanno le nazioni di vantar origini romorose straniere, particolarmente ove ne abbian avuto da’ loro tempi barbari alcun motivo di crederle (siccome, nella barbarie ritornata, Gian Villani narra Fiesole essere stata fondata da Atlante, e che in Germania regnò un re Priamo troiano), perciò i latini volontieri sconobbero Fidio, vero lor fondatore, per Ercole, vero fondatore de’ greci, e scambiarono il carattere de’ loro pastori poeti con Evandro d’Arcadia.

[767] In terzo luogo, le nazioni, ov’osservano cose straniere, che non possono certamente spiegare con voci loro natie, delle straniere necessariamente si servono.

[768] Quarto e finalmente, s’aggiugne la propietá de’ primi popoli, che sopra nella Logica poetica si è ragionata, di non saper astrarre le qualitá da’ subbietti, e, non sappiendole astrarre, per appellare le qualitá appellavan essi subbietti. Di che abbiamo ne’ favellari latini troppo certi argomenti.

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[769] Non sapevano i romani cosa fusse lusso: poi che l’osservarono ne’ tarantini, dissero «tarantino» per «profumato». Non sapevano cosa fussero stratagemmi militari: poi che l’osservarono ne’ cartaginesi, gli dissero «punicas artes». Non sapevano cosa fusse fasto: poi che l’osservarono ne’ capovani, dissero «supercilium campanicum» per dire «fastoso» o «superbo». Cosí Numa ed Anco furon «sabini», perché non sapevano dire «religioso», nel qual costume eran insigni i sabini. Cosí Servio Tullio fu «greco», perché non sapevano dir «astuto», la qual idea dovettero mutoli conservare finché poi conobbero i greci della cittá da essi vinta ch’or noi diciamo; e fu detto anco «servo», perché non sapevano dir «debole», ché rillasciò il dominio bonitario de’ campi a’ plebei con portar loro la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato, onde forse funne fatto uccider da’ padri. Perché l’astuzia è propietá che siegue alla debolezza, i quali costumi erano sconosciuti alla romana apertezza e virtú. Ché, invero, è una gran vergogna che fanno alla romana origine, e di troppo offendono la sapienza di Romolo fondatore, [coloro che affermano] non aver avuto Roma dal suo corpo eroi da crearvi re, infino che dovette sopportare il regno d’uno vil schiavo. Onore che gli han fatto i critici occupati sugli scrittori, somigliante all’altro, che seguí appresso, che, dopo aver fondato un potente imperio nel Lazio e difesolo da tutta la toscana potenza, han fatto andar i romani come barbari eslegi per l’Italia, per la Magna Grecia e per la Grecia oltramare, cercando leggi da ordinare la loro libertá, per sostenere la riputazione alla favola della legge delle XII Tavole venuta in Roma da Atene.

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[Capitolo Secondo]
Corollario
della venuta d’Enea in Italia

[770] Per tutto lo fin qui ragionato si può dimostrare la guisa com’Enea venne in Italia e fondò la gente romana in Alba, dalla qual i romani traggon l’origine: che una sí fatta cittá greca posta nel lido del Lazio fusse cittá greca dell’Asia, dove fu Troia, sconosciuta a’ romani finché da mezzo terra stendessero le conquiste nel mar vicino; ch’a far incominciarono da Anco Marzio, terzo re de’ romani, il quale vi die’ principio da Ostia, la cittá marittima piú vicina a Roma, tanto che, questa poscia a dismisura ingrandendo, ne fece finalmente il suo porto. E ’n cotal guisa, come avevano ricevuto gli arcadi latini, ch’erano fuggiaschi di terra, cosí poi ricevettero i frigi, i quali erano fuggiaschi di mare, nella loro protezione, e per diritto eroico di guerra demolirono la cittá. E cosí arcadi e frigi, con due anacronismi, gli arcadi con quello de’ tempi posposti e i frigi con quello de’ prevertiti, si salvarono nell’asilo di Romolo.

