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Giambattista Vico: Opere
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IV-1: La Scienza Nuova (I) (giusta l'edizione del 1744)
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Principj di Scienza Nuova
LIBRO PRIMO dello stabilimento de’ princípi
[SEZIONE TERZA] De’ princípi

[SEZIONE TERZA] De’ princípi

[330] Ora, per fare sperienza se le proposizioni noverate finora per elementi di questa Scienza debbano dare la forma alle materie apparecchiate nel principio sulla Tavola cronologica, preghiamo il leggitore che rifletta a quanto si è scritto d’intorno a’ princípi di qualunque materia di tutto lo scibile divino ed umano della gentilitá, e combini se egli faccia sconcezza con esse proposizioni, o tutte o piú o una; perché tanto si è con una quanto sarebbe con tutte, perché ogniuna di quelle fa acconcezza con tutte. Ché certamente egli, faccendo cotal confronto, s’accorgerá che sono tutti luoghi di confusa memoria, tutte immagini di mal regolata fantasia, e niun essere parto d’intendimento, il qual è stato trattenuto ozioso dalle due borie che nelle Degnitá noverammo. Laonde, perché la boria delle nazioni, d’essere stata ogniuna la prima del mondo, ci disanima di ritruovare i princípi di questa Scienza da’ filologi; altronde la boria de’ dotti, i quali vogliono ciò ch’essi sanno essere stato eminentemente inteso fin dal principio del mondo, ci dispera di ritruovargli da’ filosofi. Quindi, per questa ricerca, si dee far conto come se non vi fussero libri nel mondo.

[331] Ma, in tal densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichitá, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa veritá, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princípi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana.

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Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto da quella miseria, la qual avvertimmo nelle Degnitá, della mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima, come l’occhio corporale che vede tutti gli obbietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso.

[332] Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuitá convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princípi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte [le nazioni] sursero e tutte vi si conservano in nazioni.

[333] Osserviamo tutte le nazioni cosí barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con piú ricercate cerimonie e piú consegrate solennitá che religioni, matrimoni e sepolture. Ché, per la degnitá che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero», dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanitá, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi princípi di questa Scienza.

[334] Né ci accusino di falso il primo i moderni viaggiatori, i quali narrano che popoli del Brasile, di Cafra ed altre nazioni

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del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo crede lo stesso degli abitatori dell’isole chiamate Antille) vivano in societá senza alcuna cognizione di Dio; da’ quali forse persuaso, Bayle afferma nel Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia; che tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s’acclama: che, se fussero al mondo filosofi, che ’n forza della ragione non delle leggi vivessero con giustizia, al mondo non farebber uopo religioni. Queste sono novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a’ loro libri con mostruosi ragguagli. Certamente Andrea Rudigero nella sua Fisica magnificamente intitolata divina, che vuole che sia l’unica via di mezzo tra l’ateismo e la superstizione, egli da’ censori dell’universitá di Genevra (nella qual repubblica, come libera popolare, dee essere alquanto piú di libertá nello scrivere) è di tal sentimento gravemente notato che «’l dica con troppo di sicurezza», ch’è lo stesso dire che con non poco d’audacia. Perché tutte le nazioni credono in una divinitá provvedente, onde quattro e non piú si hanno potuto truovare religioni primarie per tutta la scorsa de’ tempi e per tutta l’ampiezza di questo mondo civile: una degli ebrei, e quindi altra de’ cristiani, che credono nella divinitá d’una mente infinita libera; la terza de’ gentili, che la credono di piú dèi, immaginati composti di corpo e di mente libera, onde, quando vogliono significare la divinitá che regge e conserva il mondo, dicono «deos immortales»; la quarta ed ultima de’ maomettani, che la credono d’un dio infinita mente libera in un infinito corpo, perché aspettano piaceri de’ sensi per premi nell’altra vita.

[335] Niuna credette in un dio tutto corpo o pure in un dio tutto mente la quale non fusse libera. Quindi né gli epicurei, che non dánno altro che corpo e, col corpo, il caso, né gli stoici, che dánno Dio in infinito corpo infinita mente soggetta al fato (che sarebbero per tal parte gli spinosisti), poterono ragionare di repubblica né di leggi, e Benedetto Spinosa parla di repubblica come d’una societá che fusse di mercadanti. Per lo che aveva la ragion Cicerone, il qual ad Attico, perch’egli era epicureo, diceva non poter esso con lui ragionar delle leggi, se

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quello non gli avesse conceduto che vi sia provvedenza divina. Tanto le due sètte stoica ed epicurea sono comportevoli con la romana giurisprudenza, la quale pone la provvedenza divina per principal suo principio!