[771] Che se tali cose non andaron cosí, l’origine romana da Enea sbalordisce e confonde ogn’intendimento, come nelle Degnitá l’avvisammo; talché, per non isbalordirsi e confondersi, i dotti, da Livio incominciando, la tengon a luogo di favola, non avvertendo che, com’abbiam nelle Degnitá detto sopra, le favole debbon aver avuto alcun pubblico motivo di veritá. Perché egli è Evandro sí potente nel Lazio, che vi riceve ad albergo Ercole da cinquecento anni innanzi la fondazione di Roma; ed Enea fonda la casa reale d’Alba, la quale per quattordici re cresce in tanto lustro, che diviene la capitale del Lazio; e gli arcadi e i frigi, per tanto tempo vagabondi, si ripararono finalmente all’asilo di Romolo! Come da

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Arcadia, terra mediterranea di Grecia, pastori, che per natura non sanno cosa sia mare, ne valicarono tanto tratto e penetrarono in mezzo del Lazio, quando Anco Marzio, terzo re dopo Romolo, fu egli il primo che menò una colonia nel mar vicino? e vi vanno, insieme co’ frigi dispersi, dugento anni innanzi che nemmeno il nome di Pittagora, celebratissimo nella Magna Grecia, a giudizio di Livio, arebbe, per mezzo a tante nazioni, di lingue e di costumi diverse, da Cotrone potuto giugner a Roma? e quattrocento anni innanzi ch’i tarantini non sapevano chi si fussero i romani, giá potenti in Italia?

[772] Ma pure, come piú volte abbiam detto, per una delle degnitá sopra poste, queste tradizioni volgari dovettero da principio avere de’ grandi pubblici motivi di veritá, perché l’ha conservate per tanto tempo tutta una nazione. Che dunque? Bisogna dire che alcuna cittá greca fusse stata nel lido del Lazio, come tante altre ve ne furono e duraron appresso ne’ lidi del Mar Tirreno; la qual cittá innanzi della legge delle XII Tavole fusse stata da’ romani vinta, e per diritto eroico delle vittorie barbare fussesi demolita, e i vinti ricevuti in qualitá di soci eroici; e che, per caratteri poetici, cosí cotesti greci dissero «arcadi» i vagabondi di terra ch’erravano per le selve, «frigi» quelli per mare, come i romani i vinti ed arresi loro dissero «ricevuti nell’asilo di Romolo», cioè in qualitá di giornalieri, per le clientele ordinate da Romolo quando nel luco aprí l’asilo a coloro i quali vi rifuggivano. Sopra quali vinti ed arresi (che supponiamo nel tempo tra lo discacciamento degli re e la legge delle XII Tavole) i plebei romani dovetter esser distinti con la legge agraria di Servio Tullio, ch’aveva permesso loro il dominio bonitario de’ campi; del quale non contentandosi, voleva Coriolano, come sopra si è detto, ridurre [essi plebei] a’ giornalieri di Romolo. E poscia, buccinando dappertutto i greci la guerra troiana e gli errori degli eroi, e per l’Italia quelli d’Enea, come vi avevano osservato innanzi il lor Ercole, il lor Evandro, i loro cureti (conforme si è sopra detto), in cotal guisa, a capo di tempo, che tali tradizioni per mano di gente barbara s’eran alterate e finalmente corrotte; in cotal guisa

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diciamo, Enea divenne fondatore della romana gente nel Lazio: il quale il Bocharto vuole che non mise mai piede in Italia, Strabone dice che non uscí mai da Troia, ed Omero, c’ha qui piú peso, narra ch’egli ivi morí e vi lasciò il regno a’ suoi posteri. Cosí, per due borie diverse di nazioni — una de’ greci, che per lo mondo fecero tanto romore della guerra di Troia; l’altra de’ romani, di vantare famosa straniera origine, — i greci v’intrusero, i romani vi ricevettero finalmente Enea fondatore della gente romana.