[336] L’oppenione poi ch’i concubiti, certi di fatto, d’uomini liberi con femmine libere senza solennitá di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, ella da tutte le nazioni del mondo è ripresa di falso con essi costumi umani, co’ quali tutte religiosamente celebrano i matrimoni e con essi diffiniscono che, ’n grado benché rimesso, sia tal peccato di bestia. Perciocché, quanto è per tali genitori, non tenendogli congionti niun vincolo necessario di legge, essi vanno a disperdere i loro figliuoli naturali, i quali, potendosi i loro genitori ad ogni ora dividere, eglino, abbandonati da entrambi, deono giacer esposti per esser divorati da’ cani; e, se l’umanitá o pubblica o privata non gli allevasse, dovrebbero crescere senza avere chi insegnasse loro religione, né lingua, né altro umano costume. Onde, quanto è per essi, di questo mondo di nazioni, di tante belle arti dell’umanitá arricchito ed adorno, vanno a fare la grande antichissima selva per entro a cui divagavano con nefario ferino errore le brutte fiere d’Orfeo, delle qual’i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole usavano la venere bestiale. Ch’è l’infame nefas del mondo eslege, che Socrate con ragioni fisiche poco propie voleva pruovare esser vietato dalla natura, essendo egli vietato dalla natura umana, perché tali concubiti appo tutte le nazioni sono naturalmente abborriti, né da talune furono praticati che nell’ultima loro corrozione, come da’ persiani.

[337] Finalmente, quanto gran principio dell’umanitá sieno le seppolture, s’immagini uno stato ferino nel quale restino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esser ésca de’ corvi e cani; ché certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d’esser incolti i campi nonché disabitate le cittá, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, còlte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde a gran ragione le seppolture con quella espressione sublime «foedera generis humani» ci furono diffinite e, con minor

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grandezza, «humanitatis commercia» ci furono descritte da Tacito. Oltrecché, questo è un placito nel quale certamente son convenute tutte le nazioni gentili: che l’anime restassero sopra la terra inquiete ed andassero errando intorno a’ loro corpi inseppolti, e ’n conseguenza che non muoiano co’ loro corpi, ma che sieno immortali. E che tale consentimento fusse ancora stato dell’antiche barbare, ce ne convincono i popoli di Guinea, come attesta Ugone Linschotano; di quei del Perú e del Messico, Acosta, De indicis; degli abitatori della Virginia, Tommaso Aviot; di quelli della Nuova Inghilterra, Riccardo Waitbornio; di quelli del regno di Sciam, Giuseffo Scultenio. Laonde Seneca conchiude: «Quum de immortalitate loquimur, non leve momentum apud nos habet consensus hominum aut timentium inferos aut colentium: hac persuasione publica utor».
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[SEZIONE QUARTA]
Del metodo

[338] Per lo intiero stabilimento de’ princípi, i quali si sono presi di questa Scienza, ci rimane in questo primo libro di ragionare del metodo che debbe ella usare. Perché, dovendo ella cominciare donde ne incominciò la materia, siccome si è proposto nelle Degnitá; e sí avendo noi a ripeterla, per gli filologi, dalle pietre di Deucalione e Pirra, da’ sassi d’Anfione, dagli uomini nati o da’ solchi di Cadmo o dalla dura rovere di Virgilio e, per gli filosofi, dalle ranocchie d’Epicuro, dalle cicale di Obbes, da’ semplicioni di Grozio, da’ gittati in questo mondo senza niuna cura o aiuto di Dio di Pufendorfio, goffi e fieri quanto i giganti detti «los patacones», che dicono ritruovarsi presso lo stretto di Magaglianes, cioè da’ polifemi d’Omero, ne’ quali Platone riconosce i primi padri nello stato delle famiglie (questa scienza ci han dato de’ princípi dell’umanitá cosí i filologi come i filosofi!); — e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente pensare; — e, nella loro immane fierezza e sfrenata libertá bestiale, non essendovi altro mezzo, per addimesticar quella ed infrenar questa, ch’uno spaventoso pensiero d’una qualche divinitá, il cui timore, come si è detto nelle Degnitá, è ’l solo potente mezzo di ridurre in ufizio una libertá inferocita: — per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilitá, incontrammo l’aspre difficultá che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e [dovemmo] discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere

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ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d’intendere.