[773] La qual favola non poté nascere che a’ tempi della guerra con Pirro, da’ quali i romani incominciarono a dilettarsi delle cose de’ greci; perché tal costume osserviamo celebrarsi dalle nazioni dopo c’hanno molto e lungo tempo praticato con istranieri.

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[Capitolo Terzo]
Della nominazione e descrizione delle cittá eroiche

[774] Ora, perché sono parti della geografia la nomenclatura e la corografia, o sieno nominazione e descrizione de’ luoghi, principalmente delle cittá, per compimento della sapienza poetica ci rimane di queste da ragionare.

[775] Se n’è detto sopra che le cittá eroiche si ritruovarono dalla provvedenza fondate in luoghi di forti siti, che gli antichi latini con vocabolo sagro, ne’ loro tempi divini, dovettero chiamare «aras» e appellar anco «arces» tai luoghi forti di sito, perché ne’ tempi barbari ritornati da «rocce», rupi erte e scoscese, si dissero poi le «ròcche», e quindi «castella» le signorie. E, alla stessa fatta, tal nome di «are» si dovette stendere a tutto il distretto di ciascun’eroica cittá, il quale, come sopra si è osservato, si disse «ager» in ragionamento di «confini con istranieri» e «territorium» in ragionamento di «giurisdizione sui cittadini». Di tutto ciò vi ha un luogo d’oro appo Tacito ove descrive l’ara massima d’Ercole in Roma, il quale, perché troppo gravemente appruova questi princípi, rapportiamo qui intiero: «Igitur a foro boario, ubi aeneum bovis simulacrum adspicimus, quia id genus animalium aratro subditur, sulcus designandi oppidi captus, ut magnam Herculis aram complecteretur, ara Herculis erat»; — un altro pur d’oro appresso Sallustio, ove narra la famosa ara de’ fratelli Fileni rimasta per confine dell’imperio cartaginese e del cirenaico.

[776] Di sí fatte are è sparsa tutta l’antica geografia. E, incominciando dall’Asia, osserva il Cellari nella sua Antica geografia che tutte le cittá della Siria si dissero «are» con innanzi o dopo i loro propi vocaboli, ond’essa Siria se ne disse Aramea ed Aramia. Ma nella Grecia fondò Teseo la cittá d’Atene sul

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famoso altare degl’infelici, estimando con la giusta idea d’«infelici» gli uomini eslegi ed empi, che dalle risse della infame comunione ricorrevano alle terre forti de’ forti, come sopra abbiam detto, tutti soli, deboli e bisognosi di tutti i beni ch’aveva a’ pii produtto l’umanitá; onde da’ greci si disse ἄρα anco il «voto». Perché, come pur sopra abbiam ragionato, sopra tali prime are del gentilesimo le prime ostie, le prime vittime (dette «Saturni hostiae», come sopra vedemmo), i primi ἀναθήματα (ch’in latino si trasportano «diris devoti»), che furono gli empi violenti, ch’osavano entrare nelle terre arate de’ forti per inseguire i deboli, che per campare da essi vi rifuggivano (ond’è forse detto «campare» per «salvarsi»), quivi essi da Vesta vi erano consagrati ed uccisi; e ne restò a’ latini «supplicium» per significare «pena» e «sagrifizio», ch’usa fra gli altri Sallustio. Nelle quali significazioni troppo acconciamente a’ latini rispondono i greci, a’ quali la voce ἄρα, che, come si è detto, vuol dire «votum», significa altresí «noxa», ch’è ’l corpo c’ha fatto il danno, e significa «dirae», che son esse Furie, quali appunto erano questi primi devoti che qui abbiam detto (e piú ne diremo nel libro quarto), ch’erano consagrati alle Furie e dappoi sagrificati sopra questi primi altari della gentilitá. Talché la voce «hara», che ci restò a significare la «mandria», dovette agli antichi latini significare la «vittima»: dalla qual voce certamente è detto «aruspex» l’indovinatore, dall’interiora delle vittime uccise innanzi agli altari.

[777] E da ciò che testé si è detto dell’ara massima d’Ercole, dovette Romolo sopra un’ara somigliante a quella di Teseo fondar Roma dentro l’asilo aperto nel luco, perché restò a’ latini che nommai mentovassero luco o bosco sagro, ch’ivi non fusse alcun’ara alzata a qualche divinitá. Talché per quello [che] Livio ci disse sopra generalmente, che gli asili furono «vetus urbes condentium consilium», ci si scuopre la ragione perché nell’antica geografia si leggono tante cittá col nome di «are». Laonde bisogna confessare che da Cicerone con iscienza di quest’antichitá il senato fu detto «ara sociorum», perocché al senato portavano le provincie le querele di sindacato contro i

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governadori ch’avaramente l’avevano governate, richiamandone l’origine da questi primi soci del mondo.

[778] Giá dunque abbiamo dimostro dirsi «are» le cittá eroiche nell’Asia e, per l’Europa, in Grecia e in Italia. Nell’Affrica restò, appo Sallustio, famosa l’ara de’ fratelli Fileni poc’anzi detta. Nel Settentrione, ritornando in Europa, tuttavia si dicono «are de’ cicoli», nella Transilvania, le cittá abitate da un’antichissima nazione unna, tutta di nobili contadini e pastori, che con gli ungheri e sassoni compongono quella provincia. Nella Germania, appo Tacito, si legge l’«ara degli ubi». In Ispagna ancor dura a molte il nome di «ara». Ma in lingua siriaca la voce «ari» vuol dir «lione»; e noi sopra, nella teogonia naturale delle dodici maggiori divinitá, dimostrammo che dalla difesa dell’are nacque a’ greci l’idea di Marte, che loro si dice Ἄρης; talché, per la stessa idea di fortezza, ne’ tempi barbari ritornati tante cittá e case nobili caricano di lioni le lor insegne. Cotal voce, di suono e significato uniforme in tante nazioni, per immensi tratti di luoghi e tempi e costumi tra lor divise e lontane, dovette dar a’ latini la voce «aratrum», la cui curvatura si disse «urbs». E quindi a’ medesimi dovettero venire e «arx» e «arceo», dond’è «ager arcifinius» agli scrittori de limitibus agrorum; e dovettero venir altresí le voci «arma» e «arcus», riponendo, con giusta idea, la fortezza in arretrare e tener lontana l’ingiuria.

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[CONCLUSIONE]

[779] Ed ecco la sapienza poetica dimostrata meritar con giustizia quelle due somme e sovrane lodi: delle quali una certamente e con costanza l’è attribuita, d’aver fondato il gener umano della gentilitá, che le due borie, l’una delle nazioni, l’altra de’ dotti, quella con l’idee di una vana magnificenza, questa con l’idee d’un’importuna sapienza filosofica, volendogliele affermare, gliel’hanno piú tosto niegata; l’altra, della quale pure una volgar tradizione n’è pervenuta, che la sapienza degli antichi faceva i suoi saggi, con uno spirito, egualmente grandi filosofi e legislatori e capitani ed istorici ed oratori e poeti, ond’ella è stata cotanto disiderata. Ma quella gli fece o, piú tosto, gli abbozzò tali, quali l’abbiamo truovati dentro le favole, nelle quali, com’in embrioni o matrici, si è discoverto essere stato abbozzato tutto il sapere riposto; che puossi dire dentro di quelle per sensi umani essere stati dalle nazioni rozzamente descritti i princípi di questo mondo di scienze, il quale poi con raziocini e con massime ci è stato schiarito dalla particolare riflessione de’ dotti. Per lo che tutto, si ha ciò che ’n questo libro dovevasi dimostrare: che i poeti teologi furono il senso, i filosofi furono l’intelletto dell’umana sapienza.