[339] Per tutto ciò dobbiamo cominciare da una qualche cognizione di Dio, della quale non sieno privi gli uomini, quantunque selvaggi, fieri ed immani. Tal cognizione dimostriamo esser questa: che l’uomo, caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, disidera una cosa superiore che lo salvasse. Ma cosa superiore alla natura è Iddio, e questo è il lume ch’Iddio ha sparso sopra tutti gli uomini. Ciò si conferma con questo comune costume umano: che gli uomini libertini, invecchiando, perché si sentono mancare le forze naturali, divengono naturalmente religiosi.

[340] Ma tali primi uomini, che furono poi i principi delle nazioni gentili, dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch’è il pensare da bestie. Quindi dobbiamo andare da una volgare metafisica (la quale si è avvisata nelle Degnitá, e truoveremo che fu la teologia de’ poeti), e da quella ripetere il pensiero spaventoso d’una qualche divinitá, ch’alle passioni bestiali di tal’uomini perduti pose modo e misura e le rendé passioni umane. Da cotal pensiero dovette nascere il conato, il qual è propio dell’umana volontá, di tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo, per o affatto acquetargli, ch’è dell’uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad usi migliori, ch’è dell’uomo civile. Questo infrenar il moto de’ corpi certamente egli è un effetto della libertá dell’umano arbitrio, e sí della libera volontá, la qual è domicilio e stanza di tutte le virtú, e, tralle altre, della giustizia, da cui informata, la volontá è ’l subbietto di tutto il giusto e di tutti i diritti che sono dettati dal giusto. Perché dar conato a’ corpi tanto è quanto dar loro libertá di regolar i lor moti, quando i corpi tutti sono agenti necessari in natura; e que’ ch’i meccanici dicono «potenze», «forze», «conati» sono moti insensibili d’essi corpi, co’ quali essi o s’appressano, come volle la meccanica antica, a’ loro centri di gravitá, o s’allontanano, come vuole la meccanica nuova, da’ loro centri del moto.

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[341] Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, sono tiranneggiati dall’amor propio, per lo quale non sieguono principalmente che la propia utilitá; onde eglino, volendo tutto l’utile per sé e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l’uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle cittá; distesi gl’imperi sopra piú popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l’uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l’utilitá propia. Adunque, non da altri che dalla provvedenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l’umana societá; per gli quali ordini, non potendo l’uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell’utilitá: ch’è quel che dicesi «giusto». Onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per conservare l’umana societá.

[342] Perciò questa Scienza, per uno de’ suoi principali aspetti, dev’essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina, la quale sembra aver mancato finora. Perché i filosofi o l’hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de’ quali questi dicono che un concorso cieco d’atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d’effetti strascina le faccende degli uomini; o l’hanno considerata solamente sull’ordine delle naturali cose, onde «teologia naturale» essi chiamano la metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e ’l confermano con l’ordine fisico che si osserva ne’ moti de’ corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion finale sopra l’altre naturali cose minori osservata. E pure sull’iconomia delle cose civili essi ne dovevano ragionare con tutta la propietá della voce, con la quale la provvedenza fu appellata «divinitá» da «divinari», «indovinare», ovvero

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intendere o ’l nascosto agli uomini, ch’è l’avvenire, o ’l nascosto degli uomini, ch’è la coscienza; ed è quella che propiamente occupa la prima e principal parte del subbietto della giurisprudenza, che son le cose divine, dalle quali dipende l’altra che ’l compie, che sono le cose umane. Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per cosí dire, di fatto istorico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran cittá del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch’ella v’ha posto sono universali ed eterni.

[343] Per tutto ciò, entro la contemplazione di essa provvedenza infinita ed eterna questa Scienza ritruova certe divine pruove, con le quali si conferma e dimostra. Imperciocché la provvedenza divina, avendo per sua ministra l’onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi umani; perc’ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi dispone debbe essere tutto ordine; perch’ha per suo fine la sua stessa immensa bontá, quanto vi ordina debb’esser indiritto a un bene sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini.

[344] Per tutto ciò, nella deplorata oscuritá de’ princípi e nell’innumerabile varietá de’ costumi delle nazioni, sopra un argomento divino che contiene tutte le cose umane, qui pruove non si possono piú sublimi disiderare che queste istesse che ci daranno la naturalezza, l’ordine e ’l fine, ch’è essa conservazione del gener umano. Le quali pruove vi riusciranno luminose e distinte, ove rifletteremo con quanta facilitá le cose nascono ed a quali occasioni, che spesso da lontanissime parti, e talvolta tutte contrarie ai proponimenti degli uomini, vengono e vi si adagiano da se stesse; e tali pruove ne somministra l’onnipotenza. Combinarle e vederne l’ordine, a quali tempi e luoghi loro propi nascono le cose ora, che vi debbono nascer ora, e l’altre si differiscono nascer ne’ tempi e ne’ luoghi loro, nello che, all’avviso d’Orazio, consiste tutta la bellezza dell’ordine;

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e tali pruove ci apparecchia l’eterna sapienza. E finalmente considerare se siam capaci d’intendere se, a quelle occasioni, luoghi e tempi, potevano nascere altri benefíci divini, co’ quali, in tali o tali bisogni o malori degli uomini, si poteva condurre meglio a bene e conservare l’umana societá; e tali pruove ne dará l’eterna bontá di Dio.

[345] Onde la propia continua pruova che qui farassi sará il combinar e riflettere se la nostra mente umana, nella serie de’ possibili la quale ci è permesso d’intendere, e per quanto ce n’è permesso, possa pensare o piú o meno o altre cagioni di quelle ond’escono gli effetti di questo mondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverá un divin piacere, in questo corpo mortale, di contemplare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa de’ loro luoghi, tempi e varietá; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei che ’l loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni parte l’uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la qual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall’onnipotente, saggia e benigna volontá dell’Ottimo Massimo Dio.

[346] Queste sublimi pruove teologiche naturali ci saran confermate con le seguenti spezie di pruove logiche: che, nel ragionare dell’origini delle cose divine ed umane della gentilitá, se ne giugne a que’ primi oltre i quali è stolta curiositá di domandar altri primi, ch’è la propia caratteristica de’ princípi; se ne spiegano le particolari guise del loro nascimento, che si appella «natura», ch’è la nota propissima della scienza; e finalmente si confermano con l’eterne propietá che conservano, le quali non posson altronde esser nate che da tali e non altri nascimenti, in tali tempi, luoghi e con tali guise, o sia da tali nature, come se ne sono proposte sopra due degnitá.

[347] Per andar a truovare tali nature di cose umane procede questa Scienza con una severa analisi de’ pensieri umani d’intorno all’umane necessitá o utilitá della vita socievole, che sono i due fonti perenni del diritto natural delle genti, come pure nelle Degnitá si è avvisato. Onde, per quest’altro principale suo aspetto, questa Scienza è una storia dell’umane idee,

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sulla quale sembra dover procedere la metafisica della mente umana; la qual regina delle scienze, per la degnitá che «le scienze debbono incominciare da che n’incominciò la materia», cominciò d’allora ch’i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non giá da quando i filosofi cominciaron a riflettere sopra l’umane idee (come ultimamente n’è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all’ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa etá, il Leibnizio e ’l Newtone).

[348] E per determinar i tempi e i luoghi a sí fatta istoria, cioè quando e dove essi umani pensieri nacquero, e sí accertarla con due sue propie cronologia e geografia, per dir cosí, metafisiche, questa Scienza usa un’arte critica, pur metafisica, sopra gli autori d’esse medesime nazioni, tralle quali debbono correre assai piú di mille anni per potervi provenir gli scrittori, sopra i quali la critica filologica si è finor occupata. E ’l criterio di che si serve, per una degnitá sovraposta, è quello, insegnato dalla provvedenza divina, comune a tutte le nazioni; ch’è ’l senso comune d’esso gener umano, determinato dalla necessaria convenevolezza delle medesime umane cose, che fa tutta la bellezza di questo mondo civile. Quindi regna in questa Scienza questa spezie di pruove: che tali dovettero, debbono e dovranno andare le cose delle nazioni quali da questa Scienza son ragionate, posti tali ordini dalla provvedenza divina, fusse anco che dall’eternitá nascessero di tempo in tempo mondi infiniti; lo che certamente è falso di fatto.

[349] Onde questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna, sopra la quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Anzi ci avvanziamo ad affermare ch’in tanto chi medita questa Scienza egli narri a se stesso questa storia ideal eterna, in quanto — essendo questo mondo di nazioni stato certamente fatto dagli uomini (ch’è ’l primo principio indubitato che se n’è posto qui sopra), e perciò dovendosene ritruovare la guisa dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana — egli, in quella pruova «dovette, deve, dovrá»,

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esso stesso sel faccia; perché, ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere piú certa l’istoria. Cosí questa Scienza procede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o ’l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto piú di realitá quanta piú ne hanno gli ordini d’intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure. E questo istesso è argomento che tali pruove sieno d’una spezie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un divin piacere, perocché in Dio il conoscer e ’l fare è una medesima cosa.

[350] Oltracciò, quando, per le diffinizioni del vero e del certo sopra proposte, gli uomini per lunga etá non poteron esser capaci del vero e della ragione, ch’è ’l fonte della giustizia interna, della quale si soddisfano gl’intelletti — la qual fu praticata dagli ebrei, che, illuminati dal vero Dio erano proibiti dalla di lui divina legge di far anco pensieri meno che giusti, de’ quali niuno di tutti i legislatori mortali mai s’impacciò (perché gli ebrei credevano in un Dio tutto mente che spia nel cuor degli uomini, e i gentili credevano negli dèi composti di corpi e mente che nol potevano); e fu poi ragionata da’ filosofi, i quali non provennero che due mila anni dopo essersi le loro nazioni fondate; — [la provvedenza dispose che] frattanto si governassero col certo dell’autoritá, cioè con lo stesso criterio ch’usa questa critica metafisica, il qual è ’l senso comune d’esso gener umano (di cui si è la diffinizione sopra, negli Elementi, proposta), sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni. Talché, per quest’altro principale riguardo, questa Scienza vien ad essere una filosofia dell’autoritá, ch’è ’l fonte della «giustizia esterna» che dicono i morali teologi. Della qual autoritá dovevano tener conto gli tre principi della dottrina d’intorno al diritto natural delle genti, e non di quella tratta da’ luoghi degli scrittori; della quale niuna contezza aver poterono gli scrittori, perché tal autoritá regnò tralle nazioni assai piú di mille anni innanzi di potervi provenir gli scrittori. Onde Grozio, piú degli altri due come dotto cosí erudito, quasi in ogni particolar materia di tal dottrina combatte i romani

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giureconsulti; ma i colpi tutti cadono a vuoto, perché quelli stabilirono i loro princípi del giusto sopra il certo dell’autoritá del gener umano, non sopra l’autoritá degli addottrinati.

[351] Queste sono le pruove filosofiche ch’userá questa Scienza, e ’n conseguenza quelle che per conseguirla son assolutamente necessarie. Le filologiche vi debbono tenere l’ultimo luogo, le quali tutte a questi generi si riducono:

[352] Primo, che sulle cose le quali si meditano vi convengono le nostre mitologie, non isforzate e contorte, ma diritte, facili e naturali, che si vedranno essere istorie civili de’ primi popoli, i quali si truovano dappertutto essere stati naturalmente poeti.

[353] Secondo, vi convengono le frasi eroiche, che vi si spiegano con tutta la veritá de’ sentimenti e tutta la propietá dell’espressioni.

[354] Terzo, che vi convengono l’etimologie delle lingue natie, che ne narrano le storie delle cose ch’esse voci significano, incominciando dalla propietá delle lor origini e prosieguendone i naturali progressi de’ lor trasporti secondo l’ordine dell’idee, sul quale dee procedere la storia delle lingue, come nelle Degnitá sta premesso.

[355] Quarto, vi si spiega il vocabolario mentale delle cose umane socievoli, sentite le stesse in sostanza da tutte le nazioni e per le diverse modificazioni spiegate con lingue diversamente, quale si è nelle Degnitá divisato.

[356] Quinto, vi si vaglia dal falso il vero in tutto ciò che per lungo tratto di secoli ce ne hanno custodito le volgari tradizioni, le quali, perocché sonosi per sí lunga etá e da intieri popoli custodite, per una degnitá sopraposta debbon avere avuto un pubblico fondamento di vero.

[357] Sesto, i grandi frantumi dell’antichitá, inutili finor alla scienza perché erano giaciuti squallidi, tronchi e slogati, arrecano de’ grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne’ luoghi loro.

[358] Settimo ed ultimo, sopra tutte queste cose, come loro necessarie cagioni, vi reggono tutti gli effetti i quali ci narra la storia certa.

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[359] Le quali pruove filologiche servono per farci vedere di fatto le cose meditate in idea d’intorno a questo mondo di nazioni, secondo il metodo di filosofare del Verulamio, ch’è «cogitare videre»; ond’è che, per le pruove filosofiche innanzi fatte, le filologiche, le quali succedono appresso, vengono nello stesso tempo e ad aver confermata l’autoritá loro con la ragione ed a confermare la ragione con la loro autoritá.

[360] Conchiudiamo tutto ciò che generalmente si è divisato d’intorno allo stabilimento de’ princípi di questa Scienza: che, poiché i di lei princípi sono provvedenza divina, moderazione di passioni co’ matrimoni e immortalitá dell’anime umane con le seppolture; e ’l criterio che usa è che ciò che si sente giusto da tutti o la maggior parte degli uomini debba essere la regola della vita socievole (ne’ quali princípi e criterio conviene la sapienza volgare di tutti i legislatori e la sapienza riposta degli piú riputati filosofi): questi deon esser i confini dell’umana ragione. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l’umanitá.

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